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David LaChapelle

David LaChapelle è nato il 11 marzo 1963 a Fairfield, Connecticut, Stati Uniti. La sua carriera ha attraversato decenni di intensa attività visiva e culturale, ridefinendo profondamente i confini tra fotografia di moda, arte contemporanea e rappresentazione sociale. LaChapelle è ancora in vita, risiede attualmente alle Hawaii e continua a produrre lavori fotografici e installativi che combinano ipervisualità, riferimenti religiosi, critica sociale e tecnica impeccabile. Considerato uno dei più influenti fotografi della scena contemporanea, è noto per uno stile riconoscibile, ricco di saturazioni cromatiche, composizioni barocche e simbolismi stratificati.

David LaChapelle cresce in un ambiente familiare stimolante, seppur segnato da una precoce esposizione a instabilità domestiche. La madre, amante dell’arte e della danza, incoraggia fin da subito il giovane David ad esprimersi attraverso forme visive. All’età di 15 anni si trasferisce a New York e si iscrive alla School of Performing Arts, l’istituto che ispirò il celebre film “Fame”. Qui si immerge nella vibrante scena artistica della città, entrando in contatto con una molteplicità di influenze stilistiche che spaziano dalla Pop Art al Neo-Espressionismo.

Nel 1980, mentre lavora come cameriere al Studio 54, viene notato da Andy Warhol, che lo invita a fotografare per la rivista Interview. Questo incontro segna l’inizio della carriera professionale di LaChapelle e lo colloca direttamente all’interno dell’entourage artistico più potente dell’epoca. LaChapelle assimila in profondità l’estetica postmodernista, appropriandosi di strumenti visivi come il pastiche, la citazione e la parodia, che diventeranno centrali nel suo linguaggio fotografico.

Il suo stile comincia a delinearsi attraverso l’uso spregiudicato del colore, una composizione teatrale che richiama la pittura rinascimentale e l’inclusione di elementi provocatori, sovente ispirati alla cultura gay e alla simbologia cattolica. Fin dagli esordi, LaChapelle mostra una predilezione per l’uso della pellicola medio formato, spesso Kodak Portra 160 o Fuji Pro 400H, stampando manualmente le sue opere su carta Cibachrome per ottenere una resa cromatica iperrealista e satura.

Parallelamente agli incarichi editoriali per riviste di moda come The Face e Details, sperimenta con l’autoritratto, il collage fotografico e le prime installazioni, esplorando il rapporto tra identità e rappresentazione. La fotografia, per LaChapelle, non è mai documento ma sempre costruzione artificiale e manipolata, dove ogni elemento è orchestrato per comunicare una visione del mondo espressiva, ironica e spiritualmente stratificata.

Il lavoro di David LaChapelle è fortemente connotato da un impianto tecnico meticoloso e narrativo. Utilizza principalmente fotocamere di medio formato, come le Mamiya RZ67 Pro II e, in anni più recenti, sistemi Phase One con dorsi digitali da 100 MP. Questa scelta consente una profondità di campo estremamente contenuta, ideale per isolare soggetti in ambienti complessi e ricchi di elementi scenografici. Le sue immagini, quasi sempre scattate in studio o su set appositamente costruiti, si avvalgono di un controllo totale della luce e della post-produzione.

Uno degli elementi più distintivi della sua fotografia è il controllo maniacale dell’illuminazione artificiale. Lavora con schemi di luce multipli, sovente costruiti con flash Profoto e diffusori custom, in modo da simulare una luce ambientale altamente direzionale e drammatica. In molte delle sue composizioni si ritrovano ombre profondamente scolpite e high lights speculari, derivanti da un impiego combinato di rim light e fill morbido, spesso ottenuti mediante bank da 1,80 metri o diffusori a cupola.

Un’altra cifra stilistica fondamentale è l’uso del colore ipersaturo, ottenuto in fase di ripresa ma ulteriormente esasperato in post-produzione tramite curve di contrasto LAB e separazioni dei canali. LaChapelle lavora con un team di post-produzione dedicato, che si occupa della color correction, del ritocco avanzato e della creazione di effetti visivi tridimensionali. La manipolazione digitale non viene mai celata ma esibita come parte integrante dell’opera, in linea con la sua poetica del “vero costruito”.

Dal punto di vista compositivo, la struttura delle sue immagini richiama quella dei quadri storici: ogni elemento è posto in funzione di una simmetria narrativa, spesso centrata su un soggetto iconico (celebrity, martire, figura religiosa), attorno al quale si costruisce un tableau vivant. Questa impostazione è visibile anche nella cura dei fondali, realizzati frequentemente in pittura su tela, scenografie teatrali o modellini in scala, ripresi in macrofotografia e poi inseriti digitalmente nell’immagine finale.

