mercoledì, 29 Ottobre 2025
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I Maestri della FotografiaMaestri per genere fotograficoGli 11 fotografi di guerra più famosi

Gli 11 fotografi di guerra più famosi

Nell’evoluzione della fotografia di guerra, l’atto di documentare i conflitti non è mai stato mera registrazione neutrale: è stato, ed è, un dispositivo tecnico, etico e politico che plasma la storia della fotografia e la percezione collettiva degli eventi bellici. Questo articolo non affronta la definizione del genere — già trattata altrove — ma concentra l’analisi su undici fotografi di guerra che hanno trasformato il fotogiornalismo sul campo con innovazioni tecniche, scelte stilistiche e posizionamenti etici. Per ciascuno, si evidenziano gli elementi distintivi del lavoro in condizioni ostili — dall’uso dell’otturatore in rapida successione per rintracciare l’istante decisivo in scenari caotici, alla costruzione di sequenze narrative per riviste illustrate, fino all’impiego consapevole della grana, della prospettiva e del colore come linguaggi espressivi del trauma. Ogni capitolo integra le informazioni biografiche di base (nascita e morte, ove pertinenti), approfondisce le peculiarità del metodo e inserisce, in forma narrativa, tre opere iconiche riconducibili alla produzione di guerra, contestualizzandole sul piano tecnico e storico. L’impianto stilistico rimane formale e dettagliato, con attenzione alle variabili che definiscono la tecnica di ripresa in condizioni di combattimento, agli standard professionali della etica del fotogiornalismo di guerra, e ai dispositivi tecnologici via via adottati per incrementare affidabilità, resistenza e tempestività. L’intento è documentario: offrire una mappa ragionata del campo, in cui ogni autore non rappresenta soltanto un’estetica, ma una precisa risposta alle limitazioni operative del teatro di battaglia — logistiche, meccaniche e morali — che, nel loro complesso, hanno contribuito a definire l’attuale orizzonte visivo dei conflitti.

Roger Fenton (1819–1862): il controllo della messinscena nell’era del collodio umido

La figura di Roger Fenton si colloca nella fase embrionale della fotografia di guerra, quando la tecnologia a disposizione imponeva vincoli così severi da determinare, quasi per necessità, una estetica della distanza. Nato nel 1819 e morto nel 1862, Fenton operò durante la Guerra di Crimea (1853–1856), portando sul fronte un laboratorio ambulante e lavorando con il processo al collodio umido su lastre di vetro. Questa tecnica, inventata nei primi anni ’50 dell’Ottocento (la standardizzazione avviene tra 1851 e 1854), richiedeva che l’emulsione fosse sensibilizzata, esposta e sviluppata in rapidissima sequenza, mentre la lastra era ancora bagnata. In un contesto di campo, ciò significava trasportare una camera oscura mobile, mantenere una catena chimica stabile e limitare drasticamente i soggetti fotografabili a cause dell’esposizione relativamente lunga e della scarsa sensibilità alla luce. La cifra peculiare di Fenton risiede dunque nella rigorosa costruzione dell’inquadratura per rendere leggibile il teatro di guerra pur senza rappresentare, nella maggior parte dei casi, lo scontro diretto. Lontano dalla retorica dell’azione, egli formula un linguaggio topografico: paesaggi, posizioni d’artiglieria, ritratti di ufficiali e soldati in posa, e soprattutto scene di terreno che suggeriscono l’evento attraverso gli effetti e i resti, più che con l’istante del combattimento.

La fotografia nota come “The Valley of the Shadow of Death” (1855) emerge come paradigma di questa poetica tecnica. L’immagine, scattata in una gola vicino a Sebastopoli, mostra la strada costellata di palle di cannone; l’assenza della battaglia in atto è compensata dalla densità indiziale degli oggetti, trasformati in segni. La composizione sfrutta la prospettiva centrale per guidare lo sguardo nel solco della strada, mentre la luce diffusa del clima crimeano attenua i contrasti, imprimendo sul collodio un disegno tonale morbido che rende più evidente il ritmo ripetitivo delle sfere di ferro. La discussione storiografica sull’allestimento della scena, al di là delle polemiche, illumina un punto cardine del suo metodo: la messa in forma di un’esperienza attraverso una scelta attentissima dei tempi e delle condizioni, con un controllo compositivo determinato dalla tecnologia quanto dal gusto.

Un’altra immagine significativa è il “Portrait of Sevastopol Mortar Batteries” (1855), in cui l’apparato bellico è presentato con un rigore quasi catalografico. La lastra di grande formato, sfruttando il potere risolutivo del negativo su vetro, rende in alta definizione superfici metalliche e elementi strutturali, suggerendo una funzione di inventario che preannuncia il futuro fotogiornalismo tecnico-militare. Nelle fotografie di Fenton emerge sempre l’intento di ridurre il rumore visivo, cercando un ordine iconico in contesti intrinsecamente entropici: un modo di fare che sarà riattualizzato da molte stagioni successive del reportage.

