L’incontro tra fotografia e pubblica amministrazione si colloca già a partire dalla metà del XIX secolo, in un’epoca in cui gli Stati europei e le nuove realtà nazionali avevano un crescente bisogno di strumenti di documentazione visiva per sostenere le attività di governo, pianificazione e controllo del territorio. La fotografia, nata ufficialmente nel 1839 con l’annuncio del dagherrotipo da parte di Louis Daguerre e dello sviluppo parallelo dei procedimenti su carta di William Henry Fox Talbot, offriva un mezzo di rappresentazione in grado di garantire un livello di oggettività e di precisione tecnica non raggiungibile dalle tecniche tradizionali del disegno e dell’incisione.
Le prime sperimentazioni nell’uso della fotografia a fini amministrativi si concentrarono sull’archiviazione di monumenti e beni culturali, promossa da governi come quello francese, che nel 1851 avviò la celebre Mission Héliographique. Il Ministero dell’Interno francese incaricò fotografi come Édouard Baldus e Gustave Le Gray di documentare con precisione le condizioni delle cattedrali e degli edifici storici del paese. Questo modello dimostrò subito la validità della fotografia quale strumento di ispezione tecnica e di catalogazione sistematica a supporto della pubblica amministrazione.
Parallelamente, la fotografia iniziò a essere impiegata anche per i rilievi catastali e i censimenti edilizi. Nella seconda metà dell’Ottocento, molti governi europei compresero che la rappresentazione fotografica dei centri urbani, degli edifici pubblici e delle infrastrutture era uno strumento prezioso per la gestione amministrativa e per la pianificazione urbanistica. Le fotografie venivano spesso incollate direttamente su registri cartacei o album ufficiali, corredate da descrizioni testuali, dando origine a un formato di archivio visivo che avrebbe avuto grande diffusione nei decenni successivi.
Un altro ambito in cui la fotografia si impose fu quello del censimento della popolazione. L’associazione tra schedatura anagrafica e ritratto fotografico permise di introdurre una nuova forma di controllo visivo. Già negli anni 1870 si svilupparono metodi di antropometria fotografica per l’identificazione dei cittadini e dei detenuti, culminati con il sistema di Alphonse Bertillon in Francia, che integrava fotografie segnaletiche frontali e di profilo. Anche se destinato in primo luogo alla polizia, questo sistema trovò applicazioni più ampie nelle strutture amministrative, rafforzando il legame tra fotografia e gestione burocratica.
In Italia, la progressiva unificazione nazionale creò la necessità di censimenti capillari e di un rilevamento sistematico dei beni pubblici. Fotografi incaricati da ministeri e prefetture produssero serie di immagini relative a infrastrutture ferroviarie, ponti, scuole e ospedali, contribuendo alla formazione di un linguaggio visivo istituzionale basato sulla chiarezza e sull’assenza di elementi artistici superflui. L’obiettivo non era estetico ma strettamente funzionale: la fotografia diventava un atto amministrativo, al pari della redazione di un verbale o di un disegno tecnico.
La nascita della fotografia su supporto negativo-positivo, in particolare il collodio umido e poi la gelatina bromuro d’argento, rese possibile la riproducibilità delle immagini e la loro diffusione presso diversi uffici dello Stato. Questo aspetto tecnico favorì la creazione di archivi centralizzati che potevano essere consultati da più sezioni amministrative, stabilendo così un modello che sarebbe stato ripreso e ampliato nel corso del XX secolo.
Archivi fotografici istituzionali e catalogazione
Con l’inizio del Novecento la fotografia entrò stabilmente nei processi di archiviazione documentale delle amministrazioni pubbliche. La costituzione di archivi fotografici istituzionali divenne una pratica consolidata in molti Paesi, finalizzata a garantire la conservazione sistematica delle immagini prodotte dagli uffici tecnici e dalle soprintendenze.
Gli archivi fotografici si distinguevano per una struttura molto simile a quella degli archivi cartacei: ogni immagine era corredata da schede descrittive che riportavano luogo, data, autore e circostanze di realizzazione. Questo consentiva una ricerca per parametri e una catalogazione uniforme. Alcuni archivi, come quello della Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti in Italia, avviato nei primi anni del Novecento, accumularono decine di migliaia di fotografie relative a monumenti, opere d’arte e siti archeologici, con finalità tanto di tutela quanto di controllo amministrativo.
