Joel Meyerowitz, nato il 6 marzo 1938 a New York, è uno dei protagonisti indiscussi della fotografia di strada americana e uno dei pionieri dell’uso del colore come linguaggio artistico negli anni Sessanta e Settanta. Cresciuto nel Bronx, in una città che nel dopoguerra stava conoscendo una trasformazione urbanistica e sociale profonda, Meyerowitz ebbe un’infanzia immersa nella cultura popolare americana, tra il jazz, il baseball e le atmosfere di quartiere. Prima di diventare fotografo, studiò arte, pittura e illustrazione presso l’Ohio State University, laureandosi nel 1959. Questa formazione pittorica ebbe un ruolo cruciale nella definizione del suo linguaggio visivo: il colore, la composizione e l’attenzione alla luce divennero i cardini della sua estetica fotografica.
Dopo la laurea, Meyerowitz tornò a New York e iniziò a lavorare come direttore artistico in un’agenzia pubblicitaria, ma il destino lo portò verso la fotografia nel 1962, quando assistette a una sessione di scatti del grande Robert Frank. Colpito dalla libertà con cui Frank affrontava la realtà urbana, decise di intraprendere a sua volta la carriera fotografica. Iniziò acquistando una fotocamera 35 mm e dedicandosi con costanza alle strade di Manhattan, catturando l’energia vitale e caotica della città.
Sin dall’inizio, Meyerowitz fu attratto dalla dimensione dinamica e imprevedibile della strada. A differenza di altri fotografi coevi che lavoravano in bianco e nero, egli adottò quasi subito il colore, un linguaggio ancora poco legittimato nel mondo dell’arte fotografica. Questo lo collocò in una posizione innovativa e controcorrente. Parallelamente, realizzò lavori anche in bianco e nero, esplorando così i due registri e confrontandone le possibilità espressive. La sua scelta non fu soltanto estetica, ma anche tecnica: il colore permetteva di restituire con maggiore fedeltà l’atmosfera urbana, fatta di insegne, luci al neon, vetrine, abiti variopinti. New York, agli occhi di Meyerowitz, non poteva essere ridotta a toni di grigio.
Durante i primi anni Sessanta, Meyerowitz instaurò rapporti di scambio e confronto con altri protagonisti della street photography come Garry Winogrand e Tony Ray-Jones. Questo dialogo con i colleghi lo aiutò a sviluppare uno stile personale, caratterizzato da un senso di composizione immediata e da una capacità unica di cogliere istanti altrimenti invisibili. La rapida capacità di reazione e l’attenzione alle interazioni sociali divennero elementi distintivi della sua pratica.
La sua vita privata si intrecciò con la sua ricerca artistica: sposatosi con Vivian Bower, ebbe due figli, ma soprattutto intraprese una carriera che lo avrebbe portato a viaggiare in Europa, tra Spagna, Francia e Italia, luoghi che gli offrirono nuove prospettive sulla luce e sul paesaggio. Tuttavia, il cuore pulsante della sua opera restò sempre New York, con la sua vitalità inesausta.
Tecniche fotografiche e linguaggio visivo
Il linguaggio fotografico di Joel Meyerowitz è definito da un insieme di scelte tecniche e da un atteggiamento percettivo che riflette la sua formazione artistica. All’inizio della carriera, egli utilizzò la fotocamera Leica 35 mm, tipica dei fotografi di strada, che gli consentiva rapidità di scatto, discrezione e mobilità. La Leica, con la sua messa a fuoco manuale e l’otturatore silenzioso, era lo strumento ideale per cogliere momenti spontanei, spesso a distanza ravvicinata. Meyerowitz sviluppò un approccio quasi coreografico: si muoveva tra la folla cercando punti di vista inattesi, talvolta scattando senza portare l’occhio al mirino per non farsi notare.
