Il formato 127 fu introdotto da Eastman Kodak nel 1912, in concomitanza con il lancio della fotocamera Vest Pocket Kodak. Questo nuovo tipo di pellicola, largo 46 mm, era progettato per offrire una soluzione più compatta rispetto al formato 120, mantenendo comunque una qualità d’immagine superiore rispetto al nascente formato 35 mm. La pellicola 127 era avvolta su bobine e dotata di una carta protettiva con numeri stampati per facilitare l’avanzamento manuale del film.
Nel 1912 Eastman Kodak rivoluzionò il mercato fotografico lanciando la pellicola a rullo 127, un supporto fotografico largo 46 millimetri avvolto su bobine protette da un sottile strato di carta numerata. L’idea nacque dalla necessità di offrire un’alternativa più compatta e maneggevole rispetto all’ingombrante pellicola 120, pur mantenendo una qualità superiore al nascente formato 35 mm. In contemporanea Kodak presentò la Vest Pocket Kodak, una fotocamera pieghevole in metallo leggero che, ripiegata, stava comodamente in tasca. Da chiusa, misurava meno di 10 cm di larghezza e 3 cm di spessore, mentre aperta si trasformava in una macchina capace di produrre otto fotografie in formato 4×6,5 cm.
Il meccanismo di avanzamento del film era completamente manuale: il fotografo ruotava una corona laterale, mentre attraverso una piccola finestra con vetro rosso si leggevano i numeri stampati sulla carta di protezione, evitando di sovrapporre le esposizioni. La finestra rossa, pur limitando leggermente la visibilità dei numeri negli interni, garantiva che la luce bianca non impressionasse il film sensibile durante la rivelazione del conteggio. Questa soluzione, semplice e ingegnosa, rese la fotocamera immediatamente popolare tra i viaggiatori, i soldati in prima linea e gli amatori che desideravano portare con sé uno strumento discreto ma affidabile.
Dal punto di vista ottico, la Vest Pocket Kodak montava un obiettivo menisco con lunghezza focale pari a circa 100 mm e apertura massima f/11. Tale configurazione offriva un campo visivo moderatamente stretto, adatto a ritratti e vedute, ma richiedeva tempi di posa dell’ordine di 1/25–1/50 secondi in condizioni di luce piena. L’otturatore, meccanico a tendina di tessuto nero, era calibrato su una sola velocità, a cui si aggiungeva una posizione “B” per esposizioni lunghe. La messa a fuoco era prefissata su 3 metri, con una profondità di campo abbastanza ampia da garantire nitidezza da 2 metri fino all’infinito; questo semplificava l’uso per chi non possedeva un mirino di precisione.
Il supporto in carta numerata non era soltanto un espediente di conteggio: la carta dava struttura meccanica al rullo e proteggeva il film durante le fasi di caricamento e scaricamento, riducendo il rischio di pieghe o strappi. All’interno della bobina, la pellicola era avvolta in modo da non aderire alle pareti metalliche, permettendo un passaggio fluido e costante. Gli ingegneri Kodak sperimentarono diversi grammature di carta e contrasti di stampa della numerazione fino a trovare un compromesso che non interferisse con la sensibilità alla luce, pur rimanendo leggibile anche sotto forte illuminazione.
Quest’abbinamento di pellicola 127 e fotocamera tascabile sancì un cambiamento di paradigma: la fotografia non era più prerogativa di professionisti o di costose apparecchiature da studio, ma uno strumento portatile, alla portata di chiunque volesse fermare un attimo, un volto o un paesaggio nelle proprie mani.
Varianti del formato e adattamenti alle esigenze del mercato
Nei decenni successivi alla sua introduzione la pellicola 127 vide nascere diverse varianti per rispondere alle mutate esigenze dei fotografi. Il modello originale prevedeva otto esposizioni di 4×6,5 cm, ma la crescente domanda di più fotogrammi per rullino portò Kodak e altri produttori a modificare le dimensioni dell’immagine. Nacquero così versioni che consentivano dodici esposizioni di 4×4 cm, ideali per produzioni diapositive quadrate da proiettare con standard da 35 mm, e perfette per i modelli Twin-Lens Reflex (TLR) compatti. La Rolleiflex Baby e la Yashica 44 divennero esempi celebri di questa evoluzione, offrendo immagini quadrate nitide, grazie a lenti acromatiche a due elementi con apertura fissa o regolabile, e sistemi di messa a fuoco basati su schermi smerigliati.
