Pedro Luis Raota nacque il 14 marzo 1945 a Buenos Aires, in Argentina. Durante la sua vita professionale si trasferì brevemente in Europa per motivi di studio e ricerca, tornando poi a stabilirsi nella capitale argentina, dove morì il 22 settembre 2018. Raota è ricordato come uno dei più autorevoli interpreti della fotografia documentaria e paesaggistica in America Latina, con un approccio tecnico capace di unire rigore scientifico e profonda sensibilità artistica.
Nel cuore di Buenos Aires, negli anni Cinquanta, Raota sviluppò fin dall’infanzia un’attrazione per l’osservazione visiva del quotidiano. Figlio di un insegnante di fisica e di una pittrice dilettante, apprese in casa i rudimenti della meccanica ottica e dell’esperimento chimico applicato alle emulsioni fotografiche. A dodici anni iniziò a utilizzare una compatta a pellicola 35 mm – una Kodak Retina Reflex – esplorando le regole del tempo di posa (che oscillava tra 1/30 e 1/250 di secondo) e del diaframma, che sceglieva tra f/2.8 e f/11 in base alle condizioni di luce naturale.
All’età di sedici anni entrò come assistente in un laboratorio amatoriale presso l’Escuela Nacional de Bellas Artes, dove poté sperimentare con ingranditori Leica a lenti acromatiche. Imparò a padroneggiare i bagni di sviluppo a base di Metol‑Idrochinone, calibrando la temperatura dell’acqua con precisione al decimo di grado Celsius e annotando con rigore i tempi di immersione per controllare la granulosità nelle stampe su carta baritata. Il confronto con formati medio (6×6) e grande (4×5″) gli fece comprendere le potenzialità della profondità di campo estesa: scoprì l’uso della distanza iperfocale per mantenere simultaneamente nitidi soggetti in primo piano e paesaggi sullo sfondo.
Il percorso accademico di Raota proseguì all’Universidad de Buenos Aires, dove si laureò in Storia dell’Arte con una tesi sulle relazioni fra teoria cromatica e composizione fotografica. Nello stesso periodo frequentò un seminario avanzato di Ottica Fotografica, durante il quale realizzò prototipi di filtri in vetro ottico per modulare la resa tonale del cielo e delle superfici metalliche. Qui iniziò a dialogare con altri allievi su temi complessi come la curva caratteristica del negativo (H‑D curve) e la risposta spettrale delle emulsioni, questioni che avrebbero contraddistinto la sua ricerca tecnica per tutta la carriera.
Dopo la laurea, Raota trascorse due anni in Europa grazie a una borsa di studio erogata dal Ministerio de Cultura argentino. A Parigi approfondì le tecniche di printing giclée e la ripresa in medio formato digitale, utilizzando prime generazioni di scanner drum per negativi fino al 8×10″. In Italia si formò con tecnici di camera oscura storica, sperimentando la stampa su carta al bromostagno e bagni di fissaggio alternativi che riducevano lo scolorimento delle stampe. Tornato in Argentina, aprì uno studio a Palermo, dotato di un laboratorio di ultima generazione e di una galleria espositiva, diventata punto di riferimento per giovani autori.
Evoluzione stilistica e tecniche fotografiche
A partire dagli anni Settanta Raota elaborò uno stile personale che univa i rigori della fotografia documentaria al lirismo del paesaggio urbano. Le sue prime serie su Buenos Aires furono scattate con una Leica M4-P in pellicola Tri‑X 400, sviluppata in D‑76 mantenendo i tempi di agitazione costanti per garantire un contrasto medio e una grana controllata. Decise di privilegiare un intervallo dinamico ampio, esponendo ogni negativo in modalità “bracketing” a tre scatti (-1, 0, +1 EV), in modo da preservare dettagli sia nelle ombre profonde sia nelle alte luci metropolitane.
Negli anni Ottanta, quando l’editoria illustrata esplose in Argentina, Raota venne chiamato a documentare i grandi progetti infrastrutturali. Per la costruzione di ponti e autostrade impiegò fotocamere Graflex 4×5″, utilizzando lastre PL S panchromatiche da 4×5″ – capaci di una risoluzione ottica superiore – e ottiche Schneider Super-Angulon 90 mm. Misurava l’esposizione con esposimetri Gossen a lettura spot, puntati sulle superfici metalliche, e calibrava il bilanciamento del bianco nelle stampe a colori su carta RA-4, adattando la temperatura del bagno di sviluppo (sempre a 38 °C) per neutralizzare eventuali dominanti arancio o blu.
Con l’arrivo del digitale professionale negli anni Novanta, Raota mantenne un approccio ibrido. Affiancò alla Leica digitale un sistema medio formato Pentax 645NII con bracketing automatizzato e una workflow tethered in Capture One Pro. In studio, combinava luci flash da 500 Ws con softbox di varie dimensioni per modellare il soggetto, mentre in esterni sfruttava pannelli riflettenti in poliestere per ammorbidire le ombre dirette. Nel post‑produzione evitò ogni ritocco weighty: interveniva principalmente su curve RGB, bilanciamento del bianco e maschere di luminosità, preservando la naturalezza dei materiali e delle texture.
