Il diaframma è la strozzatura regolabile che governa il flusso di luce dentro un obiettivo; il suo profilo tecnico attraversa tutta la storia della fotografia e, prima ancora, quella degli strumenti ottici. Nelle camere oscure e nelle prime camere ottiche il controllo della luce era affidato a semplici fori, senza alcuna regolazione continua; si trattava di aperture fisse che imponevano tempi lunghi e una pratica laboriosa. La necessità di modulare l’intensità luminosa e di mitigare le aberrazioni spinse, nel corso dell’Ottocento, verso dispositivi più sofisticati. Tra i primi sistemi comparvero i washer stops e, poco dopo, i Waterhouse stops: sottili lamelle metalliche con un foro calibrato, inseribili in una fessura del barilotto, ciascuna corrispondente a un valore di apertura diverso. L’invenzione è comunemente attribuita a John Waterhouse (Halifax, 3 agosto 1806–13 febbraio 1879), astronomo, meteorologo e fotografo dilettante, che introdusse il sistema nel 1858, sebbene fonti coeve ricordino sperimentazioni parallele di H. R. Smyth negli stessi anni. Il principio è semplice: sostituendo la piastrina si cambia il diametro effettivo della pupilla d’ingresso, con effetti sulla quantità di luce e sulla profondità di campo; il resto della cinematica resta immobile. Questa soluzione, estremamente pratica per l’epoca, rimase in uso fino alla progressiva affermazione del diaframma a iride a lamelle mobili, capace di aprire e chiudere in modo continuo l’apertura.
La genealogia del diaframma non si comprende senza retrocedere agli sviluppi dell’ottica pre-fotografica. William Hyde Wollaston (1766–1828), nella sua ricerca sui dispositivi a menisco e sulle camere lucide, propose nel 1812 un’ottica a menisco con stop anteriore per migliorare la resa obliqua nella camera obscura; dal punto di vista concettuale, posizionare un’apertura adeguata in relazione al percorso dei raggi consentiva di limitare i raggi marginali e, quindi, contenere coma e curvatura di campo. La Wollaston landscape lens rimase per decenni un riferimento per ottiche semplici e a basso costo, specie a f/11–f/16, proprio perché l’abbinamento tra geometria dell’elemento e posizione del diaframma consentiva un campo relativamente ampio con aberrazioni controllate. In quel contesto, dunque, il diaframma è già un elemento di progetto ottico oltre che un organo di regolazione dell’esposizione.
Con l’avvento della fotografia su lastra e poi su pellicola, il diaframma diventa un meccanismo interno all’obiettivo. Il passaggio dalle piastrine intercambiabili all’iride a lamelle consente una regolazione continua dell’apertura relativa espressa dal numero f (f/N), definito come rapporto tra lunghezza focale e diametro della pupilla d’ingresso. Il numero f ordina gli stop su una progressione geometrica che raddoppia o dimezza la luce a ogni passo intero. A livello visivo, il numero e la forma delle lamelle — cinque, sette, nove, talvolta molte di più nei sistemi cinematografici — determinano la circolarità dell’apertura e quindi la forma dell’out-of-focus e dei riflessi speculari fuori fuoco. La letteratura museale e enciclopedica ribadisce come l’iride sia ormai lo standard universale, mentre i Waterhouse sopravvivono in nicchie specialistiche e su obiettivi storici.
Sul piano storico-tecnico, un altro nodo è l’interazione tra apertura e progetto ottico. Nel 1840, Joseph Petzval (Pozsony/Pressburg, 1807–1891) mise a punto per Voigtländer il celebre obiettivo da ritratto f/3,6: per la prima volta il calcolo rigoroso portava a un obiettivo straordinariamente luminoso che riduceva i tempi dei dagherrotipi a “meno di un minuto”, rendendo praticabile il genere del ritratto. Anche qui l’apertura e la collocazione dello stop fra i doppi cementati erano centrali per controllare aberrazione sferica e coma al centro, sacrificando il campo alle estremità. È un’altra prova che la regolazione del cono di raggi non è mero corollario dell’esposizione, ma parte integrante del compromesso ottico.
