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Processo Cibachrome/Ilfochrome (1963–2011)

Il viaggio del Cibachrome affonda le sue radici negli anni Trenta, quando il chimico ungherese Béla Gáspár cominciò a sperimentare emulsioni fotografiche caricate con pigmenti insolubili direttamente nella gelatina sensibile alla luce. L’idea era rivoluzionaria: anziché utilizzare la tradizionale carta su base di fibra impregnata di coloranti al termine di un processo complesso, si poteva creare un supporto che racchiudesse già in sé quelle stesse molecole cromatiche, garantendo un’interazione più stabile tra luce, argento e pigmento. Fu proprio nel 1933 che Gáspár depositò il brevetto del Gasparcolor, un metodo in apparenza ardito per l’epoca, che però gettò le basi per quel futuro in cui la resa dei toni sarebbe diventata tanto intensa da togliere il fiato. Mentre il mondo affrontava grandi trasformazioni politiche ed economiche, il chimico ungherese lavorava in un laboratorio europeo lontano dai riflettori, ma con un solo, chiaro obiettivo: offrire ai fotografi una nuova frontiera del colore.

Negli anni Cinquanta, le sfide tecniche non erano ancora state superate, ma l’interesse industriale cominciava a scaldarsi. La Ciba-Geigy Photochemie, società chimica svizzera dalla tradizione solida, vide nel Gasparcolor l’opportunità di un vantaggio competitivo. In collaborazione con Ilford UK, uno dei nomi più affermati nel mondo della produzione di carte fotografiche, si lavorò per migliorare la purezza dei pigmenti, affinare la struttura del triacetato di poliestere – un materiale sintetico dalle caratteristiche di trasparenza e resistenza superiore alla carta tradizionale – e standardizzare un ciclo di sviluppo che potesse tradursi in un prodotto vendibile su larga scala. Lungo l’arco di due decenni, i chimici migliorarono le ricette delle emulsioni, aumentarono la definizione dei granuli d’argento e studiarono agenti sbiancanti capaci di rimuovere con precisione millimetrica i coloranti non esposti. Nel 1963, il nome “Cibachrome” vide la luce sui cataloghi Ilford, segnando l’inizio di una rivoluzione destinata a cambiare per sempre la fotografia professionale e artistica.

Da quel momento, le stampe ottenute con questo processo cominciarono a comparire nelle gallerie, nei laboratori editoriali, sulle tavole cromatiche delle riviste di moda più prestigiose. Il forte legame tra stabilità molecolare del pigmento e base in poliestere permise di superare i vincoli al tempo imposti dai normali processi cromogenici, dove coloranti solubili e carta a fibra limitavano la durata e la fedeltà del colore. Ogni foglio di Cibachrome non era più un semplice mezzo di riproduzione, ma un piccolo capolavoro di chimica e ingegneria industriale, in cui ogni fase – dall’esposizione all’ingranditore, fino al lavaggio finale – andava calibrata con rigore quasi matematico.

Origini del Processo

Il Cibachrome è un processo fotografico positivo-su-positivo basato sul processo Gasparcolor, creato nel 1933 da Bela Gaspar, un chimico ungherese. Acquistato dopo la fusione tra Ilford UK e Ciba-Geigy Photochemie della Svizzera, il processo fu registrato e commercializzato per la prima volta come Cibachrome nel 1963.

IlfochromeProcedimento
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A occhio nudo, una stampa Cibachrome appare come un blocco compatto di luce, in cui i colori si fondono tra loro senza mai perdere di brillantezza. Questo effetto non è frutto di un trucco ottico, bensì del cosiddetto procedimento “positivo‑su‑positivo”. A differenza dei tradizionali metodi cromogenici, in cui una pellicola o un foglio vengono esposti, sviluppati in bianco e nero e successivamente trasferiti su carta attraverso stampi coloranti – con inevitabile dispersione e degradazione dei pigmenti –, nel Cibachrome ogni immagine a colori nasce direttamente dal foglio di poliestere già carico di pigmenti. Il cuore del processo è una serie di dieci strati sottilissimi: in ognuno di essi, microcristalli di alogenuri d’argento sono mescolati a pigmenti di ciano, magenta e giallo. Questi strati vengono disposti con precisione micrometrica, in modo che la luce blu, verde e rossa passi attraverso livelli precisi e interagisca separatamente con i rispettivi componenti cromatici.

Al momento dell’esposizione, condotta con un ingranditore o per contatto diretto con la diapositiva, la radiazione luminosa impressiona i cristalli d’argento in proporzione diretta alla quantità di luce riflessa dal soggetto. Le zone brillanti della diapositiva lasciate più esposte creano abbondanza di argento metallico, mentre le aree scure lasciano l’emulsione quasi intatta. Finita questa prima fase, la carta viene immersa in un bagno di sviluppo simile a quello usato nelle stampe in bianco e nero: l’argento esposto si riduce a particelle metalliche che formano un negativo interno in ciascuno dei tre strati di colore. È qui che interviene la reazione di distruzione dei coloranti, cioè lo sbiancamento: un agente ossidante rimuove selettivamente i pigmenti presenti nell’emulsione, eliminando quelli corrispondenti alle parti d’argento e lasciando intatti gli altri. In pratica, laddove l’immagine in argento è più densa, il colorante corrispondente viene completamente eliminato, mentre nelle zone meno esposte, i pigmenti rimangono. Il risultato è un’immagine a colori positiva, perfettamente bilanciata in luce e tonalità.

