La società G.G.S., fondata a Milano intorno al 1948, rappresenta una delle realtà minori ma altamente significative nella storia dell’industria fotografica italiana del dopoguerra. Il nome dell’azienda è l’acronimo delle iniziali dei suoi due fondatori: Gian Antonio Sommaruga e Carlo Gnecchi, entrambi provenienti dalla Salmoiraghi, storica impresa ottico-meccanica milanese. Dopo anni di lavoro tecnico e progettuale presso Salmoiraghi, i due decisero di intraprendere un’attività autonoma, sfruttando le proprie competenze nel campo dell’ottica di precisione e della meccanica fine.
La Milano del secondo dopoguerra era un contesto industriale particolarmente favorevole a iniziative di questo tipo. Nonostante le ferite ancora evidenti del conflitto, la città conservava un tessuto produttivo ricco di officine, laboratori meccanici, ditte di lenti, galvaniche, fornitori di materie plastiche e una rete artigianale capace di sostenere la costruzione di apparecchiature complesse su scala ridotta. In questo scenario, G.G.S. nacque come microimpresa a carattere tecnico-artigianale, con sede iniziale nella zona industriale milanese tra Lambrate e Città Studi, vicina ad altri produttori ottici come SAF e SIVA.
L’obiettivo dichiarato di Sommaruga e Gnecchi fu sin dall’inizio la produzione di apparecchi fotografici economici ma solidi, destinati a un pubblico dilettante che, nel secondo dopoguerra, andava crescendo rapidamente. A differenza di altre ditte italiane del tempo che puntavano a emulare i modelli tedeschi di fascia alta, G.G.S. scelse di inserirsi nel segmento middle-low end, mirando a conquistare la fascia di mercato allora occupata da prodotti francesi o giapponesi di importazione.
La Lucky: una fotocamera popolare ma robusta
Il primo e più noto prodotto di G.G.S. fu la fotocamera Lucky, introdotta intorno al 1948, un modello che oggi è considerato un perfetto esempio di costruzione semi-artigianale con vocazione industriale leggera. La Lucky era una camera a rullino formato 120, con esposizione su negativi 6×6 cm, quindi destinata alla fotografia medio formato.
La scocca era realizzata in lega leggera pressofusa, rifinita esternamente con verniciatura martellata o pelle sintetica, a seconda delle serie. Il design richiamava gli stilemi delle box camera tedesche, ma con alcune soluzioni migliorative: lo sportello posteriore era incernierato con chiusura a clip metallica; il mirino era di tipo Galileo a riflessione diretta, con una discreta precisione di inquadratura. Nonostante fosse un apparecchio economico, la Lucky integrava una ghiera di regolazione del diaframma e tempi meccanici, con scatti da 1/25, 1/50, 1/100 sec più posa B, comandati da un semplice otturatore rotativo tipo everset.
Il gruppo ottico era composto da una lente meniscata singola, con trattamento antiriflesso rudimentale (assente nei primissimi esemplari), montata su supporto fisso a fuoco fisso, o a messa a fuoco a tre zone nei modelli successivi. La lunghezza focale era di circa 75 mm, con apertura massima f/8, talvolta scalata a f/11 nei modelli a maggiore profondità di campo. Il diaframma era del tipo a iride a lamelle sovrapposte, controllabile tramite ghiera frontale.
G.G.S. puntò molto su un’immagine di affidabilità e semplicità, investendo in una costruzione robusta, senza parti soggette a usura rapida, e in una produzione in piccoli lotti, che consentiva un controllo qualità accurato. La Lucky era spesso venduta con custodia in cuoio cucito a mano e manuale illustrato, entrambi prodotti da fornitori locali. Questo tipo di confezionamento semi-lusso contribuiva a darle un’aura di serietà e competenza, in netto contrasto con molti prodotti coevi che venivano distribuiti sfusi o in scatole di cartone generiche.
Estetica tecnica e diffusione commerciale (1950–1955)
L’estetica della fotocamera Lucky rifletteva pienamente il gusto e la sensibilità del design industriale italiano del primo dopoguerra. Le linee erano sobrie ma funzionali, con una chiara intenzione di coniugare praticità d’uso e identità visiva. Le prime versioni avevano superfici zigrinate e finiture grigio scuro, mentre negli anni successivi furono introdotte varianti cromatiche più chiare, anche su richiesta di rivenditori locali.
Il successo della Lucky fu modesto ma rilevante. G.G.S. riuscì a vendere il prodotto non solo in Lombardia, ma anche attraverso una rete di distributori regionali in Piemonte, Emilia-Romagna e Toscana. I contatti con alcuni grossisti francesi permisero persino un’esportazione su piccola scala in Belgio e Svizzera, dove il prodotto veniva venduto con marchio “L. Fortunée” o semplicemente “Fortuna”, a seconda delle politiche doganali locali.