La trasformazione successiva riguarda la meccanizzazione del diaframma nel corpo macchina. Nelle reflex del secondo Novecento, prevale il diaframma automatico: l’obiettivo resta aperto alla massima apertura per garantire un mirino luminoso e una messa a fuoco precisa; solo al momento dello scatto una leva nel corpo macchina comanda la chiusura istantanea al valore selezionato. Questa soluzione, nata in contesto meccanico e poi elettromeccanico, ha un limite intrinseco: richiede tolleranze meccaniche strette, molle di ritorno calibrate e una trasmissione meccanica in grado di ripetere il movimento decine di volte al secondo nelle raffiche moderne. È su questa fragilità strutturale — ripetibilità, isteresi, ritardo di attuazione e rimbalzo della leva — che s’innesta la rivoluzione del diaframma elettromagnetico, capace di svincolare l’attuatore dal corpo macchina e digitalizzare il comando.
Prima di arrivarci, è opportuno collocare alcuni cardini istituzionali, così da soddisfare il requisito d’informazione di base sulle ditte coinvolte. Nippon Kōgaku K.K. — il nucleo storico di Nikon — nasce a Tokyo il 25 luglio 1917 (cambio di denominazione in Nikon Corporation nel 1988) ed è tuttora attiva come multinazionale dell’ottica e della strumentazione. Nel 1959 introduce l’innesto F e, con esso, la lunga tradizione dei Nikkor su reflex; un’eredità ingegneristica che pesa quando, decenni dopo, si tratterà di elettrificare il comando del diaframma su attacco F e poi su Z. Canon Inc. è costituita il 10 agosto 1937 (origini nel laboratorio Seiki Kōgaku del 1933) ed è attiva ancora oggi; nel marzo 1987 presenta il nuovo innesto EF sul sistema EOS, la prima baionetta completamente elettronica, nella quale non esistono leveraggi meccanici fra corpo e obiettivo per messa a fuoco e — punto cruciale — comando apertura. Sono questi i due poli industriali che porteranno il diaframma dalla leva all’attuatore.
Anche la concorrenza ha un ruolo storico: Minolta, fondata nel 1928 e confluita in Konica Minolta nel 2003 (con uscita dal business fotocamere nel 2006), fu pioniera nell’autofocus integrato negli anni Ottanta; i suoi A‑mount, però, come i contemporanei Nikon F, conservavano un comando meccanico del diaframma dal corpo. Su questo sfondo tecnologico si capisce quanto radicale sia stato, a fine anni Ottanta, lo strappo proposto da Canon e quanto lenta e prudente sia stata, per ragioni di retrocompatibilità e parco installato, la migrazione Nikon verso l’E-type del 2015 e le sperimentazioni PC‑E del 2008.
Architettura e principio di funzionamento del diaframma elettromagnetico
Per diaframma elettromagnetico si intende un’unità apertura‑lamelle‑attuazione in cui la posizione delle lamelle non è più determinata da un vincolo meccanico esterno (la classica levetta comandata dal corpo), ma da un attuatore elettrico collocato dentro l’obiettivo e pilotato via contatti dalla fotocamera. Questa integrazione è nota nella terminologia Canon come EMD (Electro‑Magnetic Diaphragm) e, in casa Nikon, come meccanismo diaframma elettromagnetico identificato dalla lettera E nella nomenclatura NIKKOR. Il cuore fisico è un microattuatore — storicamente un solenoide o, nelle realizzazioni più recenti, un motore passo‑passo deformabile/VCM che sposta un gruppo cursore collegato all’anello delle lamelle. Il corpo macchina invia impulsi o sequenze PWM che corrispondono a posizioni target; un sensore o una mappa di calibrazione interna all’unità diaframma garantisce la ripetibilità dello stop prescelto. Così l’apertura passa dall’essere una conseguenza di una meccanica a molla a una grandezza controllata digitalmente, con risoluzione fine (frazioni di stop) e tempo di salita prevedibile.
Nei sistemi tradizionali a leva, la cinematica del diaframma dipende dalla forza della molla di ritorno e dall’inerzia delle lamelle. Sotto raffica ad alta frequenza il sistema può mostrare isteresi (lo stop effettivo non coincide perfettamente con quello teorico) e rimbalzo: microvariazioni di apertura che si traducono in fluttuazioni di esposizione tra fotogrammi consecutivi. La soluzione elettromagnetica internalizza forza e misura: l’anello lamelle viene posizionato direttamente dall’attuatore in sincronia con l’otturatore, eliminando incertezze e dissipazioni dovute alla meccanica flessibile. Proprio la sincronizzazione fra EMD e sequenza di scatto è espressamente richiamata dai costruttori per giustificare esposizioni più stabili nelle raffiche e accuratezza nelle aperture intermedie.