In parallelo, per venire incontro alla necessità di massimizzare il numero di scatti durante i periodi di ristrettezze economiche, come la Grande Depressione, sorsero fotocamere che sfruttavano fino a sedici esposizioni da 3×4 cm per rullino. La Zeiss Ikon Kolibri, ad esempio, impiegava un otturatore Lamphouse con velocità multiple (1/25, 1/50, 1/100 secondi) e un obiettivo Tessar 4 elementi, permettendo al contempo una resa sorprendentemente nitida nonostante il piccolo formato del fotogramma. La Kolibri montava anche un mirino telescopico laterale con paraluce, migliorando la precisione dell’inquadratura.
Il fenomeno Autographic, introdotto da Kodak negli anni Venti, fece parte di queste varianti: una finestra supplementare dietro cui si poteva inserire una matita da grafite per scrivere note direttamente sulla carta di protezione, imprimendo sulla pellicola un breve testo o una data. Il sistema prevedeva un piccolo sportellino apribile esternamente, che metteva in contatto la punta della matita con la carta. Sebbene affascinante, il procedimento si diffuse in modo limitato a causa del rischio di graffiare la carta protettiva e della complessità aggiuntiva nel design delle fotocamere. Rimasero celebri alcuni esempi di rullini Autographic conservati in collezioni private, che riportano commenti manoscritti sulle condizioni di scatto, cosa mai vista in altri formati fino ad allora.
Le fotocamere italiane ed europee per il 127
Sul mercato europeo si affermarono oltre ai modelli tedeschi Zeiss Ikon e i britannici Kodak, anche numerosi costruttori italiani come Bencini e Ferrania. La serie Bencini Comet, prodotta in Italia negli anni Cinquanta, propose un corpo in baquelite, leggero ed economico, con obiettivo menisco da 75 mm f/16 e otturatore rotante a piattelli in acciaio, capace di due velocità (1/40 e 1/100 sec). La Comet non disponeva di messa a fuoco regolabile, ma sfruttava una spaziatura fissa di 3 metri e un diaframma ridotto per garantire una profondità di campo che andava da 2 metri all’infinito.
Ferrania, forte della tradizione cinematografica italiana, produceva pellicole 127 con emulsioni pancromatiche, sensibili all’intero spettro visibile, a differenza delle emulsioni ortocromatiche di prima generazione, che ignoravano le lunghezze d’onda rosse. Questo consentiva una resa tonale più equilibrata nei soggetti in controluce e nelle scene all’aperto, dove il sole caldo tendeva a sovresporre i toni azzurri e a schiarire il cielo. Le pellicole Ferrania erano spesso vendute in confezioni multiple, con sensibilità indicate in ASA 80, un buon compromesso tra grana e velocità, e venivano impiegate occasionalmente anche da operatori cinematografici per riprese sperimentali.
In Germania, oltre alla Kolibri, Zeiss Ikon mise in commercio la Ikonta 127, un modello pieghevole con doppio otturatore Compur e obiettivo Novar 3,5 elementi. La Ikonta offriva tempi da 1 sec a 1/300 sec, regolazioni di diaframma da f/4,5 a f/22 e un robusto sistema di messa a fuoco a soffietto. Queste caratteristiche tecniche di livello professionale resero la Ikonta 127 uno strumento ambito non solo dagli amatori evoluti ma anche da photojournalist che necessitavano di una macchina compatta ma versatile.
Specifiche tecniche, qualità dell’immagine e declino del formato
Dal punto di vista meccanico, la pellicola 127 richiedeva controlli manuali su esposizione e messa a fuoco: il fotografo doveva stimare o misurare la luce con un esposimetro esterno o affidarsi a tabelle suggerite dalle case costruttrici. Le ottiche, sebbene spesso semplificate rispetto ai grandi formati, beneficiavano di lenti con trattamento antiriflesso multicouche solo a partire dai tardi anni Cinquanta, quando la tecnologia a base di composti all’ossido di cerio fu applicata alle superfici in vetro.
