Luigi Ghirri, fotografo emiliano classe 1943, ha dedicato la propria opera a ritrarre un’Italia «sospesa», permeata di malinconia e di memorie sommesse. Anziché inseguire il folklore o i monumenti da cartolina, Ghirri esplora la banalità poetica del quotidiano: campi brulli, cortili senza persone, cartelloni con immagini dipinte. Il suo sguardo malinconico porta il lettore a scoprire come l’assenza stessa di elementi descrittivi diventi protagonista della composizione. Nelle fotografie di Ghirri non c’è affollamento né azione scenografica: lo spazio vuoto è riempito da una presenza silente, un vuoto denso di significato. Ad esempio le sue vedute della Pianura Padana appaiono come “una grande tavola dove ricordi e memorie non affondano”: ogni fotogramma è pervaso dal senso di un passato che resiste, come se il tempo si fosse fermato in quella luce fragile del mattino o nella foschia del tramonto.
Questo modo di vedere il paesaggio non nasce dal nulla: Ghirri ha un solido background tecnico (geometra di mestiere) e un contatto diretto con l’arte concettuale italiana degli anni ’70. I suoi scatti rivelano un approccio quasi filosofo alla fotografia: ogni inquadratura è accuratamente costruita, e le scelte formali sono consapevoli. La scena che immortala lo spettatore è volutamente anomala, come se Ghirri intendesse costringere chi guarda a riflettere sulla realtà che spesso prende per scontata. Così, un campo arato all’alba o il riflesso di una luce sui vetri di una casa si caricano di un’atmosfera in cui lo sguardo dell’osservatore diventa parte integrante dell’immagine.
La narrazione nel lavoro di Ghirri si fa per frammenti visivi e silenzi: non ci sono didascalie o spiegazioni esplicite, ma ognuna delle sue fotografie racconta un episodio possibile. Quelle case dimesse, quei tramonti impassibili, diventano tracce di racconti mancati. Di fatto, nei suoi scritti Ghirri stesso definì il suo paesaggio «sospeso, non realistico, per certi versi metafisico», spesso privo di figure umane ma pieno dei segni umani rimasti. Questa nota di metafisica dolce emerge dalla scelta di soggetti quotidiani: un palo della luce che si staglia nel cielo plumbeo, un cartellone pubblicitario consumato, una strada periferica che si perde all’orizzonte. Ogni elemento in apparenza secondario acquista, con la sua macchina fotografica, il valore di un sogno ai confini della realtà.
In definitiva, Ghirri ci ha insegnato a guardare l’Italia con un’assenza in più: quell’assenza di elementi banali che invece occupano lo scatto, restituendoci il sentimento di nostalgia per un mondo semplice ormai perduto. Le sue foto non mostrano la modernità trionfante ma la transizione di un paesaggio, la caduta gentile delle stagioni e dei ricordi, come se la memoria fosse l’unico pittore a cui affidare la scena. Qui la mancanza diventa presenza: l’assenza è tanto evocativa da riempire l’intero fotogramma con un silenzio eloquente.
Il paesaggio italiano tra vuoto e memoria
Attraverso l’obiettivo di Ghirri, il paesaggio italiano non è un panoramico scenario perfetto, ma uno spazio emotivo segnato dal tempo e dalla memoria. La Pianura Padana, con le sue nebbie e i suoi campi arati, diventa una specie di «cartina del cuore» dove le tracce umane sono evanescenti ma invincibili. In uno dei suoi scritti Ghirri immagina la pianura come una grande tavola bianca colma di ricordi, in cui la distanza da un «mondo semplice» diventa malinconia. Per lui la malinconia è come un cartello stradale: indica ciò che non c’è più, la geografia perduta di un’Italia rurale che stiamo lentamente dimenticando.
Questa visione si riflette nelle fotografie: spesso lo spazio è dominato da elementi incombenti come un grande orizzonte indistinto o un cielo vasto, mentre il dettaglio quotidiano – un campo, una strada sterrata, una casa diroccata – viene isolato e ingrandito. I bordi del fotogramma rimangono liberi, come in attesa di qualcosa. Ad esempio, in uno scatto famoso il cielo occupa gran parte dell’inquadratura, dissolvendo l’orizzonte; in un altro, una vetrina semivuota riflette la luce esterna ma non rivela volti né automobili, lasciando il suo mistero al silenzio. In questi luoghi “non-luogo”, dove l’architettura moderna cozza con la natura stanca, Ghirri ferma il tempo: blocca attimi vuoti che in realtà sono colmi di fantasmi, di storie immaginarie.
