La Olbia fu una casa produttrice di apparecchi fotografici attiva in Italia nella prima metà del XX secolo, con sede iniziale a Milano e successivo trasferimento produttivo a Torino. Sebbene non goda della fama di aziende più longeve o industrializzate come Ferrania, Durst o Rectaflex, la Olbia rappresenta uno dei casi più interessanti di manifattura fotografica italiana a carattere semi-artigianale. L’azienda venne fondata intorno al 1935 da Giovanni Olbia, ingegnere meccanico con esperienze precedenti nell’ambito delle ottiche industriali e degli strumenti di misura di precisione. La scelta del nome, che coincide con quello della città sarda, era in realtà legata al cognome del fondatore e non all’isola, anche se non mancarono malintesi nel marketing estero.
La fondazione della Olbia si colloca in un periodo storico in cui il mercato fotografico europeo stava vivendo una profonda trasformazione. In Germania dominavano Zeiss Ikon, Leica e Voigtländer, mentre la Francia assisteva al lento declino delle sue glorie ottocentesche. In Italia, al contrario, cominciava a formarsi un vero e proprio tessuto industriale della fotografia, con la comparsa di piccole imprese spesso fondate da tecnici fuoriusciti dall’industria bellica o dai laboratori ottici universitari. La Olbia rientrava in questo tipo di esperienze, con una produzione limitata nei numeri ma tecnicamente raffinata e orientata soprattutto alla fotografia professionale e scientifica.
I primi modelli a essere commercializzati furono fotocamere pieghevoli di formato medio, ispirate nei principi meccanici alle tedesche Certo e Agfa, ma dotate di alcune soluzioni originali, come l’uso di ottiche intercambiabili montate su attacchi a baionetta proprietari e la possibilità di regolare la corsa del soffietto tramite un sistema a cremagliera inclinata, più raro nelle folding italiane.
Le fotocamere prodotte dalla Olbia erano dispositivi robusti, meccanicamente sofisticati e fortemente improntati a una concezione modulare e riparabile, con molte componenti che potevano essere facilmente smontate, ispezionate e sostituite. Uno degli aspetti tecnici più distintivi era l’impiego di scocche in alluminio anodizzato invece del tradizionale corpo in bachelite o lamiera d’acciaio, come usavano molte concorrenti dell’epoca. L’alluminio conferiva una maggiore leggerezza, ma soprattutto una resistenza superiore alla deformazione, qualità particolarmente apprezzata in ambito tecnico-scientifico.
Le fotocamere a soffietto di formato 6×9 e 9×12 costituivano la parte principale del catalogo negli anni Trenta e Quaranta. L’apertura del soffietto avveniva mediante cerniere a scatto e leve sincronizzate, un meccanismo mutuato dall’ingegneria militare, e le lenti erano montate su un sistema a piastra frontale basculante che consentiva lievi regolazioni dell’inclinazione, utili nella fotografia architettonica e documentaristica.
Dal punto di vista ottico, la Olbia non produsse mai lenti in proprio, ma si affidò inizialmente a fornitori italiani come Filotecnica Salmoiraghi, per poi passare, durante il periodo bellico, a ottiche tedesche prebelliche (Schneider-Kreuznach, Rodenstock) montate su licenza. La maggior parte dei modelli era equipaggiata con obiettivi a tre o quattro lenti, generalmente Tessar 105mm f/4.5 o equivalenti, capaci di garantire nitidezza centrale e buone prestazioni a tutta apertura.
Un altro elemento di rilievo nei modelli Olbia era il mirino sportivo pieghevole, installato come accessorio standard e progettato per essere utilizzato anche con guanti da lavoro o in condizioni di scarsa visibilità. Il sistema di otturazione, in particolare nei modelli “Olbia Professionale”, era di tipo centrale a lamelle sincronizzato per il flash, con tempi che spaziavano da 1 secondo a 1/250, e con attivazione sia manuale sia tramite cavo flessibile.
Nei primi anni Cinquanta, la Olbia tentò un’evoluzione verso il formato 35mm, lanciando un prototipo chiamato “Olbia Automat”, progettato per competere con le piccole telemetro tedesche. Questo modello non superò mai la fase prototipale, ma diversi esemplari circolano tra i collezionisti. L’Automat presentava un corpo rigido in magnesio pressofuso, caricamento a leva rapida, e mirino integrato con telemetro sovrapposto. Le caratteristiche ergonomiche erano all’avanguardia per l’industria italiana del tempo.
