Nel corso del XIX secolo, l’evoluzione della tecnologia ottica e delle apparecchiature legate all’immagine ha dato vita a nuovi orizzonti per la fotografia. In particolare, il medico, fisico e chimico inglese William H. Wollaston si distinse per le sue invenzioni e scoperte che avrebbero contribuito in modo significativo all’affermazione delle apparecchiature ottiche nel mondo della fotografia.
William Hyde Wollaston, nato il 6 agosto 1766 a East Dereham, Inghilterra, si formò in medicina e chimica presso l’Università di Cambridge, ma presto il suo interesse si rivolse alla fisica ottica. Nel 1806 brevettò un apparecchio chiamato camera lucida, che sfruttava un prisma pentaedrico e un sistema di specchi per riflettere l’immagine esterna su una lastra di vetro posta davanti all’occhio dell’osservatore. Il principio ottico si basa sulla legge della riflessione e sulla capacità di un prisma di deviare i raggi con angoli tali da mantenere l’orientamento dell’immagine. Gli artisti disponevano sul piano di lavoro un foglio di carta e, guardando attraverso l’occhio sinistro il prisma, vedevano in trasparenza la scena reale sovrapposta al foglio; con la mano destra tracciavano i contorni proiettati. Questo sistema consentiva una fedeltà del disegno mai raggiunta prima con tecniche di silhouette o proiezioni dirette.
Il cuore della camera lucida di Wollaston era il prisma ottico a sezione pentagonale, progettato con angoli interni calibrati a 45° e 90° e realizzato in vetro flint ad alto indice di rifrazione. La precisione di taglio delle facce del prisma era fondamentale per evitare aberrazioni cromatiche e dispersione della luce. L’uso del vetro flint, piuttosto che il comune vetro crown, aumenta la densità ottica, riducendo la rifrazione differenziale dei diversi colori e migliorando la nitidezza. Il prisma veniva montato all’estremità di un’asta regolabile in altezza, permettendo di adattarsi a superfici piane di diversa inclinazione.
Il meccanismo di supporto prevedeva una gamba metallica che fissava il prisma sopra un tavolo da disegno; un sistema di viti micrometriche consentiva di regolare la distanza tra prisma e superficie, influendo sul fuoco apparente dell’immagine. Il fuoco dipendeva dalla distanza dell’occhio dall’asse ottico e dalla distanza tra prisma e carta. Rigide normative sperimentali dimostravano che un’errata regolazione di pochi millimetri comportava un’immagine sfocata o deformata, a causa dello sfasamento angolare dei raggi.
La camera lucida rappresentò un ponte tra l’arte manuale e le future tecnologie fotografiche, introducendo il concetto di proiezione ottica controllata. Senza il ricorso a camera oscura né a pitture, l’artista poteva ottenere un tracciato preciso dell’oggetto reale, preservandone proporzioni e prospettiva. Molti botanici e anatomisti dell’epoca adottarono la camera lucida per realizzare tavole illustrative di fiori, piante e organi umani, grazie alla capacità di mantenere dettagli minuti come venature fogliari o sottili contorni delle ossa.
L’evoluzione dell’ottica: dalla lente convex-concava alla reflex primitiva
Nel 1812 Wollaston apportò un miglioramento sostanziale alla camera lucida, sostituendo la lente convessa originaria con una lente menisco, cioè concavo-convessa. Il menisco fu calcolato per correggere le aberrazioni sferiche: la superficie concava compensava la curvatura della superficie convessa, riducendo l’astigmatismo e il coma. Le due superfici erano generate da sezioni di circonferenza con raggi differenti: la curvatura interna a raggio più corto concentrava i raggi lontani dall’asse ottico, mentre quella esterna a raggio maggiore diffondeva i raggi prossimi. Questo accoppiamento produceva un fuoco più uniforme su tutta l’immagine.
Il processo di realizzazione della lente richiese macchine a controllo numerico dell’epoca, equivalenti ottocenteschi, con mole rivestite di polvere di diamante per l’affilatura. Gli strumenti di profilatura dovevano garantire una tolleranza inferiore a 0,005 mm su tutto lo spessore del menisco per evitare aberrazioni cromatiche non simmetriche. Dopo la molatura, la lente veniva immersa in soluzioni di olio di lino e cera d’api per levigare microscopiche irregolarità, una tecnica ancestrale che riduceva il coefficiente di attrito ottico sulla superficie.
Con l’introduzione del menisco, l’immagine proiettata divenne più nitida e luminosa, permettendo riduzioni dei tempi di osservazione e facilitando il disegno rapido. Questa lente fu predecessore diretta del primo specchio reflex, poiché spostava il piano di fuoco in modo simile a uno specchio convesso utilizzato nelle macchine fotografiche rudimentali. Qualche decennio più tardi, i costruttori di macchine fotografiche avrebbero sostituito il prisma pentaedrico con specchi inclinati a 45°, creando la reflex single-lens, in cui il soggetto veniva visibile direttamente e poi scattato su una lastra fotosensibile.