Non stupisce, quindi, che Ghirri abbia curato progetti collettivi come Viaggio in Italia (1984), in cui coinvolse colleghi come Olivo Barbieri, Mario Cresci, Giovanni Chiaramonte. L’obiettivo era tutto tranne che il paesaggio delle cartoline turistiche: si cercava la memoria diffusa della periferia, dei centri minori e degli spazi interstiziali dell’Italia contemporanea. Ogni fotografo proponeva il proprio modo di vedere: in questo coro visuale, Ghirri contribuì con immagini in cui assenza e imprecisione dominano la scena. Le sue fotografie commentano la caduta degli ideali rurali e l’insorgere di un vuoto silenzioso dopo il trionfo dell’industrializzazione, un vuoto che tuttavia racconta ancora di relazioni umane – una memoria che riempie lo sguardo come le nuvole riempiono il cielo.
In un paesaggio come quello della pianura emiliana, le linee di confine tra terra e cielo tendono a dissolversi. E proprio da quell’imprecisione trae nutrimento la fotografia di Ghirri: l’orizzonte indistinto nei suoi scatti fa percepire una distanza indefinita, una sensazione di mistero senza meta. Anche i dettagli architettonici, che pure ci sono (case di mattoni, capannoni, ringhiere), paiono sbiaditi e privi di protagonismo. Qui il “genius loci” – lo spirito del luogo – non è quello esaltato dagli scatti di antiquari e monumenti, ma una sorta di genius loci malinconico. Attraverso il suo obiettivo, il paesaggio italiano diventa un luogo interiore, un paesaggio dell’anima: più che descrivere un luogo preciso, suggerisce un’atmosfera condivisa, dove ognuno può ritrovare un pezzetto della propria memoria.
Strumenti del mestiere: dalla Leica all’ilfochrome
Dietro quell’insieme di atmosfere sospese c’è un’accurata scelta tecnica. Ghirri maneggiava con disinvoltura apparecchiature di vario genere, selezionandole per ogni esigenza espressiva. Negli anni giovanili, quando voleva catturare l’immediatezza di una scena urbana, usava macchine leggere e agili (oggi diremmo compatte 35mm): questo gli consentiva di fermare istanti fugaci tra i vicoli o sui binari della ferrovia, secondo la lezione di un reportage molto personale. Più tardi, per i suoi progetti più meditati, Ghirri passò al medio formato, scegliendo fotocamere come Pentax 6×7 e Mamiya RB67. Questi strumenti più ingombranti avevano il vantaggio di offrire un’incredibile qualità di dettaglio e una profondità di campo notevole, elementi fondamentali per restituire con precisione anche il minimo particolare di quel paesaggio “minore” che intendeva indagare.
All’occorrenza sperimentò anche con la Polaroid: la SX-70, con la sua pellicola istantanea, divenne un mezzo per cogliere in modo immediato dettagli insoliti o giochi di luce casuali. Quel procedimento rapido, dal caratteristico alone bordato di sfumature calde, permetteva di imprigionare in pochi minuti un frammento di realtà color seppia, contribuendo al suo universo estetico. Anzi, nel 1980 Polaroid invitò Ghirri ad Amsterdam per utilizzare prototipi di grande formato (20×24 e 8×10 pollici), confermando il suo interesse per la sperimentazione tecnica.
Ghirri amava parlare di parametri fotografici come strumenti espressivi: in un caso emblematico intitolò perfino una serie a “Diaframma 11, 1/125, luce naturale” (1979), sottolineando come la combinazione di f/11 e 1/125 di secondo fosse la ricetta che gli consentiva di imprimere sui negativi quell’atmosfera “perfettamente a fuoco” ma velata dalla luce del mattino. I suoi cieli e le sue vedute richiedevano apertura medio-piccola (per una maggiore nitidezza su tutta la scena) e tempi rapidi per catturare la variazione della luce naturale. In studio amava mantenere una sensibilità (ISO) contenuta, così che le sue pellicole a colori – spesso Kodachrome o altre invertibili note per i toni pastello – restituivano un’immagine finalizzata al minimo rumore e alle sfumature più soffici.