Il suo rapporto con la luce naturale è fondamentale. Meyerowitz è un osservatore attento delle variazioni atmosferiche e ha spesso dichiarato che la luce stessa è il vero soggetto delle sue immagini. La fotografia a colori lo spinse a studiare come i diversi momenti della giornata, le stagioni e le condizioni meteorologiche influenzassero la resa cromatica. Questa sensibilità trova massima espressione nei suoi lavori paesaggistici, come la serie “Cape Cod”, dove la luce dell’oceano Atlantico diventa elemento compositivo principale.
Sul piano tecnico, Meyerowitz non si limitò alla Leica. Negli anni Settanta, affascinato dalla possibilità di ottenere immagini di grande dettaglio e profondità, iniziò a lavorare con la fotocamera di grande formato 8×10 pollici. Questo strumento, ingombrante e lento, era l’opposto della portabilità della Leica, ma gli consentiva una qualità e una nitidezza straordinarie. L’uso del grande formato trasformò radicalmente il suo linguaggio: dalle scene dinamiche e caotiche della strada passò a composizioni più meditate, spesso dedicate al paesaggio e all’architettura.
Un tratto distintivo del suo stile è l’uso del colore come struttura narrativa. Mentre molti fotografi dell’epoca trattavano il colore come un’aggiunta decorativa, Meyerowitz lo considerava un elemento strutturale capace di definire i rapporti spaziali e psicologici all’interno dell’immagine. Il rosso di un vestito, il giallo di un taxi, il blu del cielo urbano diventavano punti di tensione visiva, orchestrati con rigore quasi musicale. Qui riaffiora la sua formazione pittorica: il colore non è mai casuale, ma sempre parte di una costruzione compositiva.
Dal punto di vista della stampa, Meyerowitz lavorò a stretto contatto con laboratori specializzati nella stampa cromogenica (C-print), affinando il controllo sulla resa tonale e cromatica. La fedeltà dei colori era per lui essenziale, ma non in senso documentario: l’interesse era piuttosto nel trasmettere l’esperienza sensoriale della realtà urbana. Con il grande formato, inoltre, poté sperimentare anche la stampa a contatto, ottenendo immagini di enorme precisione e presenza fisica.
Il suo linguaggio visivo si fonda infine sulla capacità di unire l’osservazione documentaria a una dimensione poetica. La strada, per Meyerowitz, non è solo un luogo di registrazione sociologica, ma un teatro in cui i gesti, le espressioni, le luci e i colori si trasformano in coreografie spontanee. Questo equilibrio tra realismo e astrazione è ciò che ha reso la sua opera così influente.
New York, viaggi e contesto internazionale
La carriera di Joel Meyerowitz si intreccia strettamente con la città di New York, che rimase per decenni il suo laboratorio privilegiato. Negli anni Sessanta e Settanta percorreva quotidianamente le strade di Manhattan, in particolare Fifth Avenue, Times Square e i quartieri popolari, alla ricerca di frammenti di vita. L’energia della metropoli americana trovò nella sua fotografia una traduzione visiva che univa spontaneità e composizione rigorosa. Ogni scatto diventava un microcosmo di relazioni sociali, un documento della trasformazione urbana e culturale di quegli anni.
Parallelamente, Meyerowitz viaggiò a lungo in Europa. In Spagna e in Francia trovò nuove ispirazioni, sperimentando un rapporto diverso con la luce mediterranea. In Italia, in particolare, lavorò su serie dedicate alle piazze e alle strade, restituendo l’interazione tra architettura e vita quotidiana. Questi viaggi furono anche occasioni di confronto con fotografi europei, consolidando la sua posizione internazionale.
Negli anni Ottanta e Novanta, la sua ricerca si ampliò al paesaggio americano. Stabilitosi per lunghi periodi a Cape Cod, Massachusetts, realizzò una delle serie più poetiche della sua carriera, dedicata all’oceano e alla costa. Qui la sua fotografia cambiò radicalmente registro: la frenesia urbana lasciò spazio alla contemplazione, alla lentezza e alla meditazione sulla luce. L’uso della fotocamera di grande formato gli consentì di restituire la complessità cromatica del cielo e dell’acqua, raggiungendo una qualità pittorica che avvicinava la fotografia alla tradizione della pittura paesaggistica americana dell’Ottocento.