Dal punto di vista tecnico, la standardizzazione della catalogazione fotografica richiese un lavoro complesso. Si adottarono formati uniformi, sia per le stampe fotografiche che per i supporti negativi. Le immagini erano spesso montate su cartoncini di dimensioni fisse, in modo da potersi integrare con facilità nei registri ufficiali. L’introduzione delle schede normalizzate consentì di unire testo e immagine in un unico supporto, precorrendo soluzioni oggi familiari negli archivi digitali.
In parallelo, le tecniche fotografiche si evolsero. L’uso del formato medio e grande con lastre di vetro al bromuro d’argento garantiva una qualità elevata e una resa dettagliata, indispensabile per finalità amministrative. La nitidezza e la stabilità dell’immagine erano considerate fattori essenziali per la conservazione a lungo termine e per la possibilità di ingrandimenti utili a valutazioni tecniche. Molti archivi ministeriali imposero requisiti specifici sulla qualità delle fotografie consegnate, stabilendo veri e propri standard amministrativi della fotografia.
Gli archivi fotografici della pubblica amministrazione non riguardavano solo i beni culturali ma anche le opere pubbliche. In occasione della costruzione di dighe, strade, acquedotti e complessi industriali, le fotografie costituivano la documentazione ufficiale dello stato dei lavori, delle varianti progettuali e delle verifiche tecniche. In questo senso, la fotografia svolgeva un ruolo simile a quello di una perizia visiva, certificata e archiviata con valore probatorio.
Le modalità di consultazione di questi archivi erano inizialmente ristrette agli uffici amministrativi, ma con il tempo si aprirono anche a studiosi e professionisti, che vi riconobbero un valore documentale e storico. Questa duplice funzione, al tempo stesso tecnica e culturale, fece sì che molti archivi fotografici pubblici costituissero la base per istituzioni museali e centri di ricerca storica nel corso del XX secolo.
Fotografia e censimenti: la schedatura visiva
Uno degli aspetti più caratteristici dell’uso della fotografia nella pubblica amministrazione riguarda i censimenti e la schedatura visiva della popolazione. La progressiva burocratizzazione degli Stati moderni rese indispensabile associare a ogni individuo un’identità verificabile e univoca, e la fotografia apparve immediatamente come lo strumento ideale per rafforzare i sistemi di registrazione anagrafica.
Il caso più emblematico è quello della fotografia segnaletica, sviluppata tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Il metodo di Alphonse Bertillon, basato sulla combinazione di misurazioni antropometriche e fotografie standardizzate, rappresentò un modello per molte amministrazioni pubbliche europee e americane. Il formato della doppia fotografia – frontale e di profilo – si impose come convenzione visiva, destinata a entrare stabilmente negli archivi di polizia e, con il tempo, anche nei registri civili.
Questa pratica si estese ai documenti di identità, introdotti in vari Paesi all’inizio del XX secolo. La fotografia divenne parte integrante del documento, incollata e poi timbrata per evitarne la sostituzione fraudolenta. Tale innovazione rappresentò un salto tecnico fondamentale: la fotografia non era più solo una rappresentazione ma un elemento di validazione giuridica, che rafforzava la certezza anagrafica e riduceva il rischio di falsificazioni.
Il censimento fotografico si applicò anche a categorie specifiche della popolazione: lavoratori stranieri, militari, studenti. Le amministrazioni scolastiche adottarono la fotografia come parte della registrazione degli alunni, generando raccolte sistematiche che oggi costituiscono preziose fonti storiche. Allo stesso modo, i corpi militari produssero enormi quantità di ritratti fotografici individuali, collegati alle matricole e agli archivi di leva.
Dal punto di vista tecnico, queste fotografie erano generalmente eseguite con formati ridotti, spesso carte da visita o cabinet cards, successivamente standardizzati nelle dimensioni dei documenti ufficiali. Con l’avvento delle macchine fotografiche più maneggevoli, come le folding cameras a pellicola, le operazioni di schedatura si semplificarono e poterono essere condotte direttamente negli uffici senza la necessità di grandi apparecchiature.