Completando la triade, la sequenza di ritratti di ufficiali e soldati britannici — tra cui quelli del 8th Hussars — sfrutta una luce naturale laterale per disegnare volti e uniformi con una delicatezza tonale che attenua la durezza del soggetto. Qui Fenton incrocia la ritrattistica accademica con l’osservazione sul campo, componendo una iconografia della presenza in cui la posé rilassa la tensione documentaria e insieme istituzionalizza la testimonialità. L’assenza dell’azione non è una mancanza: è una strategia visuale coerente con i limiti del collodio e col progetto morale di non spettacolarizzare la violenza diretta. In questa rigorosa architettura dell’immagine, Fenton traccia il primo standard operativo del reporter in zona di conflitto: logistica autonoma, conoscenza chimico-ottica, regia spaziale e temporale, prudenza etica nel rappresentare i caduti. È in questo equilibrio fra vincolo tecnico e forma visiva che va letta la sua ereditarietà al genere bellico: un’idea di testimonianza che non coincide col proiettile in volo, ma con il campo di forze che lo ha generato.

Robert Capa (1913–1954): l’errore necessario e la prossimità come linguaggio

Il nome d’arte Robert Capa, nato Endre Ernő Friedmann nel 1913 e morto nel 1954, segna la transizione dalla fotografia di guerra “di posizione” a una estetica della prossimità che fa dell’avvicinamento fisico al soggetto la precondizione del significato. La sua pratica è un compendio di scelte tecniche orientate alla rapidità operativa e alla resilienza sul campo: fotocamere compatte, ottiche luminose, gestione aggressiva dei tempi di otturazione, e un accettato margine di mosso come componente semantica della urgenza. La celebre massima attribuita a Capa — «Se le tue foto non sono abbastanza buone, non sei abbastanza vicino» — va intesa come un manifesto operativo: riduzione della distanza di ripresa fino al limite della sicurezza, per saturare il fotogramma di informazioni tattiche e psicologiche.

Fra le sue opere più iconiche, “The Falling Soldier” (1936), ripresa durante la Guerra civile spagnola, condensa la dialettica fra verità documentaria e costruzione retorica dell’immagine. L’inquadratura interrompe il tempo proprio nel momento di un collasso, con un tempo di scatto abbastanza rapido da delineare il gesto ma non così breve da congelare i contorni: quel residuo di sfocatura diventa significante della contingenza. L’uso del formato 35mm consente a Capa la mobilità necessaria per essere dentro il campo di azione, e l’angolo leggermente ribassato attribuisce al soggetto una monumentalità tragica. In termini tecnici, il negativo porta i segni della compressione logistica della catena di custodia del materiale in condizioni di guerra, rafforzando la percezione di realtà non sterilizzata.

Altro punto culminante è il gruppo di fotografie noto come “The Magnificent Eleven” (1944), realizzato durante lo sbarco in Normandia. Qui la granulometria elevata e il mosso intrinseco ai tempi brevissimi richiesti dall’azione restituiscono non un difetto, ma una qualità fisiologica dell’esperienza. L’acqua che schizza sulla lente, la vibrazione del corpo-cinepresa, l’orizzonte instabile generano una semantica del rischio che diventa la firma stilistica del reporter di guerra moderno. Sul piano tecnico, la gestione dell’esposizione in un contesto alternante fra cieli lattiginosi e controluce richiede decisioni immediate: sovraesporre di un quarto di stop per preservare il soggetto, sacrificando porzioni di cielo; o, al contrario, comprimere le alte luci per salvare la trama nell’ombra dell’equipaggiamento. Capa sceglie la leggibilità del gesto rispetto alla pulizia del contrasto, legando la verità della scena a una imperfezione intenzionale.

Infine, le immagini del fronte italiano del 1943–44, come quelle scattate presso Troina e Napoli, mostrano il suo equilibrio tra narrazione umana e descrizione tattica. La costruzione delle sequenze per le riviste illustrate (Life e altre) sposa il montaggio visivo tipico del fotogiornalismo: piani medi per circostanziare il luogo, dettagli per dilatare l’attenzione emotiva, e scatti ampi per definire la direzione della manovra. Da un punto di vista operativo, l’uso di pellicole ad alta sensibilità provoca una grana evidente, che diventa non solo tollerata ma cercata, come marcatore della vicinanza e della urgenza. Capa consolida l’idea che la fotografia di guerra debba rinunciare all’illusione della neutralità ottica per farsi testimonianza coinvolta, dove la prossimità fisica e il rischio misurato sono strumenti espressivi al pari di ottiche e emulsioni. Tale paradigma influenzerà intere generazioni, spostando l’asse del fotogiornalismo dal punto di vista dell’osservatore a quello del partecipante.

Don McCullin (1935–): il chiaroscuro morale tra Vietnam, Biafra e Libano

Nato nel 1935, Don McCullin incarna la scuola britannica del reportage di guerra con una cifra estetica fondata su densità tonale, controllo magistrale del bianco e nero, e una etica dello sguardo che rifiuta la spettacolarizzazione a favore della compassione informata. Le sue immagini, spesso realizzate con ottiche medio-tele per isolare i soggetti nel caos del campo, sfruttano un vocabolario di chiaroscuri che rende tridimensionale la sofferenza senza cedere al pittoresco. McCullin lavora sui margini tra il gesto e la sua eco, collocando i personaggi in un spazio psicologico più che geografico. Questa costruzione passa da scelte tecniche riconoscibili: sottoesposizioni leggere per preservare le alte luci, sviluppo calibrato per estrarre dettaglio dalle ombre, e predilezione per tempi rapidi che congelano relazioni minime tra volti, mani, oggetti.