Non si tratta di un passaggio secondario, bensì della fase cruciale che conferisce al Cibachrome la sua ineguagliata saturazione. In un processo multitappa, qualsiasi minima imprecisione nella concentrazione dello sbiancante o nella temperatura può compromettere il bilanciamento cromatico, inducendo dominanti indesiderate. Per questo motivo, i laboratori che offrivano servizi Cibachrome dovevano seguire manuali dettagliatissimi, con tolleranze di pochi decimi di grado centigrado e tempi di trattamento misurati al secondo. Solo così era possibile ottenere quella luminosità pura che ancor oggi entusiasma chi osserva una vecchia stampa Cibachrome: ogni rosso appare come un rubino alla luce del sole, ogni ciano come l’oceano in una giornata estiva, e ogni giallo evoca il calore di un tramonto mediterraneo.

Dettagli Tecnici del Processo Cibachrome

Processo di Distruzione dei Coloranti

Il Cibachrome è un processo di distruzione dei coloranti, il che significa che viene utilizzato un agente sbiancante per rimuovere i coloranti non necessari dall’emulsione. Ogni stampa Cibachrome è composta da dieci strati contenenti varie combinazioni di alogenuri d’argento sensibili alla luce e coloranti sensibili alle onde di luce blu, verde o rossa. Dopo l’esposizione di un positivo, sia tramite un ingranditore che per stampa a contatto, la stampa deve essere sviluppata con prodotti chimici per lo sviluppo in bianco e nero. Questo passaggio crea un’immagine negativa d’argento all’interno degli strati. Successivamente, la stampa deve essere sbiancata. Lo sbiancamento elimina i coloranti in proporzione alla quantità di argento sviluppato nel passaggio precedente e produce un’immagine positiva a colori. La stampa deve quindi essere fissata per prevenire ulteriori sviluppi e lavata per eliminare i prodotti chimici estranei che potrebbero causare degradazione.

Struttura e Composizione

Il processo Cibachrome è rinomato per la sua durata nel tempo grazie alla base di triacetato di poliestere. Questa base offre una maggiore stabilità rispetto alla carta a base di fibra tradizionale. I coloranti all’interno dell’emulsione contribuiscono alla saturazione intensa e alla luminosità dei colori, rendendo le stampe Cibachrome particolarmente apprezzate per la loro qualità visiva.

Evoluzione, declino…e riscoperta

Durante gli anni Settanta e Ottanta, il Cibachrome divenne il processo di riferimento per fotografe e fotografi che cercavano la perfezione assoluta. Su tavole cromatiche di riviste come Vogue, Harper’s Bazaar e National Geographic, le immagini realizzate con Cibachrome si distinguevano per un dettaglio impareggiabile e una profondità di colore che nessuna stampa cromogenica tradizionale riusciva a eguagliare. Fotografi di moda di fama mondiale, da Helmut Newton a Richard Avedon, preferivano il Cibachrome per la resa della pelle e la resa dei tessuti, mentre nel campo della fotografia di paesaggio artisti come Eliot Porter sfruttavano la capacità di riprodurre fedelmente ogni gradazione di verde nelle foreste umide. Anche nell’industria pubblicitaria, dove la verosimiglianza dei colori può fare la differenza nella percezione di un brand, il Cibachrome dettava legge: campioni colore, mock‑up di packaging e brochure promozionali venivano realizzati quasi esclusivamente con questo processo.

Nonostante il successo, tuttavia, il Cibachrome era un lusso costoso e impegnativo. Il costo delle carte, il prezzo dei chimici di sviluppo e la necessità di attrezzature dedicate lo rendevano accessibile solo a grandi studi e laboratori specializzati. Con l’avvento delle prime stampanti digitali a getto d’inchiostro negli anni Novanta, il panorama cominciò a mutare. Le nuove tecnologie inkjet, pur all’epoca meno resistenti allo sbiadimento, offrivano costi di gestione inferiori e una versatilità maggiore: si poteva stampare direttamente dai file digitali, eliminando i passaggi di pellicola e sviluppo chimico. La diffusione progressiva di fotocamere digitali sempre più performanti sancì poi il tramonto definitivo di molti processi analogici, Cibachrome compreso. Nel 2011 Ilford annunciò la fine della produzione dei materiali Ilfochrome, lasciando dietro di sé un’insospettata nostalgia tra professionisti e collezionisti. Quell’addio, sebbene prevedibile, segnò la chiusura di un capitolo storico, poiché con esso vennero meno anche gli standard di riferimento per la stampa a colori chimica.

Tuttavia, già negli anni immediatamente successivi alla cessazione ufficiale, piccoli laboratori artigianali e appassionati iniziarono a cercare di ricostruire in proprio le formule perdute. Su forum specializzati e riviste di settore circolavano ricette “homemade”, esperimenti di emulsioni fai‑da‑te e sbiancanti ottenuti da ricette alchemiche. L’obiettivo non era più quello di rimpiazzare il grande processo industriale, bensì di preservarne l’essenza, creando piccole serie di stampe che mantenessero almeno in parte quel fascino intramontabile. In parallelo, musei e collezioni private intensificarono i programmi di digitalizzazione ad altissima risoluzione, utilizzando scanner a tamburo e drum scanner che potessero catturare ogni granulosità, ogni riflesso di luce e ogni sfumatura tonale, restituendo in file tiff da decine di gigabyte le immagini originarie. Progetti di restauro digitale come Digital ICE permisero di rimuovere polvere e graffi, ma preservarono intatta la leggibilità dei pigmenti insolubili, creando “duplichrome” fedelissimi all’originale.

 

Aggiornato Luglio 2025

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