Il legame tra fotografia e censimenti non fu solo amministrativo ma anche statistico. Le fotografie permettevano di integrare i dati numerici con rappresentazioni visive della popolazione, utili per analisi di tipo sociale e demografico. In alcuni casi, intere comunità vennero fotografate a corredo delle rilevazioni censuarie, producendo raccolte che oggi costituiscono testimonianze uniche della vita quotidiana di intere regioni.
Lavori pubblici e documentazione fotografica
Il settore dei lavori pubblici rappresenta probabilmente l’ambito in cui la fotografia si impose con maggiore forza all’interno della pubblica amministrazione. Fin dalla seconda metà dell’Ottocento, le grandi opere infrastrutturali – ferrovie, porti, canali – richiedevano un monitoraggio continuo e una documentazione accurata. La fotografia offriva una soluzione immediata, capace di fornire un riscontro oggettivo sullo stato di avanzamento dei lavori.
Le amministrazioni pubbliche stabilirono protocolli precisi per l’impiego della fotografia nei cantieri. Ogni fase significativa dell’opera veniva fotografata: tracciati in costruzione, ponti in fase di montaggio, dighe in corso di realizzazione. Queste immagini avevano un duplice valore. Da un lato costituivano un rapporto tecnico per i dirigenti e gli ingegneri, dall’altro fungevano da documentazione ufficiale per le autorità politiche e finanziarie che autorizzavano i progetti.
La qualità tecnica delle fotografie di lavori pubblici era particolarmente elevata. Si privilegiavano formati grandi e ottiche a lunga profondità di campo, per restituire con chiarezza sia i dettagli costruttivi sia il contesto ambientale. La stabilità dei supporti su lastra di vetro garantiva immagini nitide, in grado di resistere nel tempo senza significative alterazioni. Successivamente, con l’introduzione delle pellicole flessibili in nitrato e acetato, le amministrazioni poterono accumulare raccolte ancora più vaste, benché poste di fronte al problema della deperibilità chimica di questi materiali.
In Italia, il Ministero dei Lavori Pubblici istituì fin dal XIX secolo un servizio fotografico interno, incaricato di seguire sistematicamente i cantieri di ponti, strade, ferrovie e acquedotti. Analogamente, molte municipalità commissionarono campagne fotografiche per documentare la costruzione di edifici pubblici come scuole, caserme e ospedali. Queste campagne non erano concepite con finalità artistiche ma con una logica di verifica tecnica e di archiviazione amministrativa.
Il valore di queste fotografie si estese progressivamente anche all’ambito della comunicazione istituzionale. Molte immagini di lavori pubblici vennero infatti utilizzate in rapporti ufficiali, esposizioni universali e pubblicazioni ministeriali, assumendo la funzione di dimostrare l’efficienza e la modernità dello Stato. La fotografia, in questo senso, non era più soltanto un documento interno ma anche un mezzo di legittimazione politica, capace di mostrare visivamente i progressi ottenuti dall’amministrazione.
Dal punto di vista archivistico, le raccolte di fotografie di lavori pubblici si integrarono nei fondi ministeriali e municipali, spesso suddivise per tipologia di opera e per fase di realizzazione. Questa organizzazione rende ancora oggi possibile una lettura tecnica delle infrastrutture storiche, offrendo informazioni preziose non solo agli storici ma anche agli ingegneri e agli architetti impegnati in interventi di restauro e manutenzione.

Mi chiamo Maria Francia, ho 30 anni e sono una paesaggista con l’anima divisa tra natura e fotografia. Il mio lavoro mi ha insegnato a osservare il mondo con attenzione: le linee dell’orizzonte, i cambi di luce, la geometria naturale dei luoghi. Da qui è nata la mia passione per la fotografia, soprattutto per quella di paesaggio, che considero un’estensione del mio sguardo progettuale e sensibile. Amo raccontare lo spazio attraverso l’obiettivo, e nel farlo mi affascina conoscere chi, prima di me, ha saputo tradurre in immagine l’essenza di un territorio. Su storiadellafotografia.com esploro il dialogo tra ambiente, fotografia e memoria, cercando sempre di dare voce ai paesaggi, veri protagonisti silenziosi della nostra storia visiva.