L’immagine dello “US Marine shell-shocked, Hue, 1968” è un compendio della sua poetica. Il primo piano, avvolto in una trama fine di grigi, mostra lo sguardo perso di un soldato in stato di shock. La profondità di campo ridotta separa il volto dal caos retrostante, mentre la luce incidente disegna la pelle con una microscultura tonale che amplifica il silenzio di chi è al centro. Non si tratta di un’icona dell’azione, ma dell’effetto che l’azione produce sul soggetto umano; è qui che McCullin sposta l’asse del discorso: dalla tattica alla psicologia del trauma. Sul piano operativo, l’adozione di un tempo di scatto molto rapido neutralizza il micro-movimento del volto, mentre una leggera grana riporta la fotografia al suo supporto materiale, ricordandoci la fisicità del negativo in un contesto dove tutto tende a dissolversi.

La serie sulla carestia in Biafra (1968–69) esplicita l’altra gamba del suo contributo: la rappresentazione della vulnerabilità civile come parte integrante della fotografia di guerra. In un’immagine ricorrente, un bambino malnutrito è ritratto su fondo neutro, con la pelle che assorbe la luce in modo opaco e lo sguardo magnetizzato verso un punto fuori campo: la costruzione ricrea uno studio improvvisato sul campo, dove il fotografo controlla la luce quanto basta per sospendere per un attimo il flusso della tragedia e restituire dignità al soggetto. Dal punto di vista tecnico, McCullin dosa la latitudine di posa per evitare neri chiusi, preferisce un contrasto medio e un micro-dettaglio che non ferisce lo sguardo. L’etica è qui intrinseca alle scelte di esposizione e sviluppo: la tecnica di ripresa in condizioni di combattimento non è solo abilità; è misura etica.

Il terzo pilastro è rappresentato dalle fotografie del Libano negli anni ’70 e ’80, dove la guerra urbana impone un diverso set di decisioni: controllo del mosso in condizioni di luce scarsa, gestione dei controluce tra vicoli e interni, e soprattutto una elaborazione del campo-sonoro visivo che si traduce in immagini dalla composizione incalzante. Un esempio emblematico raffigura un combattente su uno scalone, con un fascio di luce che buca la polvere: la diagonale della scala fa da vettore di tensione, mentre il profilo del soggetto, leggermente in controluce, configura un ritratto d’azione mai gratuito. In questi scenari, McCullin sceglie il bianco e nero per ragioni più che estetiche: la riduzione della scena a valori tonali favorisce decisioni veloci, amplia la tolleranza all’errore di esposizione, e restituisce una coerenza visiva a storie frammentarie. Il suo contributo alla etica del fotogiornalismo di guerra si ritrova nella costante tensione a non umiliare i soggetti e a non saturare il fotogramma di dolore: l’immagine resta umana, anche quando parla dell’ disumano.

Nel suo corpus, tre opere ricorrono come cenotafi formali: oltre allo shell-shocked Marine di Huế, la fotografia della madre in lutto a Cipro (1964), dove il contrasto alto scandisce il dramma in un teatro di luce mediterranea, e il ritratto del fanciullo biafrano che fissa l’obiettivo come se volesse forzarlo a diventare strumento, e non osservatore. Queste immagini mostrano come la fotografia di guerra possa essere un sistema di valori oltre che un mezzo di informazione: l’attenzione alla struttura tonale, all’inquadratura e alla distanza etica definisce un metodo che resta un riferimento per i reporter di guerra contemporanei, sia sul piano operativo, sia su quello morale.

James Nachtwey (1948–): l’ascetica del bianco e nero e l’ordine nel caos

Nato nel 1948, James Nachtwey ha dato forma a un’ascetica severa del bianco e nero e, più tardi, di un colore sobrio, atta a restituire il caos dei conflitti con ordine compositivo e rigore morale. La sua firma si riconosce nella precisione geometrica delle inquadrature, nella gestione chirurgica della luce naturale, e in una coerenza narrativa costruita scatto dopo scatto, come se ogni immagine dovesse reggere il peso di una pagina unica e, insieme, di una sequenza coerente. Nachtwey lavora per sottrazione: elimina il ridondante, allinea i vettori di forza, modula i grigi per ottenere profondità senza enfasi retorica. La sua pratica professionale ha attraversato teatri di guerra e crisi umanitarie dal Centro America al Medio Oriente, dai Balcani all’Africa, lasciando immagini che combinano denuncia e autocontrollo formale.

Fra le sue opere iconiche spiccano i lavori realizzati durante la carestia in Somalia (1992), in cui la fotografia di guerra si ibrida con la documentazione umanitaria. In una scena rappresentativa, un uomo sostiene sulle braccia un bambino denutrito all’interno di un centro di accoglienza: la composizione si gioca su linee diagonali che convogliano lo sguardo nel punto di massima tensione emotiva, mentre la luce morbida — probabilmente filtrata da un’apertura laterale — evita sia lo schiacciamento dei bianchi sia la perdita di tessitura nelle ombre. L’assenza di grandangolo estremo e l’uso di focali moderate impediscono distorsioni, conferendo equilibrio e rispetto al soggetto. La etica del fotogiornalismo di guerra si manifesta qui nella scelta deliberata di non spettacolarizzare la sofferenza, ma di porla in una cornice leggibile, capace di mobilitare attenzione senza manipolare.