Il posizionamento commerciale della Olbia fu sempre a metà strada tra il mondo professionale e quello amatoriale avanzato. Non avendo la capacità produttiva per sostenere grandi numeri, l’azienda si affidò principalmente alla rete dei rivenditori fotografici indipendenti del nord Italia, in particolare a Milano, Torino, Genova, Trieste e Bologna. Non mancarono comunque tentativi di esportazione, soprattutto verso la Svizzera e la Jugoslavia, due mercati storicamente recettivi per i prodotti tecnici italiani.
A partire dal 1940, con l’entrata dell’Italia nella Seconda Guerra Mondiale, la produzione venne in parte riconvertita a scopi militari. È documentata la realizzazione di almeno due modelli destinati al Corpo Fotografico dell’Esercito, dotati di innesti standardizzati per obiettivi Zeiss e adattatori per il montaggio su treppiedi da ricognizione. Queste fotocamere militari portavano la sigla “Olbia-M” e si distinguevano per l’estetica spartana, la finitura opaca antiriflesso e la presenza di guide millimetrate per misure fotogrammetriche.
Nel dopoguerra, la Olbia tentò un rilancio con una nuova linea di fotocamere più leggere e moderne, ma il contesto industriale era ormai mutato. La concorrenza da parte delle aziende giapponesi, l’impossibilità di accedere a linee di credito adeguate e una struttura produttiva ancora semi-artigianale resero difficile la sopravvivenza del marchio.
Il catalogo del 1954 fu l’ultimo documento ufficiale prodotto dalla ditta, che cessò l’attività nel 1955. Tuttavia, le fotocamere Olbia continuarono a circolare nel mercato dell’usato fino alla metà degli anni Sessanta, soprattutto nelle botteghe fotografiche del Nord Italia, dove erano ancora apprezzate per la loro robustezza e facilità di riparazione.
A partire dagli anni Ottanta, le fotocamere Olbia hanno cominciato a suscitare l’interesse degli appassionati di storia della fotografia italiana e dei collezionisti di apparecchiature rare. La produzione limitata, la qualità meccanica e la scarsità di documentazione ufficiale ne hanno fatto oggetti particolarmente ambiti per chi studia la manifattura fotografica italiana indipendente tra le due guerre.
I modelli più ricercati sono le Olbia 6×9, in particolare la serie “Professionale” con obiettivo intercambiabile e mirino sportivo. Esistono varianti rare con innesti per ottiche Leitz, probabilmente realizzate su specifica commissione. Queste versioni, tutte a produzione limitata, sono oggi valutate tra i 1000 e i 2000 euro nel mercato collezionistico, in buono stato conservativo. Le versioni militari “Olbia-M” sono ancor più rare: ne sono noti meno di 15 esemplari in tutto il mondo, alcuni dei quali conservati presso il Museo della Scienza e della Tecnologia “Leonardo da Vinci” di Milano e presso il Museo Storico dell’Esercito a Roma.
Un elemento che rende le Olbia interessanti per i restauratori è la modularità interna dei meccanismi: molte parti sono state realizzate in modo intercambiabile, permettendo ancora oggi interventi di riparazione relativamente agevoli. Alcuni laboratori di restauro italiani, specializzati in strumenti d’epoca, continuano a lavorare su questi modelli grazie alla disponibilità di pezzi originali recuperati da stock invenduti degli anni Cinquanta.
La presenza sul mercato della Olbia non fu mai particolarmente ampia, e questo ha paradossalmente aumentato il valore storico e tecnico delle sue fotocamere. In un panorama dominato dalle grandi aziende tedesche o giapponesi, la Olbia rappresenta un esempio raro di industria di precisione italiana nata dal basso, senza capitali esterni e con una filosofia progettuale interamente legata alla tradizione meccanica locale.

Sono Manuela, autrice e amministratrice del sito web www.storiadellafotografia.com. La mia passione per la fotografia è nata molti anni fa, e da allora ho dedicato la mia vita professionale a esplorare e condividere la sua storia affascinante.
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