Durante il periodo in cui Louis Daguerre stava creando il dagherrotipo (siamo più o meno nel 1833), lo scienziato e matematico britannico Henry Fox Talbot stava lavorando alla definizione del suo metodo fotografico “carta salata”: egli capì come realizzare un’immagine permanente di ciò che si poteva vedere nella camera oscura: nel giro di due anni era riuscito ad ottenere immagini per azione della luce su carta trattata con lavaggi alternati di cloruro di sodio e nitrato d’argento. Le sue prime immagini erano di oggetti piatti, realizzati ponendo foglie, pizzi o incisioni traslucide contro la carta sensibilizzata ed esponendo entrambi alla luce del sole per produrre un’immagine in monocromia tonale e spazialmente invertita sulla carta.

Sempre nel 1835, Talbot fece un passo avanti su questa scoperta quando produsse un’immagine negativa di un pollice quadrato della sua casa di famiglia, Lacock Abbey, realizzata inserendo carta sensibilizzata in una piccolissima macchina fotografica con una breve lunghezza focale (la distanza tra l’obiettivo e la pellicola) per circa dieci minuti sotto il sole. Per stabilizzare queste prime immagini, Talbot impiegò o ioduro di potassio (sale da cucina), ma all’inizio del 1839 passò all’iposolfito di soda su consiglio di Herschel. Talbot chiamò queste immagini “disegni fotogenici”, e propose di correggere la loro inversione tonale e spaziale mettendo un altro foglio di carta sensibilizzata all’argento contro l’immagine negativa della carta (cerata per renderla traslucida) ed esponendole entrambe alla luce (non sappiamo se abbia effettivamente realizzato stampe così “positive”).
A parte il concetto profondamente ingegnoso di un negativo da cui si potevano ricavare più positivi, l’invenzione più significativa di Talbot è stata lo sviluppo latente, a cui è arrivato nel 1840. Talbot ha sensibilizzato la carta tamponandola con una combinazione di nitrato d’argento e soluzioni di acido gallico che ha chiamato gallo-nitrato d’argento, l’ha esposta nella macchina fotografica, ha rimosso la carta bianca dopo un certo tempo, e poi l’ha immersa nelle stesse soluzioni chimiche fino a quando l’immagine non è gradualmente apparsa. Avendo ridotto il tempo di esposizione per lo sviluppo chimico a soli 30 secondi in una giornata luminosa, Talbot ottenne il suo primo brevetto nel febbraio del 1841, per un processo negativo/positivo che chiamò calotipo.
Si tratta, in parole povere, di una tecnica basata sull’utilizzo di un negativo di carta: in questo modo, partendo da una sola matrice era possibile creare moltissime copie. Nacque la fotografia analogica attuale.
La calotipia di Talbot, ad essere precisi, nacque come idea già nel 1833, quando l’inglese era in vacanza in Italia, sul lago di Como, e fu folgorato da un’idea mentre realizzava disegni con l’ausilio di una camera obscura. Come successivamente raccontò: “Riflettevo sull’immutabile bellezza dei quadri che la Natura offre e che le lenti della camera oscura riproducono sulla carta. Quadri favolosi che però si dissolvono in un baleno. Fu facendo questi pensieri che mi venne in mente come sarebbe stato bello fare in modo che le immagini naturali si imprimessero da sole sulla carta rimanendovi fissate per sempre “.
Gli ci vollero 6 anni per trasformare l’idea in qualcosa di tangibile e nel 1839 (lo stesso anno del dagherrotipo) rese noti i suoi studi ed il suo metodo, nominato Talbotype, successivamente migliorato e chiamato, appunto nel 1841, calotipia.
Il sistema non era tanto dissimile da quello di Daguerre: il foglio di carta per il positivo (normalissima carta da scrivere) e quello per il negativo erano imbevuti di cloruro di sodio (il classico sale da cucina) e quindi sensibilizzato con lo ioduro d’argento (al posto del cloruro d’argento, meno facile da maneggiare), sostituito poi in un secondo momento dal trisolfato di iodio. L’effetto finale era nettamente migliore per il tipo di supporto impiegato (carta invece di lastra ma anche per i tempi di posa: i calotipi di Talbot potevano essere esposti in uno o due minuti. È importante notare che, a differenza del dagherrotipo, il calotipo poteva essere riprodotto rapidamente attraverso la stampa a contatto. Questo ha sì reso la riproduzione più facile e rapida rispetto ad altri metodi, ma, a causa della carta usata in produzione, il calotipo non è mai stato così nitido o chiaro come il dagherrotipo.

Il grandissimo vantaggio della calotipia, come si può quindi capire, è che era basato sul dualismo negativo-positivo e non sul negativo trasformato in positivo. Ciò significa che, partendo da un negativo, era possibile ricavare più positivi.
In pratica, Talbot fotografava la scena usando la carta che fungeva da negativo. Successivamente fotografava il negativo al fine di invertire l’immagine, rendendola di conseguenza un positivo. Nel fare ciò, il negativo non veniva più toccato ma poteva essere usato all’infinito come fonte delle fotografie.
Inoltre, proprio per la scissione fisica tra negativo e positivo, era anche possibile ingrandire il negativo e quindi ottenere delle fotografie “zoomate”. Il problema delle foto di Talbot rispetto a quelle di Daguerre, però, era la sensazione di colore: il dagherrotipo permetteva di fotografare su “lastre”, mentre la calotipia su carta. Nel secondo caso il colore era dato principalmente dal tipo di carta impiegato; quindi, molto più piatto di quanto non si potesse ottenere con la dagherrotipia e con le sue lastre dorate. Di contro, però, le fotografie realizzate con la tecnica della calotipia erano colorabili a mano (era carta), una tecnica usata spessissimo dai pittori che passarono alla fotografia abbandonando “parzialmente” i pennelli.
La storia ricorda Talbot come un brillante scienziato che ha giocato un ruolo monumentale nella storia della fotografia. Lo ricorda anche come un chiacchierone, noto per i suoi brevetti sul calotipo (limitati al solo scopo scientifico!) e per tutte le cause afferenti. Senza dubbio, Talbot ha giocato un ruolo importante nella rivoluzione tecnologica che avrebbe portato alla fotografia moderna.