Un secondo corpus decisivo riguarda il genocidio in Ruanda (1994). In uno scatto divenuto simbolo, un sopravvissuto mostra cicatrici sul volto: l’inquadratura ravvicinata, la luce uniforme, la profondità di campo calcolata per separare nettamente il soggetto dal fondo, costruiscono un ritratto-testimonianza. L’assenza di elementi ridondanti aumenta l’impatto del segno — la cicatrice — che diventa sintesi visiva dell’evento storico. Sul piano tecnico, le scelte di sviluppo e stampa portano a neri pieni ma ventilati, con una curva tonale che lascia aria ai mezzi toni: è una scelta che mette in primo piano texture e pelle, restituendo la corporeità della storia.

Il terzo nodo è il suo lavoro nei Balcani (Kosovo, fine anni ’90), dove l’approccio si adatta alla guerra nel tessuto civile europeo. Una fotografia delle colonne di profughi lungo una strada fangosa mette in campo tutti gli strumenti di Nachtwey: piani sequenziali che arretrano in profondità, ripetizione ritmica delle figure, linea d’orizzonte bassa per concedere il giusto peso al cielo plumbeo che incombe come soggetto. L’uso di tempi di scatto rapidi in condizioni di luce precaria richiede sensibilità elevate e accettazione della grana; ma anche quando la texture diventa visibile, Nachtwey la governa come materia del racconto, non come accidente.

La sua peculiarità, rispetto ad altri reporter di guerra, è un minimalismo disciplinato che non rinuncia alla densità informativa. Il dispositivo tecnico — scelte di ottiche, tempi, diaframmi, post-produzione analogica o digitale — è sempre subordinato a una metrica visiva fondata sulla chiarezza. L’autore evita l’iperbole; sceglie, caso per caso, un grado di prossimità che non ghermisce lo spettatore ma lo invita a guardare fino in fondo. La fotografia di guerra diventa, in questa lezione, un linguaggio di moderazione in contesti estremi, dove l’ordine non nega la violenza, ma le concede una forma che la rende comprensibile. Tre tappe — Somalia 1992, Ruanda 1994, Kosovo fine anni ’90 — delineano un filo continuo: l’idea che la testimonianza debba essere insieme precisa e sobria, perché solo così può aspirare a una verità condivisibile.

Mathew Brady e Alexander Gardner: la nascita del reportage bellico sistematico

Mathew Brady (1822–1896) e Alexander Gardner (1821–1882) rappresentano il binomio fondativo della fotografia di guerra negli Stati Uniti, in particolare durante la Guerra di Secessione (1861–1865). Brady, imprenditore e fotografo, concepisce il progetto di documentare il conflitto in modo sistematico, organizzando una rete di operatori sul campo e centralizzando la produzione in un archivio che diventerà il primo grande corpus bellico della storia fotografica. Gardner, suo collaboratore e poi indipendente, introduce un approccio più diretto e narrativo, spingendo la fotografia verso la cronaca visiva.

Il contesto tecnico è dominato dal collodio umido, con lastre di vetro di grande formato e tempi di esposizione incompatibili con l’azione immediata. Ciò impone una strategia di ripresa orientata alla postazione stabile: scene di campi militari, fortificazioni, ritratti di ufficiali e, soprattutto, le prime immagini di cadaveri sul terreno, che segnano una svolta etica e iconografica. Brady concepisce la fotografia come archivio storico, mentre Gardner la declina come narrazione episodica, inserendo didascalie che trasformano la foto in documento esplicativo.

Tra le opere emblematiche di Brady, la serie di ritratti di Abraham Lincoln (1861–65) mostra la capacità di integrare la fotografia di guerra con la costruzione dell’immagine politica. Sul piano tecnico, l’uso di luce diffusa e la posa controllata restituiscono una monumentalità sobria, mentre la nitidezza del collodio enfatizza la tessitura del volto. Queste immagini, pur non essendo scattate sul campo, appartengono alla stessa logica di testimonianza storica che Brady applica al conflitto.

Gardner, invece, firma la celebre fotografia “Home of a Rebel Sharpshooter” (1863), scattata a Gettysburg. L’immagine ritrae un caduto in una postazione di tiro, con il fucile appoggiato alla parete di pietra. La composizione suggerisce una messa in scena — discussa dagli storici — ma ciò non ne riduce la portata innovativa: per la prima volta, la morte entra nel quadro come dato visivo e non come allusione. La gestione della luce naturale, filtrata dal cielo coperto, produce un chiaroscuro che accentua la drammaticità senza ricorrere a artifici pittorici.

Un terzo esempio è la fotografia “Dead Confederate Soldier with Gun”, parte della serie di Gardner. Qui la frontalità dell’inquadratura e la prossimità relativa al soggetto creano una iconografia della caduta che diventerà standard nel reportage bellico. Dal punto di vista tecnico, la profondità di campo ampia e la resa analitica del negativo su vetro conferiscono alla scena una precisione quasi anatomica, trasformando il corpo in testo storico.

Brady e Gardner fissano dunque le coordinate di un genere: mobilità logistica, uso di processi chimici complessi in condizioni precarie, e una tensione costante tra verità e costruzione. La loro opera inaugura la dialettica che attraverserà tutta la fotografia di guerra: documentare senza spettacolarizzare, ma anche organizzare il visibile in forme leggibili. In questa doppia matrice — archivistica e narrativa — si radica il futuro del fotogiornalismo.