Il contributo di Wollaston all’ottica non si limitò alla camera lucida. Studi teorici di ottica geometrica, pubblicati nel 1813, descrissero formule per calcolare la lunghezza focale di menischi e lenti biconvesse, basate sulla legge di Descartes–Snell e sulla relazione 1/f = (n–1)(1/R₁ – 1/R₂), dove n è l’indice di rifrazione e R₁, R₂ i raggi delle superfici. Questi calcoli, sebbene formulati in unità imperiali, divennero standard di riferimento per i laboratori ottici di Londra e Parigi e furono citati da Joseph Petzval nella progettazione dell’obiettivo per camera a obiettivo rapido del 1840.
La scoperta del tiosolfato di sodio: il fissaggio delle immagini
Il 1819 segnò una svolta decisiva per la fotografia quando Sir John Frederick William Herschel, nato nel 1792, rese noto il potere del tiosolfato di sodio (Na₂S₂O₃) come fissatore. Herschel osservò che lasciando un’immagine su carta imbevuta di nitrato d’argento semplicemente asciugata, la successiva esposizione alla luce faceva annerire tutta la superficie. In sperimenti controllati applicò una soluzione acquosa di tiosolfato, notando che i solidi argentei non esposti venivano dissolti, mentre i sali ridotti in argento metallico rimanevano al loro posto, costituendo l’immagine.
La reazione chimica può essere espressa sinteticamente così: AgBr + 2 S₂O₃²⁻ → [Ag(S₂O₃)₂]³⁻ + Br⁻
In condizioni reali, Herschel utilizzava soluzioni al 10–15 % di tiosolfato, in acqua deionizzata, a temperatura di laboratorio (18–20 °C). Immergeva le carte in bagno di fissaggio per 5–10 minuti, agitandole a intervalli regolari per evitare depositi irregolari di solfuro. Dopo il fissaggio, le carte venivano lavate abbondantemente per rimuovere eventuali residui di sale solubile, in modo da prevenire future cristallizzazioni che avrebbero potuto danneggiare la superficie fotosensibile.
La scoperta di Herschel pose fine alle immagini efimere e inaugurò la fotografia duratura. Senza il tiosolfato, le stampe sarebbero rimaste soggette a bruciature progressive per l’azione della luce. Il fissaggio consentì non soltanto la conservazione dei dettagli, ma anche l’esportazione delle immagini, rendendo possibile la riproduzione e la divulgazione di scene e ritratti. Fu questo passo che trasformò l’invenzione da curiosità scientifica a fenomeno di massa.
Herschel condivise apertamente il metodo, evitando brevetti, e lo comunicò a William Henry Fox Talbot, che lo incorporò nel suo procedimento del calotipo. Daguerre, informato, introdusse il fissaggio con tiosolfato nel dagherrotipo, sebbene la stampa a mercurio rimanesse ancora parte del processo. Il protocollo fissatore rimase invariato per decenni, diventando la base di tutte le fotografie su carta e su piastra metallica fino all’introduzione delle emulsioni gelatinose nel 1880.
Le scoperte di Wollaston e Herschel rappresentano due facce della stessa medaglia: l’una orientata alla proiezione ottica controllata, l’altra alla stabilizzazione chimica delle immagini. La lente menisco di Wollaston anticipò di trent’anni l’idea di un sistema reflex in grado di mettere a fuoco direttamente attraverso l’obiettivo, mentre il fissaggio al tiosolfato di Herschel aprì la strada a sviluppi emotivi e documentaristici di massa. La combinazione di un’ottica sempre più raffinata e di procedimenti chimici sempre più affidabili fece sì che le prime macchine fotografiche tascabili potessero nascere già negli anni Cinquanta dell’Ottocento.
Le prime fotocamere portatili sfruttarono menischi e doppie lenti biconvesse, eredi diretti di Wollaston, per ridurre il volume delle custodie. Allo stesso tempo, le emulsioni salate e iodurate furono sostituite da emulsioni gelatinose, basate sempre sul principio del fissaggio con tiosolfato, che permisero esposizioni di pochi secondi anziché minuti. Questo passaggio segnò il vero inizio della fotografia moderna: telemetrie di luce, sistemi di diaframmi per regolare il flusso luminoso e ottiche ad apertura variabile, calibrate con indicazioni di tempo sul barilotto, permisero riprese in condizioni di luce sempre più difficili.
Dal rigido prisma lucido di Wollaston alle sofisticate ottiche acromatiche di oggi il percorso è lungo ma coerente: ogni novità chimico‑fisica ha richiesto adeguamenti meccanici e viceversa. Gli studi di Herschel sulla sensibilità alle diverse lunghezze d’onda gettarono le basi per la fotografia infrarossa, mentre le leggi di Snell e le formule meniscali di Wollaston vennero integrate nei calcoli dei moderni obiettivi anamorfi e zoom.
L’anno 1819, dunque, segna il momento in cui il puzzle degli sforzi scientifici, delle intuizioni ottiche e delle sperimentazioni chimiche si unì per creare un nuovo modo di vedere e catturare il mondo. La scoperta di Herschel, culminata nel processo di fissaggio dell’immagine attraverso il trisolfato di sodio, segna il momento in cui la fotografia ha veramente fatto il suo ingresso nel mondo, aprendo la strada a un’era di esplorazione visiva senza precedenti. È nata la fotografia.
Articolo aggiornato Luglio 2025

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