Parallelamente a queste sperimentazioni, sviluppò un filone dedicato al ritratto ambientato, in cui il soggetto dialogava con l’architettura: in quegli scatti, realizzati con Hasselblad H5D da 50 MP, Raota studiò la profondità di campo usando diaframmi f/5.6 per isolare la figura e f/16 per inglobarla nell’ambiente. Tamponava le alte luci con filtri ND graduati e introduceva leggere luci di riempimento artificiali per evitare sottosaturazioni nelle ombre.
Sul fronte analogico non rinunciò mai al suo banco ottico 8×10″ per progetti editoriali di pregio: in campagne per riviste di fascia alta usava lastre panchromatiche con filtro IR per ritratti notturni, aumentando i tempi di posa fino a 2–3 secondi e montando filtri Hoya R72 per catturare riflessi inusuali. Durante lo sviluppo in Metol‑Idrochinone, riduceva la temperatura a 18 °C e allungava i tempi di 50 % per esaltare la grana e creare un effetto di mistero.
Progetti principali e reportage
Tra i primi reportage di rilievo si annovera la documentazione del restauro della Cattedrale di Buenos Aires (1978–1982). Raota documentò le fasi di smontaggio e ricomposizione delle pietre con una combinazione di formati: 35 mm in bianco e nero per i dettagli, 4×5″ per le inquadrature d’insieme, medio formato per i ritratti dei restauratori. Pubblicò le immagini in un volume illustrato con separazione CMYK calibrata in quadricromia, in cui ogni colore veniva bilanciato tramite spettrofotometro X‑Rite per garantire la fedeltà dei toni calcarei.
Negli anni Novanta si dedicò a un progetto ambizioso sulle ferrovie abbandonate del Nord argentino. Con una fotocamera Fuji GSW690III grandangolare 6×9 e pellicole Velvia 50, mise a punto una tecnica di exposure push (+1 EV) per scattare in interni di hangar bui, sviluppando poi in processo E‑6 modificato per aumentare il contrasto dei toni caldi. Le stampe finali furono presentate in una mostra itinerante che toccò Buenos Aires, Bariloche e poi Madrid, con stampe su carta Hahnemühle FineArt da 310 g/m².
Il terzo grande progetto fu il “Ritratto del Gran Chaco” (2005–2010), dedicato alle popolazioni indigene. Raota utilizzò un approccio antropologico, impiegando fotocamere Leica S2 digitali per un ritratto ravvicinato e una Hasselblad 4×5″ analogica per ritratti full‑body. I file RAW venivano sviluppati con profili di gamma personalizzati e salvati in DNG, mentre i negativi analogici erano sviluppati in Rodinal per mettere in risalto le texture cutanee e i motivi delle stoffe tradizionali. Il risultato fu un corpus di immagini che combinava rigore etnografico e forte impatto visivo, pubblicato in un volume bilingue e presentato in conferenze universitarie.
Negli ultimi anni di attività produsse una serie di paesaggi urbani notturni di Buenos Aires, realizzati interamente in digitale con Nikon D850. Con un obiettivo Nikkor 24–70 mm f/2.8 e filtri ND graduati, usava esposizioni fino a 30 secondi per catturare scie di luce e riflessi sull’asfalto. In post‑produzione impiegava bracketing HDR a tre scatti, unendo i file in software specializzati e applicando curve di tono locale per enfatizzare l’atmosfera onirica.
Principali opere di Pedro Luis Raota
Il lascito di Raota comprende numerosi volumi e mostre di grande impatto. Tra le pubblicazioni più note si segnala “Buenos Aires: Ombre e Luci” (1985), che raccoglie gli scatti in bianco e nero della città, stampati su carta baritata con filtri di contrasto 2 e tonalizzazione al selenio per un cast caldo.
“Linee di Ferro” (1998) documenta le ferrovie abbandonate con la tecnica push‑process in diapositiva e stampe su carta RA‑4, presentate in una prima edizione limitata di 500 copie.
“Gran Chaco: Volti Antichi” (2012) è un volume etnografico con immagini analogico‑digitali in quadricromia, separazione colori CMYK calibrata in laboratorio e stampa su carta patinata opaca.
“Noctámbulos Porteños” (2016) raccoglie i paesaggi notturni digitali, stampati in giclée su tela con inchiostri pigmentati per garantire stabilità cromatica e profondità tonale.
Infine, la retrospettiva “Luoghi e Sguardi” (2019), allestita postuma al Museo Nacional de Bellas Artes, ha presentato materiali originali in vari formati, dal negativo 4×5″ agli scatti digitali, illustrando la versatilità tecnica e la coerenza estetica di Raota.