Margaret Bourke-White (1904–1971): la modernità industriale al fronte

Nata nel 1904 e morta nel 1971, Margaret Bourke-White è la prima donna accreditata come fotografa di guerra per l’esercito americano e una pioniera del fotogiornalismo moderno. La sua cifra stilistica nasce dall’esperienza nella fotografia industriale: rigore compositivo, attenzione alle strutture, uso sapiente della luce artificiale e naturale. Quando entra nel teatro bellico — dalla Seconda guerra mondiale all’India della Partizione — porta con sé questa grammatica, adattandola alle condizioni di campo.

Durante la campagna italiana (1943), Bourke-White realizza immagini che fondono dinamica d’azione e ordine geometrico. Una fotografia emblematica ritrae un convoglio alleato su un ponte bombardato: la composizione sfrutta le linee diagonali delle travi spezzate per incanalare lo sguardo verso il punto di fuga, mentre la luce radente scolpisce i volumi metallici. Sul piano tecnico, l’uso di pellicole pancromatiche e di tempi rapidi consente di congelare il movimento senza sacrificare la leggibilità strutturale.

Un secondo vertice è la serie realizzata a Buchenwald (1945), subito dopo la liberazione del campo. In uno scatto celebre, Bourke-White ritrae i prigionieri dietro il filo spinato: la frontalità dell’inquadratura e la simmetria dei volti creano una architettura umana che amplifica la forza del documento. La scelta del bianco e nero, in un’epoca in cui il colore era tecnicamente possibile, risponde a una esigenza di sobrietà etica e di universalità semantica.

Il terzo nucleo riguarda la Partizione dell’India (1947), dove la fotografa coglie il dramma delle migrazioni di massa. In una immagine paradigmatica, una folla si accalca su un treno in partenza: la composizione è serrata, con un campo visivo saturo che restituisce la densità dell’evento. Dal punto di vista tecnico, la gestione della luce naturale in condizioni di forte contrasto richiede una esposizione di compromesso, che Bourke-White risolve privilegiando la leggibilità dei volti.

La sua peculiarità consiste nell’integrare la tecnica di ripresa in condizioni di combattimento con una sensibilità per la struttura: ogni immagine è un organismo ordinato, anche nel caos. Bourke-White dimostra che la fotografia di guerra può essere insieme documento e costruzione formale, senza perdere la tensione etica. La sua opera anticipa la stagione del fotogiornalismo narrativo, dove la singola immagine è pensata come parte di un racconto coerente.

W. Eugene Smith (1918–1978): la guerra come racconto sequenziale

Nato nel 1918 e morto nel 1978, W. Eugene Smith porta nella fotografia di guerra la logica del essay fotografico: non più immagini isolate, ma sequenze che costruiscono una narrazione visiva. Durante la Seconda guerra mondiale, Smith lavora per Life, realizzando reportage dal Pacifico che combinano azione immediata e introspezione psicologica.

Una fotografia emblematica ritrae un marine ferito a Saipan (1944): il soggetto è colto in un momento di vulnerabilità, con la luce che incide sul volto e lascia il resto in penombra. La scelta di un tempo rapido e di una profondità di campo ridotta concentra l’attenzione sul gesto, mentre la grana fine della pellicola restituisce una texture morbida. Smith non cerca la spettacolarità, ma la densità emotiva.

Un secondo vertice è la serie di Okinawa (1945), dove il fotografo alterna piani larghi di devastazione e dettagli di vita quotidiana. In uno scatto, un soldato fuma accanto a un compagno caduto: la composizione sfrutta la asimmetria per creare tensione, mentre la luce diffusa attenua il dramma senza negarlo. Sul piano tecnico, la gestione del contrasto in condizioni di luce variabile richiede una curva di sviluppo calibrata, che Smith padroneggia con maestria.

Il terzo nucleo riguarda il ritorno alla vita civile, documentato nel celebre essay “Country Doctor” (1948). Pur non essendo guerra, questo lavoro eredita la stessa grammatica: sequenza, prossimità, attenzione al gesto minimo. Smith dimostra che la fotografia di guerra non è solo evento, ma metodo: un modo di guardare che privilegia la continuità narrativa.

Philip Jones Griffiths (1936–2008): la prospettiva anticoloniale e l’analisi delle relazioni di potere

Nato a Rhuddlan, Galles, nel 1936 e scomparso nel 2008, Philip Jones Griffiths è tra i massimi interpreti della fotografia di guerra come indagine sistematica dei rapporti di potere e della propaganda in contesti coloniali e post-coloniali. Membro di Magnum Photos, Griffiths imposta il suo lavoro in Vietnam con un metodo che coniuga rigore etnografico e intenzione politica, utilizzando il linguaggio del fotogiornalismo per capovolgere la narrativa dominante. La sua forma mentis è quella del reporter che costruisce serie coerenti in grado di attraversare temi ricorrenti — l’impatto della guerra sulla popolazione civile, la retorica della modernizzazione, l’asimmetria tecnologica — con un controllo compositivo che privilegia la chiarezza iconografica e una tessitura tonale sobria.

La caratteristica peculiare di Griffiths è l’uso della prossimità rispettosa: avvicina i soggetti senza invaderli, applicando tecniche di ripresa in condizioni di combattimento che consentono tempi di scatto rapidi e dominanza del primo piano per accentuare l’asimmetria fra militari equipaggiati e civili vulnerabili. La scelta di focali moderate (35–50mm) riduce la distorsione e preserva la geometria sociale della scena; la profondità di campo contenuta isola i volti riducendo il contesto a segno. Questa grammatica, apparentemente semplice, è calibrata per evitare ogni sensazionalismo, favorendo la lettura politica della fotografia e aderendo a un’etica del fotogiornalismo di guerra che mette in primo piano l’agenzia dei soggetti ritratti.