Le immagini 4×6,5 cm offrivano un dettaglio di gran lunga superiore alle diapositive da 35 mm e persino alle stampe da 4×4 cm, grazie alla maggiore area di impressione e a un minore ingrandimento richiesto in fase di sviluppo o proiezione. Gli ingranditori progettati per il formato 127 erano dotati di condensatori a Fresnel e di filtri di contrasto, che permettevano di regolare la finezza dei grani e il contrasto tonale in fase di stampa. Gli appassionati di camera oscura sviluppavano le pellicole in bagni di sviluppo acido o alcalino, utilizzando metol‑idrochinone o D‑76, a seconda delle preferenze di grana e velocità di sviluppo.
Il declino del formato iniziò con l’introduzione delle cartucce 126 nel 1963 e delle 110 nel 1972, entrambe dotate di caricamento semplificato e rulli già in cassette protette. I vantaggi di comodità superarono ben presto quelli di qualità: il caricamento senza dover aprire il dorso della fotocamera ridusse drasticamente il rischio di luce parassita, e le nuove pellicole tendevano a restare nei laboratori per mesi senza deteriorarsi, grazie a emulsionamenti più stabili. Contemporaneamente, il 35 mm continuò a migliorare in nitidezza e resa cromatica, sfruttando obiettivi con diaframmi rapidi (f/2–f/1.4) e otturatori a tendina metallica con sincronizzazione flash fino a 1/250 sec.
Eastman Kodak interruppe la produzione di pellicola 127 nel 1995, dopo oltre ottanta anni di vita commerciale. Alcuni produttori di nicchia, come Rollei e Adox, decisero di mantenere una produzione limitata per soddisfare i collezionisti e gli appassionati di tecniche analogiche classiche. Il costo elevato delle bobine e la distribuzione limitata ne hanno tuttavia ridotto l’uso principalmente a sperimentazioni artistiche, a produzioni cinematografiche in pellicola dietro alla porta e a workshop di camera oscura vintage.
La rinascita degli appassionati e le tecniche di ricarica
Nonostante tutto, la pellicola 127 conserva un fascino particolare: la sua compattezza e la qualità d’immagine attraggono ancora fotografi appassionati di fotografia analogica. La tecnica di ricarica manuale consiste nel tagliare pellicola 120 in strisce da 46 mm, sagomare l’estremità per adattarla alla bobina 127 e riavvolgere il film in camera oscura su un nucleo metallico di recupero. Successivamente si avvolge la striscia con carta numerata autocostruita e si inserisce il rullo in una vecchia fotocamera predisposta. Una procedura non banale, che richiede precisione millimetrica per la giusta tensione del film e l’allineamento delle marcature di conteggio.
Alcuni laboratori indipendenti offrono un servizio di ricarica professionale, utilizzando pellicole 120 originali e bobine rigenerate, con garanzie sulla lunghezza del rullo e la stabilità delle emulsioni. Questa pratica ha permesso di mantenere attive le fotocamere 127 in mano a collezionisti e utenti che amano il gesto artigianale del caricamento e lo scatto “a sensazione”, lontano dalla velocità del digitale.
Gli appassionati organizzano raduni e workshop in antichi laboratori, dove si confrontano sulle migliori ricette di sviluppo e sulle modalità di scanning a tamburo per digitalizzare i negativi 127 con altissima risoluzione. Le stampe da tali negativi, ingrandite fino a dimensioni di 30×40 cm, mostrano una tridimensionalità e una morbidezza di grana difficili da ottenere con altri formati.
Il formato originale prevedeva otto esposizioni di dimensioni 4×6,5 cm, ma nel corso degli anni furono introdotte varianti che permettevano 12 esposizioni da 4×4 cm o 16 da 3×4 cm, per adattarsi alle esigenze dei consumatori e alle innovazioni delle fotocamere. Negli anni ’30, durante la Grande Depressione, la necessità di economizzare portò alla diffusione di fotocamere che sfruttavano al massimo la pellicola, come la Zeiss Ikon Kolibri, che offriva 16 esposizioni per rullino.
Una caratteristica distintiva delle prime pellicole 127 fu l’introduzione della funzione Autographic da parte di Kodak, che permetteva ai fotografi di scrivere annotazioni direttamente sulla pellicola attraverso una finestra speciale nella fotocamera. Questa innovazione, sebbene affascinante, ebbe una diffusione limitata e fu presto abbandonata.
