Paolo Pellegrin è un fotografo documentarista italiano, noto internazionalmente per la sua attività nel fotogiornalismo e per l’approccio rigorosamente autoriale applicato alla documentazione di guerre, crisi umanitarie e ambientali. Nato a Roma l’11 marzo 1964, proviene da una famiglia di architetti: il padre, la madre e i suoi due fratelli erano tutti inseriti nel mondo della progettazione. Questo ambiente culturale e visivo lo ha influenzato profondamente, specie nella comprensione dello spazio, della forma e della luce.
Dopo aver abbandonato gli studi di architettura all’Università La Sapienza di Roma al terzo anno, decide di dedicarsi completamente alla fotografia. Tra il 1986 e il 1987 frequenta l’Istituto Italiano di Fotografia a Milano, dove apprende le basi della tecnica fotografica e inizia a sviluppare una sensibilità particolare per la composizione narrativa delle immagini.
Formazione e prime sperimentazioni fotografiche (1986–1995)
Gli anni della formazione di Paolo Pellegrin coincidono con un periodo di forte evoluzione del linguaggio fotografico, nel quale la tensione tra il reportage tradizionale e l’affermarsi di una fotografia più intimista e personale si fa sempre più marcata. Pellegrin si posiziona fin dall’inizio in questa zona di confine, cercando di unire una solida base documentaria con una costruzione visiva raffinata.
Durante il periodo all’Istituto Italiano di Fotografia, approfondisce i fondamenti della fotografia analogica in bianco e nero, lavorando su pellicola 35mm, principalmente con ottiche fisse da 35 e 50 mm, apprezzate per la loro luminosità e per la resa naturale della prospettiva. Utilizza frequentemente pellicole Ilford HP5+, che spinge spesso a 800 ISO, e sviluppa in camera oscura con metodi personalizzati che enfatizzano il contrasto medio-alto e mantengono dettagli nelle ombre.
Nel primo periodo, realizza una serie di reportage sulla comunità Rom in Italia e nei Balcani, e su tematiche legate all’immigrazione e alla marginalità sociale. Questi progetti dimostrano già un forte senso della narrazione visiva e una tensione etica che accompagnerà tutta la sua carriera. I lavori sono caratterizzati da una composizione costruita con precisione geometrica, influenzata dalla sua formazione architettonica, e da un uso della luce naturale che ricorda il chiaroscuro pittorico.
Nel 1995 ottiene il suo primo importante riconoscimento: vince il World Press Photo Award nella categoria “Daily Life” per un reportage sull’AIDS in Uganda. Il progetto è realizzato con una fotocamera Leica M6 e pellicola spinta ad alti ISO, in condizioni di luce naturale e con ottiche luminose che permettono scatti intimi e discreti.
Magnum Photos e la maturità stilistica (1996–2010)
A partire dal 1996, Paolo Pellegrin inizia a collaborare con l’agenzia Grazia Neri, ma è il suo ingresso in Magnum Photos nel 2001 (prima come nominee, poi come membro effettivo nel 2005) che segna il consolidamento della sua figura internazionale. La sua adesione a Magnum non è solo un riconoscimento istituzionale, ma anche un’affermazione della sua visione fotografica personale: un’idea di fotografia che è insieme documento, testimonianza e atto poetico.
In questi anni realizza reportage in zone di guerra e crisi umanitaria: Kosovo, Albania, Macedonia, Libano, Palestina, Afghanistan, Iraq, Darfur, e infine lo tsunami in Sri Lanka. In ogni contesto, Pellegrin sviluppa un linguaggio visivo coerente, basato su alcune scelte stilistiche fondamentali: bianco e nero ad alto contrasto, grana accentuata, composizioni geometriche e un uso drammatico della luce.
Sul piano tecnico, continua a usare principalmente fotocamere a telemetro Leica (M6, M7), ma nei contesti più dinamici passa a reflex Canon EOS-1V, utilizzando pellicole Kodak Tri-X e T-Max, spesso spinte a 1600 ISO per lavorare in condizioni estreme. Il suo sviluppo è calibrato per mantenere una gamma tonale ricca, anche in situazioni di luce molto bassa o con forti contrasti.
