Gerta Pohorylle, nota come Gerda Taro, nacque a Stoccarda il 1º agosto 1910 e morì per le ferite riportate al fronte presso El Escorial (Spagna) il 26 luglio 1937. Attiva come fotoreporter tra il 1935 e il 1937, è universalmente ricordata come una delle prime donne fotografe di guerra e come la prima fotoreporter a morire mentre documentava un conflitto in prima linea. Fu sepolta al Cimitero del Père-Lachaise a Parigi, dove la sua figura venne celebrata con una grande cerimonia funebre il 1º agosto 1937.
Formazione, militanza politica e trasferimento a Parigi
Gerda Taro nasce in una famiglia ebrea di origine polacca trapiantata in Germania; l’infanzia e la giovinezza si svolgono nella Stoccarda e quindi a Lipsia, città in cui la famiglia si trasferisce nel 1929. L’educazione formale di Taro non è quella di una scuola di fotografia: frequenta studi commerciali e coltiva interessi letterari e politici. È in questo ambiente di fermento intellettuale e politico che si formano le sue prime convinzioni antifasciste. L’ascesa del nazismo dopo il 1933 rende la sua posizione politicamente insostenibile; il suo impegno di propaganda di sinistra la porta ad essere arrestata e a subire persecuzioni, spingendola a emigrare a Parigi nello stesso anno.
A Parigi avvia un rapido processo di integrazione nel mondo intellettuale e artistico dell’esilio europeo: entra in contatto con esponenti della sinistra antifascista, con esiliati politici e con il sottobosco culturale che ruota attorno a riviste e agenzie fotografiche progressiste. Parigi degli anni Trenta è un crocevia: lì si incontrano fotografi, scrittori e grafici che sperimentano nuove forme di reportage e propaganda visiva. La formazione fotografica di Taro è in gran parte autodidatta e praticata sul campo: osserva, impara dai colleghi e sperimenta con strumenti diversi. All’inizio degli anni Trenta la fotografia di reportage comincia a mutare: si utilizzano attrezzature più leggere e più veloci, si sperimentano nuove angolazioni e si pone crescente attenzione alla distribuzione delle immagini tramite agenzie e riviste illustrate. Taro apprende rapidamente queste nuove pratiche e in breve tempo consolida una propria cifra visiva.
Nel 1934 entra in contatto con André (Endre) Friedmann, futuro Robert Capa; la relazione professionale e personale che si instaura con lui è determinante. Insieme inventano il noto pseudonimo Robert Capa per facilitare la commercializzazione delle fotografie sul mercato anglosassone e per aggirare la crescente intolleranza politica rivolta agli autori di origine ebraica o antifascista. Ma più del solo stratagemma commerciale, l’affiancamento a Friedmann si traduce in un vero scambio tecnico: condivide con lui tecniche di scatto e sviluppo, pratica il lavoro di captioning e distribuzione, sperimenta il montaggio delle immagini per le riviste e partecipa al lavoro dell’agenzia Alliance Photo. I primi anni parigini delineano così sia il profilo di militante politico sia quello di operatrice visiva capace di muoversi con efficacia nel panorama professionale dell’epoca.
Dal punto di vista tecnico, i primi esperimenti fotografici di Taro si svolgono su formati medio (come il Rolleiflex) e su 35 mm. Il medium format (6×6) del Rolleiflex le permette di lavorare con una visuale più studiata, con inquadrature quadrate e una nitidezza di stampa che favorisce ritratti e immagini in studio. L’adozione della macchina 35 mm, in seguito, segna la sua transizione verso un fotogiornalismo più rapido e agile: le Leica e le Contax dell’epoca, con obiettivi veloci come il 5 cm Summar f/2, consentono tempi di posa minori e una maggiore libertà di movimento. Taro, che impara sul campo a bilanciare esposizione, tempi e diaframma, dimostra presto una padronanza tecnica che rivela competenza e intuito operativo oltre alla semplice partecipazione emotiva agli eventi che documenta.
Carriera parigina, alleanze professionali e costruzione del nome
Il trasferimento a Parigi è il punto di svolta: Gerda Taro diventa parte attiva di una realtà professionale internazionale e, con Robert Capa, si lega all’agenzia Alliance Photo e collabora con riviste come Vu e altre testate europee. Il sistema di produzione e distribuzione delle immagini in quegli anni si fonda su agenzie che promuovono portfolio e inviano fotoreportage alle redazioni: il lavoro di Taro non è solo fatto di scatti, ma di selezione, montaggio di sequenze e scrittura di didascalie, attività che ne accentuano la consapevolezza editoriale. La complicità artistica con Friedmann dà luogo a pratiche condivise: talvolta le immagini venivano vendute con il nome collettivo Capa&Taro; in altri casi alcune immagini attribuite a Robert Capa risultarono essere state scattate proprio da Taro, come emerso dalle ricerche successive e dalla ricomposizione degli archivi.
