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Generi fotograficiLa Fotografia criminale (polizia)

La Fotografia criminale (polizia)

La fotografia criminale nasce nella seconda metà dell’Ottocento come strumento scientifico per l’identificazione dei sospetti e la documentazione delle scene del crimine. Fino a quel momento, la polizia si basava su descrizioni scritte, segnaletiche verbali e ritratti disegnati, strumenti notoriamente imprecisi. L’introduzione della fotografia offrì per la prima volta un mezzo rapido e realistico per fissare i tratti somatici e le circostanze di un fatto criminale.

Uno dei pionieri è Alphonse Bertillon (1853-1914), funzionario della Prefettura di Parigi. Prima di lui, fotografie di sospetti erano già prodotte in maniera sporadica, ma Bertillon sistematizzò il processo con il suo sistema bertilloniano (o “bertillonage”), introdotto nel 1883. Esso combinava fotografia segnaletica (due scatti standardizzati, di fronte e di profilo) con misurazioni antropometriche di 11 parametri (lunghezza del cranio, braccia, orecchie, ecc.), al fine di ridurre al minimo l’errore d’identificazione. Questa metodologia trasformò la fotografia da curiosità tecnologica in strumento scientifico di polizia.

Negli Stati Uniti, la fotografia criminale cominciò a diffondersi negli anni 1850 con i dagherrotipi di sospetti. La prima grande raccolta sistematica risale agli anni 1870 con i “Rogue’s Galleries” della polizia di New York e Chicago, veri e propri archivi fotografici di criminali. Tuttavia mancava uno standard: pose, formati e illuminazione erano eterogenei, rendendo difficile la comparazione. Il modello parigino divenne quindi il riferimento internazionale.

Oltre ai ritratti dei sospetti, fin dagli anni 1860 si sperimentò la fotografia delle scene del crimine. La polizia scientifica di Parigi e, successivamente, la Scotland Yard a Londra iniziarono a documentare luoghi del delitto con lastre fotografiche. Questo approccio rispondeva all’esigenza di fissare in modo oggettivo la disposizione degli oggetti, delle tracce di sangue, dei corpi. Prima, tali informazioni venivano disegnate o annotate a mano, con grande margine di interpretazione.

Nel contesto coloniale e imperiale europeo, la fotografia criminale fu anche strumento di classificazione etnica e controllo sociale, legandosi a pratiche oggi considerate discriminatorie. Fotografie segnaletiche venivano raccolte non solo di sospetti ma di intere popolazioni, intrecciando scienza, antropologia e polizia. Questo aspetto evidenzia come la fotografia criminale non sia neutrale, ma abbia un contesto storico di potere e controllo.

Standardizzazione tecnica e metodologia della fotografia segnaletica

Il cuore della fotografia criminale è la fotografia segnaletica. Bertillon fissò regole precise: due fotografie – frontale e profilo destro – su sfondo neutro, illuminazione uniforme, assenza di accessori e espressione neutra. Questi elementi, oggi dati per scontati nelle foto d’identità, furono una vera innovazione all’epoca.

Dal punto di vista tecnico, negli anni 1880-1890 si usavano macchine a banco ottico con obiettivi a focale lunga (per minimizzare la distorsione prospettica) e lastre al collodio o al gelatino-bromuro. L’illuminazione proveniva da grandi finestre laterali o da lampade ad arco per evitare ombre nette. Le misure erano standardizzate: il volto doveva occupare una certa percentuale del fotogramma, gli occhi allineati a una linea di riferimento, la distanza dalla macchina fissata a 1,5-2 metri.

Il formato delle schede era altrettanto codificato. In Francia, ogni scheda bertilloniana conteneva le due fotografie, le misurazioni antropometriche, le impronte digitali (aggiunte in seguito) e i dati anagrafici. Queste schede venivano archiviate per ordine alfabetico e per categorie fisiche, costituendo un sistema di ricerca incrociata. Prima dell’avvento dei database elettronici, questo era il modo più efficiente di gestire decine di migliaia di identità.

Un’evoluzione parallela fu l’adozione delle impronte digitali, introdotte in Europa negli anni 1890. Inizialmente viste come concorrenti, impronte e fotografie finirono per integrarsi: la foto forniva la riconoscibilità immediata, le impronte la prova scientifica. La fotografia segnaletica divenne quindi parte di un ecosistema tecnico più ampio, insieme a antropometria, impronte, archivi cartacei.

Dal punto di vista operativo, fotografare sospetti richiedeva rapidità e sicurezza. Gli studi fotografici di polizia erano dotati di sedie girevoli con poggiatesta per immobilizzare il soggetto, sfondi lavabili e sistemi di sviluppo immediato. L’obiettivo era produrre la scheda completa in meno di mezz’ora dall’arresto. Con il passaggio alle pellicole più sensibili e alle macchine portatili, negli anni 1920-1930 si potevano realizzare fotografie anche fuori dagli uffici, ad esempio durante operazioni di polizia.

Anche la fotografia della scena del crimine si standardizzò. All’inizio del Novecento nacquero i primi manuali di “police photography”, che spiegavano come misurare le distanze, usare scale metriche, mantenere angolazioni ripetibili. Già nel 1903 la Prefettura di Parigi disponeva di squadre fotografiche dedicate. Si passò dal semplice scatto illustrativo alla fotografia forense, con criteri scientifici: vista d’insieme, dettagli, reperti. Vennero introdotte regole come fotografare prima del rilievo e non spostare nulla.

Questa metodologia è alla base della moderna criminologia visiva. Oggi ogni corso di formazione in polizia scientifica comprende moduli di fotografia, perché l’immagine è la forma primaria di documentazione tecnica del luogo del reato.