Durante il conflitto in Libano nel 2006, lavora con tempi di scatto molto rapidi (1/1000 o superiori), per fermare l’azione, e utilizza frequentemente filtri rossi o gialli per aumentare il dramma delle nuvole e dei cieli. La luce è spesso quella disponibile, senza flash, ma con attento posizionamento rispetto al sole o alle fonti artificiali.
Il 2007 segna l’uscita del volume “As I Was Dying”, progetto fotografico e libro d’artista che unisce immagini realizzate in diversi scenari di sofferenza umana. Il libro è costruito come un flusso visivo continuo, senza capitoli, con una narrazione visiva molto coesa. Le immagini sono stampate con inchiostri pigmentati su carta fine art opaca, in tiratura limitata.
In questo periodo Pellegrin riceve numerosi riconoscimenti, tra cui:
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Leica Medal of Excellence per il reportage nei Balcani;
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W. Eugene Smith Grant per un lavoro pluriennale sul mondo musulmano;
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Robert Capa Gold Medal per la documentazione in zone di conflitto ad alto rischio
Transizione al digitale e nuova fase esplorativa (2010–2020)
A partire dal 2010, Paolo Pellegrin inizia a integrare l’uso del digitale professionale nel suo workflow. La sua scelta ricade sulle fotocamere Canon EOS 5D Mark II e III, con obiettivi della serie L, in particolare il 35mm f/1.4, il 50mm f/1.2 e il 70–200mm f/2.8 IS. La resa del digitale gli permette una nuova libertà espressiva, soprattutto in termini di sensibilità ISO elevata e di velocità di lavoro.
Durante i suoi reportage in Medio Oriente e Nord Africa, Pellegrin adotta uno stile ancora più immersivo. L’utilizzo del bianco e nero digitale non lo porta a rinunciare all’estetica della pellicola: imposta i profili immagine in camera per simulare la curva tonale e la grana del negativo spinto, e in post-produzione lavora con curves e livelli in Photoshop per ottenere una stampa che conserva la sensazione “analogica”.
In molti reportage, adotta un approccio immersivo, spesso lavorando per giorni con le stesse persone, guadagnandosi fiducia e producendo immagini che sono simultaneamente ritratto e documento. In particolare, i suoi lavori su Gaza, sulla crisi dei migranti nel Mediterraneo e sulla Siria sono esempi di questo metodo. L’uso del flash off-camera in ambienti urbani o notturni, sincronizzato a tempi rapidi, diventa una delle sue tecniche più riconoscibili.
In questo decennio sperimenta anche il formato video e l’uso del colore in modo più ampio, soprattutto nei contesti paesaggistici o ambientali. Le sue immagini diventano meno legate al puro evento, e più concentrate sulla memoria del luogo, sull’atmosfera, sulla stratificazione della sofferenza.
Paesaggi dell’Antropocene e nuova fotografia ambientale (2020–oggi)
Negli anni più recenti, Paolo Pellegrin ha ampliato il suo raggio d’azione tematico, orientandosi verso una fotografia del cambiamento climatico e del paesaggio dell’Antropocene. I suoi viaggi in Groenlandia, Islanda, Namibia, Etiopia, Mongolia, Antartide e negli Stati Uniti documentano non più solo l’uomo, ma il mondo modificato dall’uomo.
La tecnica fotografica cambia nuovamente: utilizza fotocamere Canon EOS R5 mirrorless, con ottiche RF ad alta definizione, per ottenere una gamma dinamica amplissima e una risoluzione estrema. Scatta in RAW a 14 bit, per mantenere tutta l’informazione visiva disponibile in post-produzione.
Utilizza spesso tempi lunghi di esposizione (fino a 1 secondo) per documentare fenomeni geologici o marini, e lavora con ISO contenuti (100–800) per avere file puliti. La stampa avviene su carte baryta o Hahnemühle Photo Rag, per esposizioni in gallerie e musei. In progetti come “La fragile meraviglia” (2022), il colore entra in modo sistematico, con una palette ridotta, spesso neutra o monocromatica, che rafforza la sensazione di silenzio e sospensione.
In queste opere recenti, Pellegrin porta all’estremo la sua attenzione per la composizione astratta, per la matericità della luce e per l’evocazione simbolica del paesaggio. Il paesaggio non è più sfondo, ma protagonista, e il gesto fotografico diventa quasi pittorico