Il prezzo di vendita della Lucky rimase competitivo rispetto alla media del mercato, posizionandosi tra le 2.500 e le 3.000 lire nei primi anni ’50. Questo la rendeva accessibile a un pubblico vasto, costituito da famiglie, studenti e lavoratori desiderosi di documentare la propria quotidianità in un’epoca in cui la fotografia cominciava a diventare uno strumento diffuso di rappresentazione personale e familiare.
La Lucky ebbe anche una discreta adozione in ambiti scolastici e didattici, utilizzata nei corsi di fotografia promossi da istituti tecnici, circoli culturali e dopolavoro. La facilità d’uso e la resistenza strutturale la rendevano particolarmente adatta all’apprendimento pratico dei fondamenti fotografici.
Produzione, meccanica e componentistica artigianale
Dal punto di vista tecnico, la Lucky rappresentava un interessante equilibrio tra produzione artigianale e componentistica semi-industriale. La fabbrica G.G.S. non era un impianto di stampo fordista, ma piuttosto una bottega tecnica evoluta, capace di assemblare in loco le parti critiche (corpi macchina, otturatori, componenti meccanici), delegando però la realizzazione di lenti e minuteria metallica a fornitori esterni specializzati.
Le lenti utilizzate nella Lucky erano probabilmente fornite da laboratori ottici milanesi minori, o provenienti da residuati bellici riconvertiti. Alcuni modelli presentano vetri italiani molati a mano, altri mostrano evidenze di componenti di origine tedesca o cecoslovacca, probabilmente provenienti da stock invenduti nel dopoguerra. Le ottiche non erano firmate, un fatto piuttosto comune tra le piccole imprese italiane che non potevano permettersi la serigrafia o l’incisione del marchio sui bordi frontali.
I componenti meccanici (molle, viti, alberi rotanti, leve) erano prodotti da tornerie e officine locali, secondo specifiche tecniche standardizzate. La precisione di assemblaggio era relativamente alta per gli standard dell’epoca, anche grazie all’esperienza pregressa dei fondatori nella micromeccanica ottica. Le tolleranze erano ampie, ma il controllo finale assicurava il funzionamento corretto di ogni pezzo.
L’otturatore, elemento critico, era un meccanismo rotativo a camma, con rilascio centrale e ritorno a molla, protetto da una ghiera metallica sagomata. Nonostante la semplicità, il sistema era abbastanza affidabile da reggere decine di scatti consecutivi senza variazioni apprezzabili nel tempo di posa, anche se le regolazioni manuali potevano facilmente usurarsi in assenza di manutenzione.
Fine della produzione
La produzione della Lucky terminò probabilmente intorno al 1955, dopo un ciclo commerciale breve ma coerente. G.G.S. non riuscì a rinnovare la propria offerta in modo competitivo. L’ingresso sul mercato italiano di prodotti giapponesi (come le Fuji e le Ricoh), più moderni e compatti, rese la Lucky rapidamente obsoleta. Mancando i capitali e le strutture per una modernizzazione industriale, l’impresa fu sciolta. Non risulta che G.G.S. abbia prodotto altri modelli di fotocamera, né che abbia ceduto licenze o brevetti a terzi.
Oggi la Lucky è un oggetto da collezione raro ma accessibile, particolarmente ricercato dai collezionisti di apparecchi italiani del dopoguerra. I modelli in buono stato conservativo mantengono un valore storico più che economico, ma sono importanti testimonianze di un tentativo di industria fotografica autonoma in Italia, lontana dalle grandi concentrazioni produttive internazionali.
Alcuni esemplari sono oggi custoditi in musei della tecnica o in collezioni private, soprattutto nel Nord Italia. La presenza di Lucky in archivi fotografici familiari italiani testimonia il suo impiego reale nella vita quotidiana degli anni ’50. Nonostante la semplicità tecnica, l’apparecchio è in grado di restituire immagini leggibili, ben centrate e discretamente contrastate, dimostrando la validità della progettazione tecnica e della costruzione meccanica effettuata da G.G.S.

Sono Manuela, autrice e amministratrice del sito web www.storiadellafotografia.com. La mia passione per la fotografia è nata molti anni fa, e da allora ho dedicato la mia vita professionale a esplorare e condividere la sua storia affascinante.
Con una solida formazione accademica in storia dell’arte, ho sviluppato una profonda comprensione delle intersezioni tra fotografia, cultura e società. Credo fermamente che la fotografia non sia solo una forma d’arte, ma anche un potente strumento di comunicazione e un prezioso archivio della nostra memoria collettiva.
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