Un altro momento decisivo della sua carriera fu l’esperienza di Ground Zero dopo l’attentato dell’11 settembre 2001. Meyerowitz fu l’unico fotografo ammesso ufficialmente a documentare la demolizione e la ricostruzione del sito delle Torri Gemelle. Per oltre nove mesi realizzò migliaia di immagini, raccolte poi nel volume “Aftermath”, che costituisce oggi un documento storico di straordinaria importanza. Tecnicamente, si trattò di un lavoro complesso, realizzato con macchine di medio formato e con una gestione meticolosa della luce artificiale e naturale in condizioni spesso estreme.
L’attenzione internazionale verso la sua opera è stata costante. Le sue fotografie sono state esposte nei maggiori musei del mondo, dal MoMA di New York al Centre Pompidou di Parigi, fino alla Tate Modern di Londra. Le retrospettive hanno messo in evidenza non solo la sua capacità di rinnovare la fotografia di strada, ma anche il suo contributo alla legittimazione del colore come linguaggio artistico autonomo.
Le opere principali e l’influenza
Il corpus delle opere principali di Joel Meyerowitz comprende sia lavori di street photography sia progetti paesaggistici e documentari. Tra le prime serie importanti vi è “Early Color”, che raccoglie le fotografie realizzate negli anni Sessanta a New York. Queste immagini, caratterizzate da colori saturi e da un’attenzione quasi pittorica alla composizione, hanno influenzato intere generazioni di fotografi, aprendo la strada a una nuova legittimità del colore nell’arte fotografica.
La serie “Cape Cod”, iniziata negli anni Settanta e proseguita per decenni, rappresenta invece il suo lato più contemplativo. Qui Meyerowitz utilizza il grande formato per esplorare il rapporto tra luce e paesaggio, ottenendo immagini di straordinaria intensità cromatica. Il mare, il cielo e le dune diventano elementi di un linguaggio visivo che unisce rigore formale e poesia.
L’opera “Aftermath”, dedicata al World Trade Center, costituisce un momento cruciale della sua carriera. Non solo per l’importanza storica del documento, ma anche per l’approccio etico: Meyerowitz intese la fotografia come strumento di memoria collettiva, capace di restituire dignità e testimonianza in un momento di tragedia nazionale. Tecnicamente, si trattò di un lavoro che univa la rapidità del reportage alla lentezza contemplativa delle inquadrature studiate.
Un altro aspetto fondamentale della sua produzione è l’attività editoriale. I suoi libri, da “Bystander: A History of Street Photography” (scritto con Colin Westerbeck) a “Joel Meyerowitz: Retrospective”, hanno contribuito a diffondere la sua visione della fotografia e a consolidare il suo ruolo di maestro. L’attività di insegnante e di conferenziere ha inoltre avuto un’influenza significativa sulle nuove generazioni, tra cui fotografi come Alec Soth e Martin Parr, che hanno riconosciuto il debito nei confronti della sua sensibilità cromatica.
La sua influenza si estende anche oltre il campo strettamente fotografico: il suo modo di trattare il colore e la luce ha avuto risonanze nella pittura contemporanea e nel cinema, contribuendo a ridefinire la percezione visiva della città e del paesaggio.
Mi chiamo Marco Americi, ho circa 45 anni e da sempre coltivo una profonda passione per la fotografia, intesa non solo come mezzo espressivo ma anche come testimonianza storica e culturale. Nel corso degli anni ho studiato e collezionato fotocamere, riviste, stampe e documenti, sviluppando un forte interesse per tutto ciò che riguarda l’evoluzione tecnica e stilistica della fotografia. Amo scavare nel passato per riportare alla luce autori, correnti e apparecchiature spesso dimenticate, convinto che ogni dettaglio, anche il più piccolo, contribuisca a comporre il grande mosaico della storia dell’immagine. Su storiadellafotografia.com condivido ricerche, approfondimenti e riflessioni, con l’obiettivo di trasmettere il valore documentale e umano della fotografia a un pubblico curioso e appassionato, come me.