Evoluzione dal periodo analogico al digitale e nuove tecnologie

Con l’avvento della fotografia a pellicola e delle macchine portatili (Leica, Rolleiflex), negli anni 1930-1950 la fotografia criminale uscì dai laboratori per andare direttamente sul campo. Gli operatori potevano documentare la scena del crimine in tempo reale, scattare più angolazioni e portare subito i negativi per lo sviluppo. Questo accorciò i tempi d’indagine e aumentò la quantità di materiale fotografico prodotto.

Negli anni 1960-1980 si diffuse l’uso del flash elettronico e delle pellicole a colori, permettendo immagini più dettagliate e fedeli. Tuttavia molti reparti continuarono a preferire il bianco e nero per la maggiore stabilità archivistica. La standardizzazione ISO e ASA rese possibile calibrare esposizioni coerenti tra diversi operatori e scene.

L’era digitale, dagli anni 1990, rivoluzionò il settore. Le fotocamere digitali permisero la visualizzazione immediata sul campo, eliminando i tempi di sviluppo. La risoluzione crescente (oggi decine di megapixel) consente di ingrandire i dettagli senza perdita di qualità. Nascono software dedicati per gestione delle immagini forensi, con metadata, catena di custodia e sistemi di hashing per garantire l’integrità dei file.

Parallelamente si svilupparono tecniche avanzate come la fotogrammetria e la scannerizzazione 3D delle scene del crimine, che permettono di ricostruire ambienti complessi in modelli navigabili. Anche l’infrarosso, l’ultravioletto e la fotografia multispettrale entrano nell’arsenale forense, rivelando tracce invisibili all’occhio nudo, come residui di sangue lavati o impronte su superfici problematiche.

Un settore specifico è la ricostruzione facciale da immagini. Confrontando fotografie segnaletiche, sorveglianza video e banche dati, i laboratori di polizia possono generare modelli 3D dei volti, integrare dati biometrici e applicare algoritmi di riconoscimento facciale. Tuttavia, questi strumenti sollevano questioni etiche sulla privacy e l’affidabilità dei sistemi automatici.

L’integrazione con i database digitali ha trasformato la fotografia criminale in un componente di sistemi più ampi come l’AFIS (Automated Fingerprint Identification System) e i database nazionali di volti. Oggi non si parla più solo di fotografia segnaletica, ma di identificazione biometrica multimodale, dove l’immagine è una delle tante caratteristiche acquisite.

Nonostante la tecnologia, i principi fondamentali stabiliti nell’Ottocento restano validi: standardizzazione della posa, sfondo neutro, illuminazione controllata, accuratezza nella documentazione. La fotografia criminale moderna è quindi una continuità evolutiva più che una rottura con il passato.

Aspetti giuridici, deontologici e archivistici

La fotografia criminale non è solo un fatto tecnico, ma anche giuridico e deontologico. Ogni immagine raccolta nell’ambito di un’indagine deve rispettare la catena di custodia, cioè procedure che garantiscono che il file o il negativo non siano stati alterati. In epoca analogica ciò significava conservare i negativi originali sigillati; oggi implica firme digitali, metadati e sistemi di audit.

Le normative sulla privacy hanno un impatto diretto. Mentre nell’Ottocento era normale esporre in pubblico le foto dei sospetti (“rogues’ gallery”), oggi la diffusione è regolamentata. In molti paesi le fotografie segnaletiche possono essere utilizzate solo a fini investigativi e non divulgate senza autorizzazione. Questo pone limiti anche agli archivi storici, che devono bilanciare trasparenza e tutela dei diritti individuali.

Dal punto di vista archivistico, le collezioni di fotografie criminali storiche sono oggi una risorsa per storici e sociologi. Gallerie di criminali ottocenteschi conservano informazioni preziose su classi sociali marginali, mode, tatuaggi, etnicità, segnando un vero e proprio “ritratto dei ceti popolari” di epoca industriale. Tuttavia, presentare queste immagini richiede contesto per evitare stigmatizzazioni postume.

Anche la fotografia della scena del crimine ha regole probatorie. Le immagini devono essere scattate prima di qualsiasi alterazione, con scale metriche e angolazioni multiple, e annotate nel verbale. Ogni manipolazione (contrasto, luminosità) va documentata per non comprometterne il valore in tribunale. Gli operatori devono seguire corsi specifici su tecnica fotografica e procedure legali.

Un aspetto interessante è il rapporto tra fotografia criminale e comunicazione pubblica. Nelle società contemporanee, le immagini di sospetti o di scene del crimine circolano sui media e sui social network. La polizia deve bilanciare esigenze investigative, diritto all’informazione e presunzione di innocenza. Questo rende la fotografia criminale non solo uno strumento interno, ma anche parte della costruzione mediatica del crimine.

Infine, l’archiviazione digitale a lungo termine è una sfida. File fotografici devono essere conservati per decenni, con formati non proprietari e sistemi di backup ridondanti. Molti reparti adottano standard internazionali come JPEG2000 lossless o TIFF per garantire l’accessibilità futura. La migrazione periodica dei dati e la verifica dei checksum fanno parte della manutenzione. In questo senso, la fotografia criminale si è avvicinata alle pratiche dei grandi archivi museali e scientifici.

L’evoluzione della formazione professionale riflette queste esigenze. Oggi esistono corsi universitari di scienze forensi che includono moduli di fotografia, gestione dei media digitali e aspetti legali. La figura del fotografo di polizia è diventata una professionalità specializzata, che richiede competenze tecniche, conoscenza normativa e sensibilità etica.

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