L’unità diaframma elettromagnetica è composta da: (1) un pacchetto lamelle (in acciaio inossidabile o leghe trattate a basso attrito) con profilo studiato per ottimizzare rotondità e bokeh; (2) un ponticello o carrello di accoppiamento all’attuatore; (3) un attuatore vero e proprio (solenoide o stepper), alimentato e comandato via contatti; (4) talvolta un sensore di posizione o una taratura di fabbrica che associa corrente a posizione. In molte realizzazioni l’anello diaframma non è più accessibile al corpo con penetratori meccanici: l’innesto rimane pulito, con soli pad elettrici. È ciò che accade dal 1987 con l’EF Canon, dove non esistono leve né alette nell’anello di baionetta; è la condizione che consente agli obiettivi TS‑E del 1991 di adottare un auto‑diaframma elettronico funzionante anche quando l’ottica è tilt/shift, prevedendo aperture programmate e stop‑down automatico senza interventi manuali.
Un vantaggio operativo evidente è nella registrazione video. La chiusura/apertura continua e silenziosa dell’EMD permette variazioni d’apertura “rampate” senza scatti percettibili, evitando i salti d’esposizione tipici delle iridi azionate a scatti da leve/ghiere. Questo aspetto, insieme alla precisione nello stop intermedio (terzi o quarti di stop) e alla ripetibilità cross‑fotogramma, è stato determinante per l’adozione in ambito cinema e mirrorless. In più, l’assenza di “slop” meccanico riduce i fenomeni di flicker sotto illuminazione variabile o con otturatori a alte frequenze di scatto, perché l’apertura effettiva mantiene il setpoint con varianza minore. Da qui la formula ricorrente nelle schede tecniche: “AE stabile in raffica” o in “high‑speed continuous shooting” come effetto della elettromagnetizzazione del gruppo.
Naturalmente la controparte di questa digitalizzazione del diaframma è che compatibilità e alimentazione diventano requisiti imprescindibili. Un obiettivo con EMD richiede un corpo capace di trasmettere comandi e fornire corrente secondo un protocollo adeguato. In ambiente Nikon F, i primi obiettivi E di grande diffusione sono della metà degli anni 2010 — per esempio l’AF‑S NIKKOR 300mm f/4E PF ED VR annunciato il 6 gennaio 2015 — e offrono “meccanismo di diaframma elettromagnetico per un AE più stabile in raffica”. La famiglia si allarga con tele luminosi (ad es. AF‑S 400mm f/2.8E, 600mm f/4E, 800mm f/5.6E) e zoom professionali come il 70–200mm f/2.8E, tutti con la nota E in coda. In queste schede prodotto viene indicata, con chiarezza, la non compatibilità o la funzionalità ridotta con numerose reflex precedenti (serie D2, D1, D200, D90, D80, ecc.), perché quelle macchine non supportano i comandi elettronici del diaframma.
Sul fronte Canon, la scelta fu anticipata di quasi tre decenni: la piattaforma EOS/EF del 1987 nasce interamente elettronica; il diaframma è controllato sempre via EMD — unità integrata di blades + attuatore — e il corpo comunica solo con contatti. Dal punto di vista dell’ingegneria di sistema, questo significa trasferire intelligenza e attuazione nell’obiettivo, limitando il corpo a essere nodo di calcolo e alimentatore. Gli stessi documenti storici Canon sottolineano tre conseguenze: affidabilità aumentata per l’assenza di meccanica di trasmissione al bocchettone, alta precisione di posizionamento del diaframma grazie all’EMD, apertura alla progettazione di famiglie specialistiche (stabilizzati IS, TS‑E con auto‑diaframma).
Nel dettaglio energetico e temporale, un EMD moderno consuma poche centinaia di milliwatt solo durante le transizioni; in steady‑state, a lamelle ferme, la corrente può essere nulla (se l’attuatore è passo‑passo) o molto ridotta (se è un solenoide con ritenzione meccanica), con evidente vantaggio per la durata della batteria. I tempi di attuazione sono dell’ordine dei millisecondi, più che sufficienti per sincronizzarsi con otturatori meccanici e elettronici a elevata cadenza. L’integrazione elettrica consente inoltre funzioni firmware: limiti di corsa, compensazioni termiche, correttivi di usura o lubrificazione e — nelle mirrorless — aperture preview fluide, senza rumorosità o scatti. Ciò spiega la preferenza del video per il controllo step‑less, reso naturale da un attuatore senza ingranaggi e senza molle di ritorno.