Fondamentale era poi il lavoro di post-produzione: Ghirri collabora strettamente con lo stampatore Arrigo Ghi, che traduce i suoi negativi in vere e proprie tavole cromatiche. Utilizzando la stampa diretta da diapositiva (su carta Ilfochrome/Cibachrome), Ghi modulava la resa dei colori senza eccessi di contrasto. Ne derivavano fotografie dove gialli pallidi, verdi tenui, rosa evanescenti diventano protagonisti di un acquerello fotografico. Questo approccio tecnico «pittorico» intendeva evitare ogni esagerazione cromatica. Come risultato, la carta fotografica esprimeva immagini di un colore delicato, in cui persino la tavolozza visiva contribuisce a infondere un senso di nostalgia: immagini che sembrano dissolversi in trasparenza e richiamano la delicatezza delle diapositive d’epoca, proprio come voleva il suo ideale estetico.
Luce e colore: la tavolozza segreta della malinconia
La percezione del paesaggio malinconico di Ghirri passa anzitutto attraverso la luce. Prediligeva le ore in cui l’illuminazione naturale è morbida e diffusa: la luce dell’alba, del crepuscolo o delle giornate nebbiose fa sì che il contrasto sia basso e i contorni si fondano l’uno con l’altro. In queste condizioni ogni ombra si fa tenue, ogni oggetto riflette una luminosità soffusa. Per questo scattava spesso con il sole molto basso, evitando il chiarore abbagliante del mezzogiorno. Il risultato è un ambiente luminescente, come sospeso nel tempo, privo di ombre nette: ogni fotografia appare avvolta in una luce semidiffusa che attenua i toni forti e valorizza i mezzi toni.
Questa scelta luminosa crea un’atmosfera contemplativa: gli elementi fotografati – campi, palazzi, cespugli – appaiono battezzati da un chiarore latente, quasi irreale. Nelle sue immagini emerge spesso un chiarore latteo o pallido, che ci ricorda il mondo di Joseph Saramago quando evoca la cecità collettiva. Ghirri ribalta questo concetto e mostra l’“abbacinante luminescenza” di un panorama che si perde nei bianchi e nelle nebbie. La luce diviene così un elemento narrativo: illumina senza risolvere, segnala senza rivelare. In una celebre foto la campagna scompare in un bagliore dorato, i dettagli si confondono, e l’osservatore si trova a cercare volontariamente quello che non c’è più, guidato solo dal riflesso del sole.
Il colore è l’altro cardine di questa tavolozza malinconica. Ghirri fu pioniere nella fotografia a colori in Italia, quando ancora molti colleghi lavoravano in bianco e nero: preferì subito puntare su pellicole cromatiche di alta qualità, insieme a un processo di stampa che enfatizzasse le tonalità più morbide. La sua mano in fase di sviluppo prediligeva seducenti sfumature pastello: verdi smorzati dai filtri della nebbia, azzurrini appena velati, gialli sporchi o arancio desaturati. In nessuna sua fotografia il rosso è acceso: se presente, è sempre moderato, come se dovesse ricordare una civiltà che sta sbiadendo con il tramonto.
Questa palette pastello crea quell’effetto da acquerello che caratterizza molti dei suoi scatti. Ad esempio, nelle foto sulla campagna il verde dei prati sembra di carta opaca, quasi disabitato; nel cielo, il blu si trasforma in rosa velato o in giallo sporco quando entra in contatto con le nuvole. Anche quando Ghirri fotografava interni o oggetti (come nell’ambito delle sue copertine musicali), i toni restavano sommessi: il rosso di una bottiglia o il blu di una tovaglia appaiono appena suggeriti, come ricordi in controluce. I tecnicismi servono questo fine: filtri arancio o gialli in lente per tagliare parte della luce, o pellicole instancabilmente sottoesposte di un terzo di stop, se la scena è particolarmente luminosa. Tutto converge verso un unico scopo estetico, l’inquadratura dominata dalla malinconia di colore.