La produzione parigina rivela una fotografa che padroneggia diverse tecniche: il ritratto ambientato, il fotoreportage politico e l’immagine di strada. Technique-wise, Taro lavora in condizioni di luce difficili, spesso all’aperto, imparando l’uso della luce naturale e dei riflettori improvvisati. Si avvale di obiettivi rapidi per scatti a mano libera e sperimenta composizioni dinamiche, privilegiando angolazioni ribassate o in movimento per accentuare la drammaticità delle scene. È in questa fase che affina la capacità di passare dal formato quadrato del Rolleiflex a quello panoramico e più narrativo del 35 mm, scegliendo l’attrezzatura in funzione della storia che deve raccontare.
La dimensione politica del suo lavoro si rafforza: Taro è figura nota tra le reti antifasciste, partecipa a manifestazioni e attivismo, e progressivamente diventa un volto conosciuto nel circuito dei corrispondenti internazionali. Questa duplice identità — militante e fotoreporter — si riflette anche nel suo modo di lavorare: le immagini vogliono informare ma anche mobilitare emotivamente, utilizzare il frame per denunciare violenze, impoverimenti e la deriva autoritaria che minaccia l’Europa.
A livello di mercato editoriale, il meccanismo di attribuzione e vendita delle fotografie negli anni Trenta rendeva cruciale la capacità di entrare nelle cerchie redazionali. Taro, lavorando con Capa e con altri colleghi come David “Chim” Seymour, ottiene pubblicazioni che la fanno emergere come operatrice attiva e competente. È in questo contesto che la sua identità visiva si consolida e che inizia la parziale sovrapposizione tra le storie personali e quelle professionali, fattore che contribuirà, dopo la sua morte, a creare miti e fraintendimenti attorno alle paternità di alcune immagini.
Sul fronte spagnolo: pratiche tecniche di guerra, stile e gli ultimi reportage
La Spagna diventa il teatro principale del suo lavoro sul campo: all’indomani dello scoppio della guerra civile (luglio 1936), Taro parte per le zone di conflitto insieme a Capa e Chim. Qui la pratica del reportage di guerra la obbliga a modificare radicalmente routine e attrezzature: il reportage in prima linea richiede attrezzature leggere, pellicole 35 mm panchromatiche, obiettivi luminosi e la capacità di sviluppare rapidamente le lastre per inviare le fotografie alle redazioni. I fotografi occupano un ruolo duplice: documentano la cronaca militare e costruiscono un’immagine pubblica della causa Repubblicana. Taro si confronta con entrambe le dimensioni, spostandosi tra fronti e retrovie, tra scatti d’azione e ritratti di miliziani.
Dal punto di vista tecnico, la scelta della Leica III o di altri modelli 35 mm con obiettivo Summar 5 cm f/2 le permette di catturare sequenze dinamiche: tempi di posa rapidi, scatti multipli a mano libera, e un rapporto ottimo tra nitidezza e velocità. Per le inquadrature più statiche e i ritratti di gruppo impiega talvolta il Rolleiflex in formato medio, che garantisce una qualità tonale e una profondità di campo diversa. Sul fronte, la gestione della sensibilità della pellicola e delle tolleranze d’esposizione diventano operative quotidiane: la polvere, le scosse, la luce variabile e la necessità di scansione rapida impongono sviluppi e fissaggi fatti anche in piccoli laboratori mobili o in retrovie improvvisate.
Il linguaggio visivo di Taro all’epoca si caratterizza per un taglio diretto, compatto e spesso drammatico. Predilige inquadrature che mostrano la fisionomia dei combattenti, la devastazione materiale e il volto umano della guerra. Le sue immagini mescolano istantanee di azione e immagini ricche di tensione simbolica: bandiere, espressioni di rabbia o paura, mani sporche e volti tesi. Taro assume uno stile che è insieme emotivo e tecnicamente consapevole: lavora con composizioni che portano l’osservatore vicino all’evento, senza rinunciare a cura formale e controllo degli elementi visivi del fotogramma.