Evoluzione delle fotocamere 127
Le prime fotocamere progettate per il formato 127 erano prevalentemente modelli pieghevoli, come la Vest Pocket Kodak, che offrivano portabilità e facilità d’uso. Negli anni successivi, il formato 127 fu adottato da numerosi produttori, portando alla creazione di una vasta gamma di fotocamere, dalle più semplici alle più sofisticate.
Negli anni ’50, il formato 127 conobbe una nuova popolarità grazie alla produzione di fotocamere Twin-Lens Reflex (TLR) compatte, come la Rolleiflex Baby e la Yashica 44. Queste fotocamere utilizzavano la pellicola 127 per produrre immagini quadrate da 4×4 cm, note come Superslide, che potevano essere proiettate utilizzando proiettori standard per diapositive da 35 mm, offrendo una qualità superiore.
Parallelamente, furono introdotte fotocamere più economiche e semplici, destinate al grande pubblico. Un esempio emblematico è la Kodak Brownie 127, lanciata nel 1952, che divenne estremamente popolare grazie alla sua semplicità d’uso e al prezzo accessibile. Dotata di un obiettivo menisco da 65 mm f/14 e un otturatore a singola velocità di 1/50 sec, la Brownie 127 fu prodotta in milioni di esemplari e contribuì significativamente alla diffusione della fotografia amatoriale.
Altri produttori, come Bencini con la serie Comet, Zeiss Ikon con la Kolibri, e Detrola, contribuirono alla diversificazione dell’offerta di fotocamere 127, proponendo modelli con caratteristiche tecniche e design differenti, per soddisfare le varie esigenze dei fotografi.
Specifiche tecniche e varianti del formato 127
La pellicola 127 è una pellicola in rullo con supporto cartaceo, larga 46 mm. A seconda della fotocamera utilizzata, poteva produrre negativi di diverse dimensioni:
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4×6,5 cm: formato originale, otto esposizioni per rullino.
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4×4 cm: dodici esposizioni, utilizzato principalmente nelle fotocamere TLR compatte.
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3×4 cm: sedici esposizioni, introdotto per massimizzare l’efficienza durante periodi di crisi economica.
Le fotocamere 127 variavano notevolmente in termini di caratteristiche tecniche. Alcune offrivano controlli manuali per l’esposizione, obiettivi intercambiabili e mirini sofisticati, mentre altre erano progettate per la massima semplicità, con messa a fuoco fissa e otturatori a velocità singola.
Un aspetto interessante del formato 127 era la possibilità di ottenere diapositive di alta qualità, note come Superslide, che, grazie alle dimensioni maggiori rispetto alle diapositive da 35 mm, offrivano una resa visiva superiore, particolarmente apprezzata per le proiezioni.
Declino e produzione attuale della pellicola 127
Nonostante la popolarità raggiunta, il formato 127 iniziò a declinare con l’avvento di formati più pratici e automatizzati. Nel 1963, Kodak introdusse il formato 126, seguito nel 1972 dal 110, entrambi caratterizzati da cartucce pre-caricate che semplificavano notevolmente il caricamento della pellicola nelle fotocamere. Queste innovazioni, unite alla crescente diffusione delle fotocamere 35 mm, portarono a una progressiva diminuzione dell’interesse per il formato 127. La produzione di pellicola 127 da parte di Kodak cessò definitivamente nel 1995.
Tuttavia, il formato 127 non è scomparso del tutto. Alcuni produttori indipendenti, come Rollei, continuano a offrire pellicole 127, sebbene in quantità limitate e a prezzi più elevati. Inoltre, è possibile trovare pellicole 127 scadute o ricaricate manualmente da appassionati, che utilizzano pellicole 120 tagliate e riavvolte su bobine 127. Queste pratiche richiedono una certa esperienza e attenzione, ma permettono agli appassionati di continuare a utilizzare le loro fotocamere vintage.
Articolo aggiornato Luglio 2025

Sono Manuela, autrice e amministratrice del sito web www.storiadellafotografia.com. La mia passione per la fotografia è nata molti anni fa, e da allora ho dedicato la mia vita professionale a esplorare e condividere la sua storia affascinante.
Con una solida formazione accademica in storia dell’arte, ho sviluppato una profonda comprensione delle intersezioni tra fotografia, cultura e società. Credo fermamente che la fotografia non sia solo una forma d’arte, ma anche un potente strumento di comunicazione e un prezioso archivio della nostra memoria collettiva.
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