Così la luce naturale, filtrata da nuvole basse o smorzata dall’umidità padana, e il colore attenuato diventano strumenti narrativi. Essi trasportano lo spettatore in una dimensione umorale: guardando una foto di Ghirri, sembra sempre di ascoltare un’aria tenue di Lucio Dalla in sottofondo (già che lavorò alle copertine dei suoi dischi). La fotografia, per Ghirri, non è mai «solo rappresentazione del reale», ma una forma di poesia visiva in cui luce e colore scrivono versi fatti di sfumature. L’assenza di saturazione è una scelta precisa: quell’assenza che — contrariamente al senso comune — riempie l’inquadratura di sentimenti latenti.
Spazio e composizione: l’armonia nell’assenza
Anche la composizione in Ghirri segue logiche anticonvenzionali, improntate all’armonia del vuoto. Invece di riempire la scena con soggetti “forti”, spesso inquadra grandi spazi vuoti a fianco di piccoli dettagli scrupolosamente posti. Immaginiamo una strada polverosa: spesso Ghirri lascia un ampio spazio laterale libero, mentre un minuscolo dettaglio – un pezzo di filo spinato, un cartello di cartone, la sagoma di un’auto lontana – viene accentuato. Questo uso dello spazio negativo rende i suoi scatti simmetrici e quieti, ma anche ambigui: lo sguardo vaga nel vuoto cercando un senso. La tecnica dietro è molto misurata: per esempio, tende a mantenere l’orizzonte quasi al centro o molto basso nel fotogramma, per dilatare la parte superiore e rendere il cielo protagonista silenzioso.
Nei dettagli la sua inquadratura diventa iper-centrata: può isolare uno specchio appeso al muro di un bar e fare in modo che rifletta una striscia di cielo, o può riprendere da vicino un vetro di finestra incrinato, lasciando fuori fuoco tutto il resto. La fotografia si fa così come una miniatura: ogni elemento viene bilanciato per creare un quadro contemplativo, dove la forma e la geometria degli oggetti (un cartellone, una griglia metallica, un campo color sabbia) si confrontano con l’assenza di soggetti umani.
Un episodio ricorrente nelle sue serie è la cosiddetta “fotografia nella fotografia”: Ghirri amava immortalare manifesti o quadri in paesaggio. Nella serie Paesaggi di cartone (anni ’70) fotografava, per esempio, i paesaggi dipinti sui grandi cartelloni pubblicitari; in Atlante (1973) ingrandiva dettagli di carte geografiche stampate su riviste di viaggio. Attraverso questo stratagemma, anche il concetto di paesaggio diventa giocattolo e menzogna: Ghirri manda in crisi l’idea stessa di rappresentare la natura, mostrando come anche un disegno o una stampa possa diventare, per un attimo, paesaggio vero all’interno della sua fotografia.
Anche il modo di gestire gli oggetti è calibrato. In alcuni scatti solo una tazza, o un vaso, o una vecchia poltrona decentrata riempie quasi per intero l’inquadratura: il resto è spazio vuoto che ne amplifica la solitudine. Le linee orizzontali (un filo di luce, una recinzione) compongono insieme triangoli invisibili con i bordi verticali del fotogramma, dando un senso di equilibrio statico. In altre immagini, angoli di strada o ombre diventano linee guida che portano lontano, come a suggerire all’osservatore di proseguire il proprio sguardo oltre la cornice. Ogni dettaglio è messo in risalto non per sé, ma per il vuoto che lo circonda. In questo modo la forma (case, recinzioni, segnaletica) non compete con una narrazione verbale: diventa essa stessa racconto, con gli elementi architettonici e naturali che dialogano in silenzio con l’assenza che li circonda.
Geografie interiori: la malinconia come segno
Se un tempo il paesaggio fotografico era celebrato come testimonianza visiva di un luogo, Ghirri lo trasforma in un laboratorio di emozioni. Le sue immagini più celebri sono come foto di un «mappe mentale»: ogni cornice evoca itinerari interiori e dimenticati. Laddove la mappa geografica indica strade e confini, Ghirri lascia indizi: un calendario steso al muro, un palloncino piatto per terra, il riflesso di alberi sulle pozzanghere – oggetti banali che nel suo scatto diventano simboli di una storia senza parole. La malinconia di un paesaggio dipende spesso da queste tracce cadute: l’assenza di automobili sui viali desolati, la solitudine di un campo di calcio abbandonato, l’aria ferma di una piazzetta nelle ore centrali.