Fra le opere iconiche, il volume “Vietnam Inc.” (1971) costituisce più che una raccolta: è un dispositivo di decostruzione del discorso ufficiale. In una immagine rappresentativa, una contadina vietnamita guarda in camera mentre alle sue spalle si intravedono mezzi militari americani: la linea di forza del suo sguardo taglia la composizione, trasformando il ritratto in un atto di resistenza simbolica. La luce è piana, quasi analitica, e consente ai tessuti, alle mani, agli oggetti di restare leggibili, così da rendere la fotografia testo oltre che immagine. La strategia di Griffiths non è mostrare l’azione, ma dimostrare l’occupazione attraverso i dettagli dell’ordinario.

Un secondo nucleo iconico appartiene alla serie sui bambini affetti da malformazioni riconducibili all’esposizione all’Agente Orange. Qui la scelta di inquadrare con altezza d’occhio e senza effetti drammatici porta lo spettatore a un confronto diretto con l’effetto a lungo termine del conflitto. Tecnicamente, l’illuminazione naturale e la sottoesposizione minima mantengono texture e tonalità della pelle, evitando neri schiacciati che potrebbero “estetizzare” il dolore. La fotografia, in questa accezione, non denuncia da fuori; accerta da dentro, con una metodologia che si avvicina alla documentazione medico-sociale, senza rinunciare alla potenza del reportage.

La terza opera-emblema è la sequenza di immagini sulla guerra civile cambogiana dei primi anni ’70, spesso letta in continuità con il lavoro vietnamita. Griffiths rappresenta i profughi lungo le vie sterrate con una ripetizione ritmica di corpi e oggetti che suggerisce il nesso fra dislocazione e economia della guerra. Le sue scelte operative restano coerenti: tempi rapidi per immobilizzare il passo, grana controllata per far risaltare gli elementi di contesto (sacchi, utensili, strumenti agricoli), e una linea dell’orizzonte bassa per riconoscere alla massa civile la centralità narrativa.

Nella storia della fotografia, la posizione di Griffiths è decisiva perché dimostra come l’apparato retorico della potenza militare possa essere smontato con una serie di scelte tecniche sobrie ma tenacemente coerenti. Il suo Vietnam non è solo teatro di scontro; è ecosistema di dipendenze, dove missioni di “pacificazione”, programmi di sviluppo e violenza sistemica si intrecciano. La sua scrittura visiva, aliena da scorciatoie emotive, ha ridefinito ciò che si intende per reporter di guerra: non un testimone che registra l’evento, ma un analista che ne cartografa gli effetti. La lezione — ancorata a Magnum Photos e alla tradizione del fotogiornalismo europeo — perdura per via della sua portata metodologica: un corso di etica del fotogiornalismo di guerra applicata, in cui il fattore tecnico è sempre subordinato a una interrogazione sul potere e sui suoi segni visivi.

Larry Burrows (1926–1971): il colore come linguaggio del trauma e l’immersione totale

Nato a Londra nel 1926 e morto nel 1971 in Laos, Larry Burrows ha cambiato la fotografia di guerra portando il colore in prima linea con una naturalezza che evita il pittoresco e aderisce al vero cromatico del campo. Il suo Vietnam non è solo tono e saturazione; è densità atmosferica: verdi luttuosi della giungla, ocra fangose delle piste, rossi che affiorano con parsimonia, tanto più forti quanto più trattenuti. L’impianto tecnico è di una coerenza estrema: ottiche versatili, predilezione per focali standard e medio-tele per ricostruire lo spazio senza deformazioni, e una disciplina nell’esposizione che tiene insieme alte luci tropicali e ombre profonde. La scelta del colore, in un’epoca in cui il bianco e nero dominava il fotogiornalismo, rimodula la grammatica dell’emozione: il trauma si legge nei toni della pelle, nella ruggine dell’equipaggiamento, nelle uniformi intrise di pioggia.

Tra le opere iconiche, “One Ride with Yankee Papa 13” (Life, 1965) è il caposaldo. Burrows sale su un elicottero UH-34 e costruisce un racconto in sequenza: decollo, missione, ritorno, feriti, morte. La camera si muove con il velivolo, e la vibrazione entra nel fotogramma senza diventarne un rumore incontrollato. L’uso di tempi rapidi per congelare il rotore e di ISO calibrate alla luce imprevedibile della cabina crea una leggibilità estrema dei gesti minimi: le mani che stringono barelle, lo sguardo dei piloti, il sangue che macchia i sedili. Il colore non è ornamento; è parte dell’informazione. Tecnicamente, è una lezione di tecniche di ripresa in condizioni di combattimento: controllo del flare, esposizione in controluce, affidabilità del sistema macchina in presenza di vibrazioni e umidità.

Un secondo vertice è “Reaching Out” (1966), che ritrae un marine che tende la mano verso un commilitone ferito. La composizione si erge su una diagonale emotiva: dalla mano protesa alla figura a terra, con lo sfondo di giungla che avvolge la scena in un verde cupo. Il colore, qui, è sintassi morale: il rosso compare come accento e guida lo sguardo; le uniformi, sporche e intrise, sono testimone fisico della fatica. Dal punto di vista operativo, la profondità di campo moderata separa i piani e impedisce che il caos vegetale diventi un pattern che distrae; il tempo di scatto arresta micro-movimenti, preservando l’espressione facciale nel suo istante più eloquente.

