La Society No. 2 Camera è uno degli esempi più significativi della produzione fotografica statunitense di fine Ottocento, in un’epoca in cui la fotografia stava rapidamente uscendo dai laboratori dei professionisti per entrare nella vita quotidiana della borghesia urbana. Introdotta sul mercato attorno al 1896 da una società statunitense poco documentata ma operante nel contesto fervente di innovazione industriale della costa orientale, la Society No. 2 rappresenta un punto d’incontro fra artigianato di precisione, standardizzazione meccanica e democratizzazione dell’accesso alla fotografia.
Il nome del modello si inserisce in una tradizione tipica di quel periodo: l’uso del termine “Society” come richiamo all’eleganza e alla rispettabilità borghese, mentre la numerazione (“No. 2”) riflette l’organizzazione gerarchica e modulare di molti cataloghi fotografici dell’epoca, in cui le fotocamere venivano prodotte in serie ma distinte per formato o uso previsto. A differenza di prodotti contemporanei come la Kodak No. 1, che mirava alla massima semplificazione operativa, la Society No. 2 Camera nasceva per utenti più esperti o per dilettanti ambiziosi, offrendo controlli manuali completi, un corpo robusto e una costruzione che strizzava l’occhio al linguaggio tecnico delle macchine professionali.
Il corpo macchina era realizzato in legno duro rivestito in pelle nera, con angoli rinforzati in ottone nichelato. La forma a scatola richiudibile, detta anche “folding box camera”, era all’epoca una soluzione tecnica che permetteva di ottenere uno strumento relativamente compatto senza rinunciare alla precisione del fuoco su vetro smerigliato. La Society No. 2 montava un soffietto estensibile in tessuto gommato, normalmente rosso o nero, e un sistema di messa a fuoco su rotaia che permetteva l’uso di lastre da 4×5 pollici o, in alcune versioni, pellicole a rullo compatibili.
Uno degli aspetti tecnici più rilevanti della macchina era la possibilità di utilizzare sia il formato a lastra singola – tramite portapellicola a cartuccia intercambiabile – sia il nuovo formato roll film, che stava guadagnando rapidamente popolarità. Questo la rendeva un ponte tra due epoche: da un lato la tradizione del collodio umido e della stampa a contatto, dall’altro l’avvento del negativo flessibile, più leggero, maneggevole e adatto all’uso portatile. La Society No. 2 veniva spesso fornita con una lente meniscata semplice, ma esistevano versioni opzionali equipaggiate con ottiche acromatiche a doppio gruppo, offrendo così maggiore nitidezza e un controllo più raffinato sull’aberrazione sferica.
La fotocamera montava un otturatore a ghigliottina azionato manualmente, capace di fornire tempi di posa variabili dai 1/25 di secondo fino a esposizioni prolungate tramite posa B (bulb). L’otturatore era generalmente integrato nell’obiettivo e controllato tramite una leva a molla caricata lateralmente. Questa configurazione, pur essendo tecnicamente semplice, richiedeva attenzione e una certa esperienza da parte dell’operatore, che doveva valutare l’esposizione sulla base delle condizioni ambientali, dell’intensità luminosa e della sensibilità del materiale fotosensibile impiegato, solitamente intorno ai 5-25 ISO equivalenti, secondo gli standard moderni.
Al di là della tecnica, la Society No. 2 Camera era anche un oggetto di design industriale. La qualità delle finiture, la cura nella realizzazione dei comandi meccanici, la coerenza geometrica dell’assemblaggio, tutto rifletteva una cultura della produzione che univa artigianato ottico e meccanica di precisione. Questa attenzione per i dettagli si ritrova nei manuali d’uso originali, che raccomandavano persino la posizione corretta dell’operatore durante la composizione dell’immagine per evitare parallassi nei ritratti ravvicinati.
Il mercato della fotografia amatoriale era in espansione, e la Society No. 2 si collocava in una fascia medio-alta, adatta a fotografi dilettanti colti, con un certo grado di preparazione tecnica o comunque disposti a investire tempo e denaro per padroneggiare lo strumento. Non si trattava di un dispositivo “point-and-shoot”, ma piuttosto di una camera a controllo completo, che permetteva di comprendere e gestire il processo fotografico in tutte le sue fasi, dalla composizione alla stampa.
Nel prossimo capitolo analizzeremo in dettaglio la struttura meccanica e ottica della Society No. 2 Camera, con particolare attenzione ai materiali impiegati, alla configurazione dell’ottica, alla cinematica dell’otturatore e ai meccanismi di traslazione del piano focale.
La Society No. 2 Camera si inserisce in una fase critica dello sviluppo tecnologico della fotografia, in cui il passaggio dalle fotocamere a lastre rigide alle prime macchine pieghevoli compatibili con rullini stava ridisegnando il panorama della produzione industriale. Dal punto di vista meccanico, questa fotocamera rappresentava una sintesi riuscita di tradizione e innovazione, mantenendo una struttura a soffietto tipica dei modelli professionali da studio, ma rendendola pieghevole e trasportabile per un uso sul campo.