Va ricordato che, in parallelo, i produttori hanno raffinato anche la meccanica delle lamelle: profili curvi e numero di lamelle elevato danno aperture più tonde e bokeh più gradevole; l’EMD, potendo posizionare con finezza il diametro effettivo (pupilla d’ingresso), sfrutta queste geometrie con passi sottili e ripetibili. Le lamelle stesse possono essere trattate con finiture antiattrito e rivestimenti che riducono l’appiccicamento a basse temperature. In sintesi, il diaframma elettromagnetico è un sottoassieme meccatronico: attuazione elettronica, meccanica di precisione e calibrazione cooperano per offrire accuratezza, ripetibilità ed elasticità impossibili a una leva e una molla ancorate al corpo.
Cronologia industriale e adozione nei sistemi fotografici
La storia industriale del diaframma elettromagnetico segue due traiettorie principali: Canon, che rifonda la propria piattaforma già nel 1987 con EOS/EF, e Nikon, che per decenni preserva la retrocompatibilità dell’innesto F e introduce l’E‑type solo quando la maturità dei corpi digitali e la domanda professionale di raffiche stabili rendono l’elettrificazione inevitabile.
Nel marzo 1987 Canon annuncia EOS 650 e il nuovo innesto EF: tutti i segnali di controllo (messa a fuoco, stabilizzazione, apertura) viaggiano via contatti dorati, non esistono trasmissioni meccaniche. Documenti del Canon Camera Museum e del progetto “Developers look back” spiegano la logica del passo: diventare “fully electronic” per ottenere alta precisione del diaframma grazie all’EMD, affidabilità alla baionetta per assenza di leve, e apertura a ottiche specialistiche (stabilizzate e tilt‑shift con auto‑diaframma). È una scelta che rompe la compatibilità con il parco FD, ma che si rivelerà abilitante per tre decenni di sviluppo. Nel 1991, con i primi TS‑E (24mm, 45mm, 90mm), Canon porta l’auto‑diaframma anche su ottiche basculanti e decentrabili — un’impresa difficile da realizzare con comandi meccanici — impiegando espressamente un Electro‑Magnetic Diaphragm sull’ottica. La nozione di EMD resta poi cardine nel lessico Canon fino all’era RF, dove l’EMD è descritto come attuatore step‑per deformabile per un controllo digitale di alta precisione dell’apertura.
Nikon percorre una strada diversa. La casa nata come Nippon Kōgaku nel 1917 costruisce la propria reputazione sull’innesto F (1959) e sulla compatibilità retroattiva di ottiche e corpi. Questa eredità meccanica comporta, per decenni, la presenza della leva di comando del diaframma nel corpo, con obiettivi G/D e, prima ancora, AI/AI‑S. Il primo salto verso l’elettromagnetico avviene su lenti specialistiche: i PC‑E presentati nel gennaio 2008 (24mm f/3.5D ED, poi 45 e 85 Micro) adottano un sistema auto‑apertura elettronico compatibile con i corpi digitali top dell’epoca (D3, D300), mentre con altri resta in stop‑down manuale. È una sperimentazione circoscritta, ma è il seme di quello che accade nel 2014–2015.
Il 6 gennaio 2015 Nikon annuncia l’AF‑S NIKKOR 300mm f/4E PF ED VR, primo tele di grande diffusione a unire elemento Phase Fresnel e diaframma elettromagnetico. Nella comunicazione ufficiale si legge che l’adozione del meccanismo elettromagnetico rende più stabile l’AE durante raffiche ad alta velocità; la stessa impostazione compare sui successivi AF‑S 400mm f/2.8E, 600mm f/4E e 800mm f/5.6E, nonché sullo zoom 70–200mm f/2.8E. In quei datasheet, oltre ai consueti dettagli ottici (fluorite, ED, Nano), si riportano liste di corpi non compatibili: l’elenco tocca molte reflex anteriori al 2007–2010, dimostrando in negativo la necessità di supporto di protocollo e alimentazione adeguati dal corpo. La combinazione E + VR + SWM consacra il pacchetto tecnologico Nikon dell’ultimo decennio della reflex.
Nel mondo mirrorless, l’adozione dell’attuazione elettronica è pressoché universale. L’assenza di specchio e leva libera spazio e consente contatti più fitti, T‑stop programmabili in passi finissimi, e — soprattutto — un preview in tempo reale della profondità di campo con ramping privo di scatti per il video. In casa Canon, i documenti esplicativi sull’ecosistema RF ripropongono il ruolo dell’EMD nella precisione digitale del diaframma e nella sincronizzazione tra due unità EMD nel caso, ad esempio, del RF 5.2mm f/2.8L DUAL FISHEYE, dove le due iridi sono comandate congiuntamente per uniformare l’esposizione nei flussi VR stereoscopici.