La terza sequenza cruciale riguarda la Route 9 e l’altopiano di Khe Sanh (1968), dove Burrows applica un approccio integrale al reportage: non solo combattimento, ma logistica, attese, evacuazioni, corpo del paesaggio come antagonista. Le fotografie alternano campi larghi — che restituiscono la geografia del conflitto — a dettagli che incarnano l’usura: stivali nel fango, cassette di munizioni, barrette energetiche. In questi passaggi, l’autore calibra la temperatura di colore per evitare dominanti innaturali e mantiene una curva tonale che non brucia i cieli lattiginosi, salvando informazioni preziose nelle alte luci.

Burrows, morto durante una missione aerea insieme ad altri colleghi, incarna l’ideale del reporter di guerra totalmente immerso. La sua innovazione non è solo estetica: è semiotica. Il colore, nel suo lessico, introduce gradazioni di verità che il bianco e nero talvolta uniforma: la ruggine non è un nero, è un arancione che racconta tempo e umidità; il verde non è un grigio, ma il clima stesso. Nella storia della fotografia, ciò sposta l’asse della fotografia di guerra dalla retorica del monocromo a un naturalismo cromatico disciplinato, dove l’etica del fotogiornalismo di guerra si misura anche nella scelta di non saturare, non abbellire, non teatralizzare. La sua lezione tecnica alimenta generazioni successive, stabilendo standard di robustezza operativa e di onestà cromatica che restano un riferimento.

Lynsey Addario (1973–): la resilienza sul campo e l’attenzione alle vite civili

Nata nel 1973, Lynsey Addario appartiene alla generazione di reporter di guerra che ha attraversato Afghanistan, Iraq, Libia, Siria, Ucraina e molte altre aree di crisi, con una pratica che unisce resilienza logistica, intelligenza situazionale e una costante attenzione alla vita civile dentro e attorno alla linea del fronte. Il suo approccio integra tecniche di ripresa in condizioni di combattimento ormai digitali — sensibilità elevate con gestione del rumore, autofocus affidabile in bassa luce, stabilizzazione — con scelte etiche che favoriscono la continuità relazionale coi soggetti. L’immagine, in Addario, non è un’irruzione; è il risultato di fiducia costruita in ambienti ostili, spesso con donne e bambini come fulcro semantico.

La sua cifra compositiva è elastica: alterna piani ampi che collocano il teatro operativo a ritratti stretti che restituiscono emozioni non gridate. L’uso del colore è temperato, con una curva tonale che preserva i mezzi toni e rende leggibili le condizioni materiali — polvere, neve, pioggia — come attori della scena. Addario privilegia un contrasto medio che evita estetizzazioni e che, sul terreno, significa tolleranza agli errori di esposizione in contesti ad alto dinamismo. La etica del fotogiornalismo di guerra per lei coincide con la capacità di non interrompere: la fotografia deve inserirsi nel flusso della vita ferita, non sottrarla a sé stessa.

Tra le opere iconiche, la serie sulle donne afghane sotto il regime talebano all’inizio degli anni 2000 è un punto d’inizio e di svolta. In uno scatto emblematico, una donna velata si affaccia alla soglia con un bambino in braccio: la luce incidente disegna profili netti e lascia l’interno nell’ombra, suggerendo la soglia come spazio politico. Tecnicamente, l’esposizione è tarata per conservare dettaglio nelle alte luci del velo e respiro nelle ombre, mentre una focale normale impedisce che l’architettura si deformi. Qui la fotografia di guerra coincide con la fotografia di controllo sociale, e la scelta di Addario di non violare l’intimità definisce una prossemica etica.

Un secondo momento iconico è l’evacuazione di civili sotto il fuoco d’artiglieria a Irpin, in Ucraina (2022), dove Addario documenta famiglie che attraversano un ponte danneggiato. La composizione è una trama di direzioni: le diagonali delle travi e le traiettorie dei corpi guidano lo sguardo attraverso il fotogramma, mentre la luce invernale costringe a ISO elevati e tempi abbastanza rapidi per evitare mosso su soggetti in fuga. Il colore è desaturato non per stile, ma per condizione atmosferica; l’immagine diventa così un documento operativo oltre che umano, mostrando tattiche di evacuazione e vulnerabilità simultanee. L’uso consapevole della profondità di campo mantiene leggibili i piani, così che il contesto infrastrutturale non soffochi i volti.

Il terzo nucleo riguarda la Libia (2011), dove Addario fu rapita e poi rilasciata: un evento biografico che riflette la realtà di un mestiere che incorpora rischio personale. Le immagini realizzate in quel contesto — combattenti improvvisati, ospedali da campo, famiglie in fuga — sono costruite con una dinamica ravvicinata che, pur nell’urgenza, conserva un ordine narrativo. La scelta di lavorare spesso senza flash in interni scarsi di luce, ricorrendo a stabilizzazione e appoggi di fortuna, afferma la necessità di invisibilità relativa: fotogiornalismo che non interrompe il fragile equilibrio di situazioni già al limite.