Il corpo principale era costituito da legno di mogano o ciliegio, scelto per la sua stabilità e la bassa suscettibilità alle deformazioni causate da umidità o escursioni termiche. Questi elementi venivano incastrati tra loro con giunzioni a coda di rondine, poi rivestiti in cuoio vulcanizzato o pelle goffrata, sia per la protezione esterna che per la resa estetica. Il telaio anteriore, che ospitava l’ottica e il pannello dell’otturatore, era connesso tramite cerniere metalliche al basamento, permettendo così l’apertura e il fissaggio della struttura a soffietto. Quest’ultimo, realizzato in tela gommata multistrato, era pensato per garantire completa tenuta alla luce, pur mantenendo flessibilità e compattezza da chiuso.
Il sistema di messa a fuoco era montato su una slitta a cremagliera, azionata tramite una rotella dentata posta lateralmente, che permetteva una regolazione micrometrica del piano focale. Questa soluzione, mutuata dai modelli professionali a banco ottico, assicurava una nitidezza superiore rispetto alle messa a fuoco a zona o fissa, consentendo il controllo della profondità di campo attraverso la distanza soggetto-sensore. Il vetro smerigliato sul retro fungeva da schermo di messa a fuoco per la composizione, che avveniva generalmente con la fotocamera su treppiede e sotto un panno nero, per evitare riflessi e dispersione luminosa.
L’otturatore adottato dalla Society No. 2 era del tipo a settore rotante, montato in prossimità del gruppo ottico anteriore. Questa configurazione era apprezzata per la sua semplicità e affidabilità: una lamina semicircolare veniva azionata da una molla di richiamo che, rilasciata tramite un pulsante o una leva, attraversava rapidamente l’apertura dell’obiettivo, creando l’esposizione. I tempi disponibili erano generalmente tre o quattro: 1/25, 1/50, 1/100 di secondo, oltre alla posa B (bulb) e T (time), utilizzate per esposizioni più lunghe controllate manualmente.
Il gruppo ottico era spesso costituito da una lente acromatica doppia da 135 mm con apertura massima f/8 o f/11. Le versioni superiori montavano obiettivi Rapid Rectilinear a quattro lenti in due gruppi, che offrivano una migliore correzione dell’aberrazione sferica e cromatica, oltre a un campo visivo più uniforme anche ai bordi dell’inquadratura. In entrambi i casi, il diaframma era composto da lamelle metalliche, azionabili da una leva laterale, con aperture progressive incise sul barilotto: generalmente da f/8 fino a f/32. La gestione dell’apertura e del tempo di scatto era completamente manuale, lasciando al fotografo la piena responsabilità sull’esposizione, da calcolare sulla base dell’intensità luminosa e della sensibilità del materiale utilizzato.
Particolarmente interessante è il sistema di supporto pellicola. La Society No. 2 era una dual format camera, capace cioè di accogliere sia lastre in vetro tramite chassis intercambiabili, sia rullini flessibili caricati in un dorso dedicato. Questa soluzione non solo aumentava la versatilità della fotocamera, ma la rendeva anche adatta a utenti diversi: fotografi più tradizionali, affezionati al processo di sviluppo da lastra, e amatori più moderni, attratti dalla praticità del film a nastro. Il formato immagine standard era 4×5 pollici, ma in alcune versioni con caricatore a rullo, il fotogramma risultava leggermente ridotto a 3¼×4¼ pollici, mantenendo comunque una superficie utile significativa, con possibilità di stampa a contatto su carta salata, albumina o, nei decenni successivi, carta baritata.
L’intera progettazione della fotocamera, pur nella semplicità dei suoi elementi, rifletteva una filosofia di robustezza operativa e precisione funzionale. L’assemblaggio era manuale ma preciso, con tolleranze contenute che garantivano l’allineamento corretto tra piano focale e asse ottico, evitando problemi di parallasse o vignettatura. Questo aspetto è fondamentale per comprendere perché alcune fotocamere come la Society No. 2, pur non essendo prodotti di massa come le Kodak Brownie, abbiano continuato a essere utilizzate per decenni, sia in ambito documentario che artistico.
Nel prossimo capitolo esamineremo l’impiego storico e i contesti d’uso della Society No. 2 Camera, concentrandoci sulle sue applicazioni in ambito amatoriale e semi-professionale, nelle esplorazioni geografiche, nella fotografia topografica e nella produzione di album di viaggio
Il periodo di utilizzo della Society No. 2 Camera, indicativamente collocabile tra gli anni ’80 dell’Ottocento e la seconda decade del Novecento, coincide con un momento cruciale della fotografia: quello in cui l’immagine inizia a emanciparsi dal solo uso professionale o scientifico per diventare strumento personale e sociale di documentazione. La configurazione tecnica della fotocamera, che univa praticità e qualità, la rese un dispositivo versatile, adottato in diversi ambiti sia pubblici sia privati.