Nonostante l’evoluzione verso il digitale, LaChapelle non ha mai abbandonato completamente il supporto analogico. Alcune serie, come “Awakened” o “Earth Laughs in Flowers”, sono interamente realizzate in pellicola, con uno sviluppo C-41 manuale in tank a inversione continua per controllare al massimo il tono medio. La stampa, in questi casi, è sempre supervisionata personalmente dall’autore, spesso realizzata su carta Ilford Galerie in formati fino a 180×240 cm.

Ogni fotografia di David LaChapelle è un contenitore denso di stratificazioni semantiche, che oscillano tra cultura popolare, iconografia religiosa e denuncia sociale. I suoi lavori più noti mettono in scena celebrità hollywoodiane, personaggi politici o simboli della società dei consumi, decontestualizzandoli in ambienti surreali, esagerati e saturi di elementi visivi. In questo modo, la sua fotografia si pone come riflessione critica sulla società dello spettacolo, ma anche come affermazione del potenziale narrativo della fotografia contemporanea.

Uno dei nuclei centrali del suo linguaggio è il corpo umano, spesso nudo, reso oggetto e soggetto al tempo stesso. Il corpo viene decorato, immerso, sezionato, trasfigurato. Spesso si rifà a modelli della pittura barocca, ma rielaborati in chiave postmoderna. Nei suoi scatti più noti, LaChapelle mette in scena figure di santi, madonne, martiri, reimmaginati come star televisive o emarginati urbani, generando un corto circuito visivo che unisce il sublime e il grottesco.

Anche la religione è una componente ricorrente, con frequenti riferimenti al Cristianesimo e all’iconografia cattolica, sebbene riletti in chiave queer o apertamente blasfema. Ma al di là della provocazione, LaChapelle utilizza questi simboli come strumenti di riflessione esistenziale, in un continuo confronto tra materialità e trascendenza. I suoi angeli e cristi, spesso ispirati alle anatomie di Caravaggio e Guido Reni, portano in sé il dramma della caducità e la ricerca di una bellezza non filtrata.

Altro tema costante è quello del consumismo e della decadenza post-industriale. In lavori come “Deluge” o “The House at the End of the World”, lo sfacelo ambientale e morale è reso attraverso set ricchi di oggetti distrutti, supermercati allagati, volti sfatti dalla chirurgia plastica. La dimensione allegorica è sempre presente, ma mai didascalica: ogni immagine è un microcosmo autonomo, illeggibile a uno sguardo frettoloso e pensata per essere osservata nel dettaglio, centimetro per centimetro.

Dal punto di vista filosofico, LaChapelle rifiuta l’idea che l’arte debba documentare la realtà. La sua fotografia è dichiaratamente costruita, falsa, estetizzata, ma proprio per questo autentica nel suo messaggio. Non aspira alla verosimiglianza bensì alla rivelazione. Ogni soggetto fotografato diventa parte di una rappresentazione totale, in cui il fotografo è regista, pittore e scenografo.

Opere principali e progetti espositivi

La produzione di David LaChapelle è vastissima, ma alcuni progetti si distinguono per rilevanza tecnica, iconografica e storica. “Heaven to Hell” (2006) è una delle sue serie più note, pubblicata in volume e accompagnata da mostre in tutto il mondo. Qui LaChapelle mette in scena il contrasto tra paradiso artificiale e caduta morale, con immagini potentemente costruite, dominate da colori acidi e personaggi deformati dal lusso e dalla solitudine. Il progetto è tecnicamente rilevante per l’impiego di luci miste e la sperimentazione con filtri ottici policromatici, utilizzati in camera e non in post-produzione.

Un’altra serie fondamentale è “Deluge” (2007), ispirata al diluvio universale, in cui LaChapelle mette in scena un mondo sommerso, con riferimenti diretti alla Cappella Sistina e alla pittura del Quattrocento. Le scenografie sono costruite a mano e fotografate in grandangolo con ottiche Zeiss Distagon 28mm, utilizzando banchi ottici Linhof modificati. I soggetti – modelli, attori e performer – sono immersi in ambienti devastati, e l’acqua diventa sia elemento purificatore che simbolo di rovina.

“Earth Laughs in Flowers” (2011–2012) rappresenta un momento di svolta: qui LaChapelle abbandona temporaneamente le celebrity e torna alla natura morta, ispirandosi ai fiamminghi del XVII secolo. I fiori vengono ritratti in condizioni di decadimento, tra plastica e rifiuti elettronici, e stampati in grande formato su carta fine art in quadricromia pigmentata, utilizzando Epson Stylus Pro con gamut esteso. In questa serie è evidente la volontà di riflettere sulla sostenibilità ambientale, tema che tornerà in molte opere successive.

Tra le ultime esposizioni degne di nota si cita “Make Believe” (2022) al Fotografiska di Stoccolma, una retrospettiva che ha incluso lavori inediti realizzati con la tecnica del light painting digitale, combinando scatti multipli eseguiti al buio con esposizioni lunghe e controllo remoto dei flash. L’attenzione alla composizione pittorica rimane centrale, ma emerge anche un lato più spirituale, in cui la fotografia diventa strumento di meditazione visiva.

Curiosità Fotografiche

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