La morte avviene proprio in questo contesto. Durante la battaglia di Brunete (25–26 luglio 1937), mentre si muove con i reparti repubblicani, viene travolta da un carro armato che urta un veicolo su cui si era saldata; le ferite riportate sono gravissime. Trasportata all’ospedale inglese di El Goloso (El Escorial), muore il 26 luglio 1937. Le circostanze hanno dato luogo a narrazioni controverse — dall’incidente alle ipotesi complottiste che parlano di eliminazione politica — ma la ricostruzione più documentata indica un tragico incidente di guerra: il carro armato in manovra non avrebbe visto il mezzo su cui Taro viaggiava. A Parigi la notizia provoca un grande cordoglio: il 1º agosto 1937 la sua salma è accompagnata da una folla immensa in una cerimonia pubblica promossa dal movimento antifascista; le prime commemorazioni institutionalizzano la sua figura come simbolo dell’impegno civile e del coraggio nel reportage.
Opere principali, archivi, attribuzioni e ricezione critica
Il corpus fotografico di Gerda Taro è relativamente breve per via della sua prematura morte, ma denso per qualità e significato. Tra i servizi più noti si ricordano i reportage realizzati in Aragon, nella zona di Córdoba e al fronte di Brunete; molte di queste immagini vennero all’epoca pubblicate dalle riviste europee e raccolte successivamente in antologie dedicate alla fotografia della guerra civile spagnola. La cosiddetta “Mexican Suitcase” — il baule contenente migliaia di negativi perduti e ritrovati — rappresenta una scoperta cruciale: essa contiene negativi di Taro, di Capa e di David Seymour (Chim) e ha permesso la riassegnazione di scatti originariamente attribuiti esclusivamente a Capa. Il lavoro di ricomposizione dell’archivio ha restituito a Taro la paternità di molte immagini e ha chiarito le pratiche collaborative e di sovrapposizione che caratterizzavano il lavoro del trio.
Gli archivi principali che conservano il materiale di Taro includono l’International Center of Photography (ICP) di New York, che ha curato mostre e cataloghi fondamentali, e vari fondi europei che hanno ospitato retrospettive e studi critici. La ricezione critica del suo lavoro è stata progressivamente rivalutata: per decenni la sua immagine è stata in parte oscurata dalla fama di Capa; ricerche storiche, mostre e pubblicazioni specialistiche (cataloghi, monografie e studi accademici) hanno invece recentemente ricostruito il suo contributo specifico al fotogiornalismo.
Sul piano stilistico e tecnico, gli studiosi sottolineano come Taro combinasse padronanza formale e capacità narrativa: l’uso sapiente dei formati, il passaggio dal medio formato al 35 mm, la scelta di obiettivi più veloci per cogliere l’azione, la gestione della pellicola e delle stampe argentiche mostrano una fotografa con competenze tecniche raffinate. Le sue immagini testimoniano controllo dell’esposizione, senso della profondità di campo e abilità nell’uso degli obiettivi per creare tensione visiva. Critici contemporanei evidenziano anche la sua capacità di costruire sequenze fotografiche e di usare la didascalia come elemento essenziale nella distribuzione giornalistica.
Il dibattito sulla paternità e l’attribuzione di molte immagini del periodo spagnolo ha stimolato riflessioni più ampie sul ruolo delle donne nel fotogiornalismo e sulle dinamiche editoriali dell’epoca. La riscoperta di Taro ha avuto anche un valore simbolico: molte fotografe e storiche della fotografia la considerano un’antesignana della presenza femminile in zone di conflitto, una figura che ha dato forma al concetto di giornalismo fotografico militante.
Negli ultimi decenni si sono susseguite mostre che ne hanno valorizzato il lavoro e progetti editoriali che hanno ristampato le sue fotografie in cataloghi critici. Monografie come i cataloghi dell’ICP, studi storici e l’attenzione pubblica generata da opere letterarie e cinematografiche (che hanno raccontato la sua vita) hanno contribuito a consolidare una reputazione critica sempre più solida. L’archivio fotografico di Gerda Taro resta un oggetto di studio imprescindibile per chi indaga la fotografia di guerra, il fotogiornalismo degli anni Trenta e il ruolo delle donne nella storia della comunicazione visiva.

Mi chiamo Marco Americi, ho circa 45 anni e da sempre coltivo una profonda passione per la fotografia, intesa non solo come mezzo espressivo ma anche come testimonianza storica e culturale. Nel corso degli anni ho studiato e collezionato fotocamere, riviste, stampe e documenti, sviluppando un forte interesse per tutto ciò che riguarda l’evoluzione tecnica e stilistica della fotografia. Amo scavare nel passato per riportare alla luce autori, correnti e apparecchiature spesso dimenticate, convinto che ogni dettaglio, anche il più piccolo, contribuisca a comporre il grande mosaico della storia dell’immagine. Su storiadellafotografia.com condivido ricerche, approfondimenti e riflessioni, con l’obiettivo di trasmettere il valore documentale e umano della fotografia a un pubblico curioso e appassionato, come me.