Uno degli ambiti più rilevanti per la diffusione della Society No. 2 fu la fotografia di viaggio, in particolare nelle esplorazioni coloniali e nelle spedizioni scientifiche organizzate da istituti geografici, università o società di studi etnografici. Il formato relativamente grande della pellicola – tipicamente 4×5 pollici o poco meno nei modelli a rullo – consentiva immagini ad alta definizione, adatte sia a documentare dettagli architettonici, sia a rendere leggibili i tratti fisiognomici dei soggetti umani. Le sue dimensioni compatte da chiusa, assieme al corpo in legno e cuoio, ne facevano uno strumento sufficientemente robusto e trasportabile in casse imbottite o zaini rigidi, anche in condizioni ambientali difficili.
All’interno delle spedizioni topografiche e cartografiche – ambiti in cui la fotografia cominciava a integrarsi come strumento oggettivo di rilievo visivo – la Society No. 2 trovava una delle sue applicazioni più significative. Benché non equipaggiata per la stereoscopia aerea né per la fotogrammetria vera e propria, la sua capacità di produrre immagini ad alta risoluzione su pellicola nitida la rese uno strumento ideale per l’annotazione dei luoghi visitati, con la possibilità di successiva tracciatura dei profili del territorio su base fotografica. L’uso combinato di fotografie e schizzi a mano veniva talvolta istituzionalizzato nei protocolli delle spedizioni, soprattutto in America settentrionale, dove si documentavano territori da assegnare alla colonizzazione, alla costruzione ferroviaria o allo sfruttamento minerario.
Un’altra funzione importante fu nel campo della fotografia urbana e architettonica. La Society No. 2, per la sua capacità di montare lastre, veniva frequentemente impiegata da professionisti locali e funzionari municipali per documentare edifici, lavori pubblici e infrastrutture. Le immagini prodotte trovavano impiego in archivi tecnici, relazioni di progetto o documentazioni pre-assicurative. La lente da 135 mm, seppur non grandangolare nel senso moderno del termine, offriva un angolo di campo sufficiente per inquadrare interi prospetti, mantenendo una resa ottica priva di evidenti distorsioni ai bordi.
Nell’ambito domestico, la Society No. 2 veniva adottata da una categoria di utenti che potremmo definire come fotografi amatori istruiti. Erano spesso medici, ingegneri, ufficiali, docenti universitari o collezionisti d’arte che, affascinati dalla possibilità di controllare completamente la produzione dell’immagine – dall’esposizione al trattamento chimico – acquistavano fotocamere come questa per attività private, quali la fotografia di famiglia, i ritratti, le gite nei dintorni cittadini o le vacanze nelle località balneari o montane. I negativi venivano poi sviluppati in piccole camere oscure domestiche e stampati a contatto su carta all’albumina o al platino, con risultati estetici di qualità spesso sorprendente.
Va infine menzionato l’utilizzo in ambito artistico, dove alcuni pittori, incisori e architetti utilizzavano la fotografia non tanto per la sua capacità di documentazione diretta, quanto come base preparatoria per la composizione pittorica o il disegno. Il formato 4×5″, pur essendo più piccolo rispetto a quello delle fotocamere a banco ottico, consentiva comunque un’ottima leggibilità delle strutture prospettiche e dei rapporti chiaroscurali, grazie all’ampia latitudine di posa e alla fedeltà tonale delle emulsioni al collodio o alla gelatina-bromuro.

Sono Manuela, autrice e amministratrice del sito web www.storiadellafotografia.com. La mia passione per la fotografia è nata molti anni fa, e da allora ho dedicato la mia vita professionale a esplorare e condividere la sua storia affascinante.
Con una solida formazione accademica in storia dell’arte, ho sviluppato una profonda comprensione delle intersezioni tra fotografia, cultura e società. Credo fermamente che la fotografia non sia solo una forma d’arte, ma anche un potente strumento di comunicazione e un prezioso archivio della nostra memoria collettiva.
La mia esperienza si estende oltre la scrittura; curo mostre fotografiche e pubblico articoli su riviste specializzate. Ho un occhio attento ai dettagli e cerco sempre di contestualizzare le opere fotografiche all’interno delle correnti storiche e sociali.
Attraverso il mio sito, offro una panoramica completa delle tappe fondamentali della fotografia, dai primi esperimenti ottocenteschi alle tecnologie digitali contemporanee. La mia missione è educare e ispirare, sottolineando l’importanza della fotografia come linguaggio universale.
Sono anche una sostenitrice della conservazione della memoria visiva. Ritengo che le immagini abbiano il potere di raccontare storie e preservare momenti significativi. Con un approccio critico e riflessivo, invito i miei lettori a considerare il valore estetico e l’impatto culturale delle fotografie.
Oltre al mio lavoro online, sono autrice di libri dedicati alla fotografia. La mia dedizione a questo campo continua a ispirare coloro che si avvicinano a questa forma d’arte. Il mio obiettivo è presentare la fotografia in modo chiaro e professionale, dimostrando la mia passione e competenza. Cerco di mantenere un equilibrio tra un tono formale e un registro comunicativo accessibile, per coinvolgere un pubblico ampio.