L’artista stesso paragonò in un suo testo la malinconia all’attesa e alla noia necessaria che riempie il tempo. Nella fotografia questo concetto si traduce in un’attesa visiva: la foto non mostra il momento clou di un’azione, ma l’intervallo in cui l’attesa esiste. Guardando lo scatto di un campo sterrato al crepuscolo, percepiamo il fruscio del vento e il calore del giorno che ormai scivola; nella foto di una facciata di fabbrica al tramonto intravediamo l’odore della polvere dell’estate scorsa. In questo modo ogni scatto sembra invitare il pubblico a completarlo con i propri ricordi: l’immagine è una tela bianca su cui proiettiamo l’esperienza di un tempo passato.
Si può dire che Ghirri fotografi la memoria più che il paesaggio fisico: ogni soggetto colpisce per l’eco mnemonico che rilascia. Per esempio, molte sue scene in riva al mare o sul lago hanno uno sfondo irreale, come se fossero riprese da un sogno d’infanzia. Lontano dal flash dell’istantanea turistica, la sua macchina interpreta ogni scorcio come se fosse già coperto di polvere del tempo. I colori sbiaditi non sono solo scelta estetica, ma appunto il colore di una storia passata: i rossi, i blu, gli ocra sono sbiancati come vecchie fotografie in famiglia. L’effetto complessivo è che lo spettatore percepisce di trovarsi non tanto in un luogo, quanto in un momento – uno sguardo nel passato, collocato in un futuro che si confonde col presente.
Questa fotografia, quindi, non è documentazione oggettiva ma esperienza soggettiva. Ghirri ricuce nella composizione elementi sparsi della cultura e del vissuto italiano: cartoni della Ferrero, un poster di Fellini, un paio di scarpe lasciate accanto a una porta – ogni pezzo ha un significato culturale e personale. La geografia che ricostruisce non è di punti cardinali, ma di affetti e assenze: è l’idea di un’Italia della vita quotidiana, oggi in parte svanita, di cui rimangono soltanto le ombre. La malinconia emerge così come l’indizio che siamo stati altrove – non nella cartolina turistica, ma nella quotidianità sottile. E l’assenza che riempie la fotografia è esattamente questo: la presenza mentale di un mondo semplice che Ghirri ci ricorda non esistere più.
Serie emblematiche: frammenti di mondo in una fotografia
Nella sua opera sono numerose le serie che incarnano questi concetti. In Atlante (1973), ad esempio, Luigi Ghirri fotografa dettagli di carte geografiche prese da veri atlanti. Qui il viaggio diventa paradossale: l’Italia non è rappresentata come paesaggio vero, ma come immagine di una mappa da legatoria. In queste foto si vede chiaramente la sua riflessione meta-fotografica: l’oggetto dell’immagine (la carta geografica) si sdoppia in soggetto ripreso. Le linee stradali e i nomi di paesi appaiono surreali e ingigantiti, come se stessi osservando la geografia di un paese che esiste solo nell’immaginazione.
Anche la serie Kodachrome (anni ’70) testimonia lo sguardo di Ghirri sull’Italia. Scattata su pellicola a colori di gamma cinematografica, questa raccolta di fotografie coglie scorci di paesaggi italiani in colori sbiaditi. L’effetto è quello di pellicole di famiglia invecchiate: un gruppo di case giallognole sotto il tramonto, colline spoglie, strade secondarie con un veicolo che sfuma lontano. Tutti gli scatti di Kodachrome sono incentrati su un’idea di assenza di epica, ma su un’intensa carica emotiva. Così come Infinito (1980-81) è una serie di immagini quotidiane del cielo che scorrono per un anno: piccole foto del cielo viste dalla finestra del suo studio, che insieme formano un grande racconto del tempo che scorre senza voci umane, solo nuvole e luce mutevole.
Non meno evocative sono le sue fotografie di interni domestici, come quelle nell’album Vie d’Appartamento o le copertine di dischi che realizzò. Anche qui il soggetto è semplicissimo: una lampada accesa in un angolo, una tazzina di caffè rimasta sul tavolo o una mano indistinta appoggiata su un mobilio. Ma l’inquadratura attribuisce anche a questi oggetti di uso comune un’aura misteriosa. Tutto è in scala umana ma con un tocco di irreale: può capitare che un campo di granoturco fotografato in controluce assomigli a un paesaggio pittorico, o che un’intercapedine in un muro diventi un orizzonte sul quale proiettare i propri pensieri.
