La figura di Alphonse Giroux, legata indissolubilmente agli albori della fotografia, rappresenta uno dei primi e più importanti esempi di produttore e distributore specializzato di apparecchi fotografici in Europa. Attivo come ebanista, editore e artigiano di oggetti di lusso a Parigi, Giroux entrò nel mondo della fotografia non per una predisposizione tecnica diretta, ma per un vincolo familiare: era infatti cognato di Louis-Jacques-Mandé Daguerre, inventore del dagherrotipo. Questo legame personale si trasformò in collaborazione industriale, dando vita alla prima produzione autorizzata di camere dagherrotipiche destinate al pubblico.
Nel 1839, quando Daguerre e il matematico François Arago presentarono pubblicamente il processo del dagherrotipo all’Académie des sciences, il governo francese acquistò il brevetto per metterlo a disposizione della collettività. Tuttavia, l’attrezzatura tecnica necessaria per la produzione dei dagherrotipi non poteva essere lasciata all’improvvisazione. Fu allora che Daguerre incaricò formalmente Alphonse Giroux di fabbricare e vendere una camera completa, secondo specifiche tecniche molto precise, che assicuravano una riproduzione fedele del processo sperimentato da Daguerre.
La camera di Alphonse Giroux fu la prima fotocamera commerciale della storia, prodotta a partire dalla metà del 1839, e immediatamente riconoscibile per la sua struttura in legno nobile lucidato, generalmente mogano o ciliegio, e per l’etichetta interna che recava l’iscrizione: “Appareil Daguerreotype par Alphonse Giroux, Agréé par l’Inventeur”. La produzione avveniva in bottega, ma secondo modalità sistematiche: Giroux realizzava le camere secondo disegni tecnici dettagliati forniti da Daguerre, integrando componenti ottiche di alta precisione realizzate su misura da Charles Chevalier, uno dei più importanti ottici francesi del tempo.
Tecnicamente, la camera Giroux era composta da due scatole di legno scorrevoli, una interna all’altra, che permettevano la messa a fuoco per traslazione: un sistema ingegnoso e allo stesso tempo semplice, in grado di regolare la distanza tra il piano focale (dove si collocava la lastra sensibilizzata) e l’obiettivo. Il grande obiettivo acromatico a doppia lente, montato su una placca frontale in ottone brunito, era dotato di un diaframma intercambiabile con fori di diverso diametro, da sostituire manualmente per variare la quantità di luce. L’otturatore era del tutto assente: l’esposizione avveniva semplicemente rimuovendo e rimettendo il tappo dell’obiettivo, un metodo coerente con le lunghissime esposizioni richieste dal processo, spesso superiori a 10 minuti nelle prime versioni.
Sul piano pratico, l’intero kit Giroux per dagherrotipia comprendeva non solo la fotocamera, ma anche una cassetta a tenuta di luce per inserire la lastra, una camera oscura portatile per il trattamento chimico, una scatola per i reagenti (tra cui vapori di iodio, mercurio e cloruro d’oro), e le lastre argentate su rame. L’attrezzatura fu venduta al pubblico al prezzo di circa 400 franchi, una somma considerevole ma non proibitiva, destinata a un pubblico di dilettanti benestanti, scienziati, artisti e amatori colti.
Alphonse Giroux firmava ogni esemplare con un sigillo a inchiostro o una placca in ottone, rendendo ciascuna unità immediatamente identificabile e tracciabile. Si stima che tra il 1839 e il 1841 furono prodotti diverse centinaia di esemplari, oggi oggetto di collezionismo estremo, e spesso venduti in asta per cifre superiori ai 100.000 euro. La qualità costruttiva era notevole, con giunture a coda di rondine, finiture a cera lucidate a mano, e ottiche che, pur con i limiti dell’epoca, fornivano immagini nitide e coerenti con il formato da 6½ x 8½ pollici (circa 16×21 cm), che sarebbe diventato lo standard del dagherrotipo francese.
Va notato che Alphonse Giroux non era semplicemente un intermediario commerciale. La sua bottega era attrezzata per la lavorazione fine del legno, per la stampa di litografie, e per la fabbricazione di mobili artistici, esperienza che lo rese perfettamente adatto a costruire un oggetto tecnico che fosse anche un manufatto estetico di alto livello. In questo senso, le camere Giroux sono esemplari della fusione tra arte, artigianato e scienza, una combinazione che caratterizzerà tutta la prima epoca della fotografia.