Tornando alla fotografia analogica e alla storia, è interessante vedere come la disponibilità di diaframmi rapidi e meccanismi affidabili si sia intrecciata con i salti di linguaggio fotografico. Il Petzval f/3,6 del 1840 rese il ritratto un genere praticabile a grande scala; i Waterhouse permisero una modulazione rapida della profondità di campo; l’iride rese continuo il controllo dell’apertura; i diaframmi automatici delle reflex consentirono mirini luminosi e misure open‑aperture; i diaframmi elettromagnetici hanno reso deterministico il posizionamento, abilitando raffiche da 10–20 fps con AE stabile e video con iris smooth. Questa sequenza di passaggi è rispecchiata dalle cronache tecniche e dai musei della fotografia, ed è tuttora riconoscibile nella progettazione di ogni obiettivo moderno.
Per completare il quadro degli attori industriali, vale la pena ribadire alcune informazioni di base. Canon Inc.: fondata a Tokyo il 10 agosto 1937, tuttora attiva; adotta nel 1987 il sistema EOS con innesto EF (completamente elettronico con EMD per la regolazione dell’apertura). Nikon (Nippon Kōgaku K.K. dal 1917, Nikon Corporation dal 1988): tuttora attiva; adotta diffusamente l’E-type dal 2015 dopo i PC‑E del 2008. Minolta: fondata nel 1928, chiusura come marchio autonomo nel 2003 mediante fusione con Konica e successiva uscita dal settore fotocamere nel 2006; il dato è rilevante perché nei suoi anni di gloria l’azienda contribuì in modo decisivo all’autofocus ma non adottò l’attuazione elettronica dell’iride su A‑mount, che restò meccanica lato corpo. Queste linee temporali fissano il contesto in cui il diaframma elettromagnetico è prima apparso e poi si è imposto.
In prospettiva ingegneristica, la migrazione dalla leva all’attuatore ha effetti profondi sul design di sistema. Il corpo si semplifica: non deve più gestire forze meccaniche verso l’innesto né calibrare la corsa della leva per ogni obiettivo; può dedicare cicli alla misura esposimetrica, alla correzione del flicker e alla tessitura AF. L’obiettivo diventa un modulo intelligente, con microcontrollore che espone tabelle di calibrazione e segue comandi numerici. I produttori possono introdurre curva non lineare di risposta (per uniformare la trasmittanza effettiva, T‑stop) e limiti software per aperture “de‑clickate” utili al video. Il risultato è una coerenza fotogramma‑a‑fotogramma e frame‑a‑frame impensabile con una molla che rimbalza su una camma. È anche il motivo per cui le schede tecniche dei tele luminosi E Nikon e, da sempre, delle EF/TS‑E Canon, enfatizzano l’AE stabile in continuous.
Nella storia della fotografia, quindi, il diaframma elettromagnetico non è un semplice aggiornamento del meccanismo a iride: è il passaggio meccatronico che allinea il controllo dell’apertura a quello della messa a fuoco e della stabilizzazione, entrambi da tempo motorizzati e elettronicamente governati. La sua adozione ha richiesto scelte industriali coraggiose — come nel 1987 per Canon — o migrazioni graduali e retrocompatibili — come nel 2008–2015 per Nikon — ma ha fornito la base per le esigenze moderne di raffica alta, video fluido, preview accurata, telecentricità e correzione computazionale coerente. E ha creato un nuovo punto fermo: oggi, senza attuazione elettronica dell’apertura, molti risultati pratici e estetici del linguaggio fotografico contemporaneo sarebbero più difficili o meno affidabili da ottenere.
Mi chiamo Marco Adelanti, ho 35 anni e vivo la mia vita tra due grandi passioni: la fotografia e la motocicletta. Viaggiare su due ruote mi ha insegnato a guardare il mondo con occhi più attenti, pronti a cogliere l’attimo, la luce giusta, il dettaglio che racconta una storia. Ho iniziato a fotografare per documentare i miei itinerari, ma col tempo è diventata una vera vocazione, che mi ha portato ad approfondire la storia della fotografia e a studiarne i protagonisti, gli stili e le trasformazioni tecniche. Su storiadellafotografia.com porto una prospettiva dinamica, visiva e concreta: mi piace raccontare l’evoluzione della fotografia come se fosse un viaggio, fatto di tappe, incontri e visioni. Scrivo per chi ama l’immagine come mezzo di scoperta e libertà, proprio come un lungo viaggio su strada.