Addario rappresenta, nella storia della fotografia, un passaggio: la piena digitalizzazione del fronte, ma anche la consapevolezza che la tecnologia è solo uno strumento. Il baricentro resta umano: ospedali pediatrici, corridoi umanitari, scuole improvvisate. La sua opera conferma che la fotografia di guerra nel XXI secolo è soprattutto protezione del contesto: mostrare prima e dopo, non solo il durante; fare spazio alla vita che insiste nel mezzo del disastro. In questo senso, la sua adesione alla etica del fotogiornalismo di guerra è rigorosa: consenso informato quando possibile, attenzione a non reiterare lo sguardo che vulnerabilizza, Magnum Photos come ambiente (anche culturale) di confronto e standard professionale, e una pratica testuale — didascalie e sequenze — che guida lo spettatore nella complessità senza ridurla a slogan.

Tim Hetherington (1970–2011): il respiro lungo del fronte e l’ibridazione foto-video

Nato nel 1970 a Liverpool e ucciso nel 2011 a Misurata, Tim Hetherington appartiene alla generazione che ha forzato i confini tra fotografia di guerra e cinema del reale, portando in prima linea l’idea di respiro lungo: stare, condividere tempo, farsi assorbire dal ritmo del reparto militare o della comunità civile per generare immagini che non siano solo eventi ma durate. La sua pratica unisce ritratto ambientato, still in sequenza e breve video (anche con macchine fotografiche), anticipando un linguaggio ibrido oggi centrale nel fotogiornalismo digitale. Il segno distintivo è la vicinanza non solo spaziale, ma temporale: convivere per mesi con un plotone, riducendo l’intrusività tecnica e facendo del dispositivo di ripresa un corpo discreto in mezzo agli altri.

L’elemento peculiare, dal punto di vista tecnico, è l’uso consapevole del fuori fuoco e del colore come veicoli emotivi non retorici. Hetherington spesso impiega profondità di campo ridotte che isolano i volti e sfondano lo sfondo in un mare cromatico che allude alla giungla, alla polvere, alla notte, senza dettagliare tutto; in tal modo la fotografia diventa respiro e non semplice inventario. Le sue tecniche di ripresa in condizioni di combattimento privilegiano ISO medi-alti con gestione del rumore nella post-produzione, tempi rapidi per congelare i micro-gesti e una curva tonale che preserva i mezzi toni, rifiutando contrasti eccessivi che spettacolarizzerebbero la scena.

Tra le opere iconiche, il progetto “Sleeping Soldiers” (2008) è un cardine. Soldati americani dormono in una base avanzata in Afghanistan, ritratti a distanza ravvicinata, spesso con luce naturale tenue. I corpi seminudi, tatuaggi, oggetti personali creano una geografia dell’intimità che ridefinisce il reportage di guerra: non solo combattimento, ma sospensione; non solo adrenalina, ma esonero momentaneo dal pericolo. L’effetto è rivelatore: l’umanità del soldato non è un concetto; è pelle, respiro, abbandono. Sul piano operativo, il controllo della luce scarsa senza flash richiede stabilità e tempi al limite, con un margine di mosso che diventa parte della fisionomia dell’immagine.

Un secondo vertice è la serie “Korengal/Restrepo” (2007–2010), da cui nascerà anche il film “Restrepo” (co-diretto con Sebastian Junger). Qui l’ibridazione foto-video diventa metodo. Le immagini fotografiche non sono appunti; sono pagine compiute che dialogano con il flusso cinematografico. Un ritratto in controluce di un soldato coperto di polvere, con il sole che spigola sulle ciglia, concentra nel fermo immagine la fatica sensoriale del fronte. Le sequenze fotografiche non cercano di replicare la continuità del video; lavorano per sincope, registrando intervalli: preparazione, attesa, contatto, aftershock. La gestione del flare e dei controluce in quota, tra rocce e polvere, è parte della complessità tecnica affrontata con disciplina.

La terza opera-emblema riguarda la Libia (2011), dove Hetherington documenta l’insurrezione a Misurata. La fotografia che ritrae un combattente improvvisato, stremato, seduto su un marciapiede con il capo tra le mani, è un sigillo della sua poetica. L’inquadratura, leggermente ribassata, concede monumentalità alla stanchezza; il colore, smorzato dalla polvere, è temperato e non cerca effetti. Tecnicamente, l’autore lavora in condizioni di luce alta e contrasti duri, con esposizioni di compromesso che preservano dettaglio nelle ombre del volto. È un’immagine che fa del ritmo — non del culmine dell’azione — il suo contenuto. Poche settimane dopo, Hetherington verrà colpito mortalmente: biografia e metodo convergono nella consapevolezza che il reporter di guerra espone il proprio corpo nel campo, non per eroismo, ma perché la durata delle vite che racconta richiede presenza.

Il contributo alla storia della fotografia sta nell’aver mutato la metrica del fotogiornalismo: dal singolo “momento decisivo” alla parentesi lunga, dal colpo di scena alla coabitazione col soggetto. L’etica del fotogiornalismo di guerra assume così i tratti di una alleanza temporanea: non rubare immagini, ma starci dentro abbastanza a lungo da farle maturare. L’innovazione tecnica — camere leggere capaci di video di qualità, workflow ibridi, gestione del colore parsimoniosa — non è un semplice aggiornamento; è la condizione di possibilità di un linguaggio misto che oggi informa una parte rilevante della fotografia di guerra contemporanea.

Fonti

Curiosità Fotografiche

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