Il 27 gennaio 1855 vide la nascita di Alfred Watkins, imprenditore e appassionato di fotografia, la cui intuizione avrebbe segnato un’epoca nella misurazione dell’illuminazione. Nel 1890 ottenne il brevetto per il suo innovativo meter actinometrico, strumento capace di quantificare la luce incidente esponendo brevemente una striscia di carta fotosensibile e misurando il tempo necessario perché essa si scurisse fino a eguagliare la tonalità di un riferimento fisso. L’idea di Watkins si fondava sull’uso di un attuatore meccanico che, una volta scattato, lasciava entrare un fascio di luce attraverso una fessura calibrata, controllando con precisione la superficie esposta della carta.
Inizialmente la costruzione fu affidata alla R. Field & Co. di Birmingham, che realizzava il primo Standard Meter. Questa versione, di dimensioni rilevanti e concepita per uso professionale, montava una scala circolare con incise le principali aperture (f-stop) e le velocità dell’otturatore corrispondenti, tarate per diverse velocità di lastra. La serie di indicatori concentrici consentiva di impostare manualmente la velocità nominale del materiale fotografico (espresso in “Watkins”, equivalente a un indice di sensibilità) e, tramite l’attivazione del meccanismo, leggere direttamente sul quadrante il tempo di posa necessario. L’aspetto rivoluzionario risiedeva nella conversione diretta di tre parametri – apertura, sensibilità e oscuramento della carta – in un’unica operazione meccanica, senza calcoli esterni.
Verso il 1900 la Watkins Meter Company prese direttamente in carico la produzione, trasferendo gli stabilimenti a Hereford, Inghilterra. Il passaggio assicurò un maggiore controllo delle fasi produttive e permise di sperimentare miglioramenti sui materiali. Le masse metalliche furono presto sostituite da leghe più leggere, mentre la carta sensibile fu ottimizzata per ridurre il suo spessore e migliorare la risposta alle diverse lunghezze d’onda. I tecnici dell’azienda introdussero un sistema di levigatura a mano delle superfici interne alla fessura, minimizzando aberrrazioni ottiche che avrebbero potuto influenzare la quantità di luce incidente sul campione di carta. Nel triennio 1900-1903 l’organico raggiunse le 50 unità, tra ingegneri meccanici e specialisti di chimica fotografica, unendo competenze che avrebbero reso possibile l’evoluzione verso formati più compatti e maneggevoli.
L’evoluzione verso il Bee Meter: compattezza e meccanismi a orologeria
Pochi anni dopo il consolidamento del Standard Meter, Watkins presentò il Bee Meter, versione tascabile introdotta intorno al 1902. Si trattava di un actinometro dalla cassa circolare simile a un orologio a cipolla, con un diametro di circa 60 mm e uno spessore di 9 mm, facilmente trasportabile e adatto all’uso sul campo dai fotografi itineranti. La carta fotosensibile era ora disposta in un dischetto rotante integrato nel corpo in metallo nichelato, e l’utente poteva ruotare un quadrante esterno per allineare la velocità della lastra con il valore indicato, prima di azionare il grilletto di scatto.
Anche il Bee Meter sfruttava tre parametri fondamentali: il tempo di esposizione, il diaframma, e il valore Watkins del materiale. Il movimento a lamelle interne garantiva un’apertura costante, mentre la rotazione del disco con la carta sensibile era sincronizzata da una piccola molla a spirale. Grazie a questa architettura, il Bee Meter offriva una precisione di misura entro ±½ passo di diaframma, un risultato eccezionale per l’epoca. Il quadrante era inciso con scatti calibrati da 1/130 s fino a 130 s, e poteva essere corredato di una lancetta indicatrice con reticolo antiriflesso per facilitare la lettura.
Nel corso degli anni ‘10 la Watkins Meter Company affinò il design, riducendo gli ingombri e introducendo versioni “de luxe” come la Queen Bee, caratterizzata da una cassa in metallo argentato e da cifrature incise a mano sui quadranti in ivorina. La Queen Bee si distingueva inoltre per l’inserimento di tinte di confronto intercambiabili, che permettevano di calibrare la lettura in condizioni di luce molto bassa o per materiali a colori. Tra i modelli più ricercati, quelli “Studio” e “Indoor” offrivano scale ridotte per letture su soggetti al chiuso, mentre il Focal Plane Bee implementava scale estese fino a 1/4000 s, pensate per l’uso con otturatori focal plane di nuova generazione.
Varianti speciali, autoscatti e dispositivi cinematografici
Accanto ai modelli standard, la Watkins Meter Company sviluppò una serie di strumenti dedicati a nicchie specifiche del mercato fotografico e cinematografico. Il Snipe, ad esempio, era un Bee Meter semplificato senza scala di tempi: serviva ai possessori di fotocamere con otturatori a tempo fisso per verificare unicamente la sufficienza di luce. Mentre il Queen Bee incarnava raffinatezza e precisione, la serie Studio integrava un filtro a densità neutra utilizzabile per leggere in condizioni di contrasto elevato.
Nel settore cinematografico la casa di Hereford produsse un actinometro destinato alle cineprese, noto come Watkins Kinematograph Meter, che adottava un disco di carta fotosensibile con calibrazione in foot-candles e permetteva di impostare la velocità di proiezione. Alcuni modelli includevano persino un cronometro svizzero integrato nella cassa, mentre altri montavano un compasso per orientare correttamente il sensore verso la fonte luminosa. La meccanica interna, basata su ingranaggi elicoidali in acciaio temprato e boccole in bronzo fosforoso, era progettata per durare decine di migliaia di cicli di scatto.
La produzione continuò fino alla metà degli anni ‘30, quando la diffusione degli esposimetri fotoelettrici iniziò a erodere il mercato degli actinometri a carta. La Watkins Meter Company superò la crisi puntando su accessori per il darkroom, come temporizzatori e termometri per sviluppatrici, e sulla pubblicazione del prestigioso Watkins Manual of Photography, pamphlet nel quale Alfred Watkins esponeva i suoi metodi di esposizione e sviluppo secondo formule precise.
Calibrazione, materiali e il retaggio della precisione meccanica
Il successo della Watkins Meter Company si fondò su un approccio integrato alla produzione: metalli leggeri e resistenti (ottone nichelato, leghe di alluminio), componenti meccanici con tolleranze inferiori al decimo di millimetro, superfici interne lucide per evitare dispersioni di luce e carta fotosensibile appositamente trattata con solfocromo per una risposta affidabile ai diversi spettri luminosi. Ogni strumento veniva calibrato tramite un tavolo luminoso standard, tarato in foot-candles, e successivamente testato in condizioni variabili di temperatura e umidità.
I tecnici di Hereford svilupparono iterativi miglioramenti su molle di richiamo, ingranaggi e boccole, adottando lubrificanti minerali di elevata purezza per ridurre la deriva meccanica e proteggere i componenti dal grippaggio. Anche i soffietti interni delle fessure furono realizzati in tessuto sintetico e gomma vulcanizzata, per garantire un’ermeticità pressoché totale alla polvere e all’umidità. Questa cura costruttiva permise ai modelli Watkins di mantenere adeguata precisione anche dopo decenni di utilizzo.