Tra i progetti collettivi cui Ghirri partecipò, vale la pena menzionare Esplorazioni sulla Via Emilia (1986), dove riprende alcuni scorci dell’antica strada romana che taglia l’Emilia. Anche in questo caso non cerca monumenti storici, bensì città fantasma, incroci anonimi, fabbriche spente: le fotografie rimandano una sensazione di lenta decadenza e quiete, con una luce desaturata che sovrasta ogni cosa.
In sintesi, ogni serie di Ghirri è un tassello di un grande mosaico visivo: un racconto collettivo fatto di frammenti di mondo. Atlante, Kodachrome, Infinito, ma anche Vedute (gli scorci urbani) e Il profilo delle nuvole – tutte queste raccolte riflettono pezzi diversi di un discorso unico. E questo discorso è appunto la malinconia del paesaggio italiano, raccontata in modo discreto ma assolutamente coerente attraverso decine di immagini.
L’arte del dubbio: un invito a guardare oltre
Guardando le fotografie di Luigi Ghirri non si trova mai la facile chiarezza di un reportage in bianco e nero: c’è sempre qualcosa di indefinito, un accenno che tarda a manifestarsi. Il paesaggio che riempie l’inquadratura con la sua stessa assenza ci invita a portare i nostri occhi oltre la superficie. È quest’arte del dubbio, come direbbe Ghirri, a rendere straordinaria ogni sua composizione: ogni elemento suggerisce altro, come una parola sussurrata in un angolo dell’inquadratura.
Per questo, dopo anni di mostre e retrospettive dedicate, il pubblico è oggi chiamato non tanto a vedere “cosa” egli ha fotografato, ma “come” egli ci chiede di guardare. In un’epoca di immagini sempre più “risolute” e appariscenti, Ghirri propone la lente sfocata del dubbio: invita lo spettatore a percorrere un paesaggio mentale, dove l’assenza è la base su cui ognuno può costruire la propria narrazione. Come faceva il pittore Giorgio Morandi con i suoi oggetti, Ghirri ci spinge a concentrarci sui dettagli impercettibili, sulle sfumature impermanenti. Ci insegna che la realtà fotografica non è mai tutta di un colpo, ma si svela a poco a poco, invitandoci a diventare co-autori dell’immagine.
Il percorso che ci offre Ghirri è dunque un viaggio senza meta precisa. La sua eredità non si esaurisce in “cosa ci ha lasciato” (così come non ha tesi da portare a termine) ma in come ci ha insegnato a guardare. Ogni foto è un attestato del potere della lentezza: lo scatto è un’analisi, la visione è dilatata, l’osservatore è partecipe. L’assenza che riempie il fotogramma, in finale, diventa presenza attiva nella mente di chi guarda: è come un invito sottile a percepire l’invisibile, a colmare con i propri ricordi gli spazi lasciati vuoti.
Così, mentre scorriamo con lo sguardo un vecchio ingresso di provincia o un campo assolato, ci ritroviamo a sentire la nostalgia di qualcosa che non siamo mai riusciti a vedere davvero. Ed è proprio questo meccanismo emotivo quello che Luigi Ghirri ha svelato: la fotografia come specchio dell’anima, dove l’assenza si trasforma in materia poetica, e il paesaggio italiano emerge, dolorosamente, nella sua più autentica bellezza malinconica.

Mi chiamo Giorgio Andreoli, ho 55 anni e da sempre affianco alla mia carriera da manager una profonda passione per la fotografia. Scattare immagini è per me molto più di un hobby: è un modo per osservare il mondo con occhi diversi, per cogliere dettagli che spesso sfuggono nella frenesia quotidiana. Amo la fotografia analogica tanto quanto quella digitale, e nel corso degli anni ho accumulato esperienza sia sul campo sia nello studio della storia della fotografia, delle sue tecniche e dei suoi protagonisti. Su storiadellafotografia.com condivido riflessioni, analisi e racconti che nascono dal connubio tra approccio pratico e visione storica, con l’intento di avvicinare lettori curiosi e appassionati a questo straordinario linguaggio visivo.