Il successo immediato del sistema Giroux-Daguerre stimolò rapidamente l’interesse di altri produttori. Sebbene Giroux fosse il solo a essere ufficialmente autorizzato da Daguerre (la dicitura “agréé par l’inventeur” lo certifica chiaramente), già dal 1840 iniziarono ad apparire sul mercato camere ispirate al modello Giroux, prodotte da altri ebanisti parigini, da artigiani tedeschi e inglesi, spesso con piccole variazioni strutturali o con obiettivi di diversa provenienza.
Tra i principali imitatori del modello Giroux vi furono nomi come Louis Rossignol, Lerebours et Secretan, e vari costruttori di camera obscura in Inghilterra, dove il dagherrotipo si era affermato rapidamente. Le imitazioni, però, raramente eguagliavano la solidità costruttiva, la precisione meccanica e la fedeltà ottica degli esemplari originali. Le camere Giroux originali restarono per lungo tempo un riferimento assoluto per chi volesse ottenere risultati coerenti con le istruzioni pubblicate da Daguerre nel celebre manuale “Historique et description des procédés du daguerréotype et du diorama” (1839).
Un aspetto tecnico rilevante della camera Giroux era il movimento telescopico a doppio corpo, che rendeva possibile una messa a fuoco abbastanza precisa malgrado l’assenza di sistema di guida micrometrico. L’operatore agiva manualmente tirando o spingendo la scatola interna fino ad ottenere un’immagine nitida sul vetro smerigliato, montato in coda alla camera e protetto da uno sportello basculante. Dopo la messa a fuoco, il vetro veniva rimosso e sostituito con un telaio porta-lastra oscurato, all’interno del quale si collocava la lastra già sensibilizzata con vapori di iodio. Tutta questa operazione avveniva in luce rossa, generalmente sotto una tenda nera o una camera oscura portatile.
Altro elemento distintivo era la qualità delle ottiche di Chevalier, dotate di schema acromatico a doppia lente cementata, ottimizzato per correggere le aberrazioni cromatiche. La luminosità dell’obiettivo era tipicamente intorno a f/15, adeguata per ottenere esposizioni di 5–20 minuti in condizioni di luce piena. Va ricordato che la lastra argentata, esposta ai vapori di iodio, era sensibile solo ai raggi UV e al blu visibile, e quindi la resa fotografica risultava alterata nei toni: il cielo appariva spesso bianco, i tessuti scuri molto più chiari, e la vegetazione assumeva toni lattiginosi. Questo imponeva scelte accurate di posa, inquadratura e illuminazione, rendendo il processo adatto a soggetti fermi, nature morte, paesaggi e architetture.
Il sistema Giroux fu non solo un oggetto fotografico, ma anche un prodotto simbolico: la sua commercializzazione segnò il passaggio della fotografia da esperienza scientifica sperimentale a pratica disponibile al pubblico, pur con le sue difficoltà tecniche. Nel giro di due anni, centinaia di copie circolarono in Europa e nelle Americhe, aprendo la strada a una prima forma di mercato fotografico attrezzato, in cui la fotocamera era acquistabile come kit, con tanto di istruzioni e accessori standardizzati.
Con l’avvento di nuove fotocamere più compatte e con ottiche più luminose, il modello Giroux divenne obsoleto già a partire dal 1843, ma la sua importanza storica e simbolica resta immutata. A differenza delle camere successive, spesso anonime, ogni esemplare Giroux racconta ancora oggi la storia concreta dell’inizio della fotografia come pratica tecnologica e industriale, fondata su un dispositivo complesso, realizzato con attenzione artigianale e concepito per democratizzare un processo chimico altrimenti inaccessibile.

Sono Manuela, autrice e amministratrice del sito web www.storiadellafotografia.com. La mia passione per la fotografia è nata molti anni fa, e da allora ho dedicato la mia vita professionale a esplorare e condividere la sua storia affascinante.
Con una solida formazione accademica in storia dell’arte, ho sviluppato una profonda comprensione delle intersezioni tra fotografia, cultura e società. Credo fermamente che la fotografia non sia solo una forma d’arte, ma anche un potente strumento di comunicazione e un prezioso archivio della nostra memoria collettiva.
La mia esperienza si estende oltre la scrittura; curo mostre fotografiche e pubblico articoli su riviste specializzate. Ho un occhio attento ai dettagli e cerco sempre di contestualizzare le opere fotografiche all’interno delle correnti storiche e sociali.
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Sono anche una sostenitrice della conservazione della memoria visiva. Ritengo che le immagini abbiano il potere di raccontare storie e preservare momenti significativi. Con un approccio critico e riflessivo, invito i miei lettori a considerare il valore estetico e l’impatto culturale delle fotografie.
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