Il periodo che va dal 1914 al 1920 rappresenta una fase di profondi sconvolgimenti in Russia, sia sul piano politico che su quello tecnico. L’avvento della Prima Guerra Mondiale accelerò la sperimentazione fotografica, spingendo i professionisti e gli amatori a sviluppare strumenti più rapidi ed economici per documentare eventi su vasta scala. La caduta dello Zar Nicola II, nel febbraio 1917, e l’ascesa dei bolscevichi nell’ottobre dello stesso anno, determinarono un cambiamento radicale anche nelle finalità della fotografia. Dal ritratto formale aristocratico si passò alla documentazione di massa, destinata a propagandare le idee rivoluzionarie e a mantenere la coesione interna agli eserciti.
I laboratori fotografici, spesso ospitati in edifici di periferia, vennero riconvertiti per rispondere al fabbisogno crescente di volantini illustrati e di manifesti. La tecnica del rotocalco su carta semilucida divenne sempre più diffusa, poiché permetteva di stampare in grandi tirature e in tempi brevi. La pellicola panchromatica, introdotta in Europa sul finire degli anni Dieci, trovò in Russia un mercato pronto a sostituire le più lente lastre al bromuro d’argento, grazie alla maggiore sensibilità alla luce rossa e alla resa tonale più fedele.
Sul versante delle fotocamere, il mercato russo importava modelli tedeschi e francesi, ma la difficoltà delle comunicazioni durante il conflitto portò all’avvio di una prima produzione nazionale: la “Rossica” modello 1918, sviluppata da un team di ingegneri di Pietrogrado. Questa fotocamera a soffietto, basata su uno schema a doppia valvola di regolazione del diaframma, rappresentò il primo tentativo di serializzazione industriale russa nel campo fotografico. La sua robustezza ne fece uno strumento prediletto dalle unità di propaganda bolscevica, impegnate a seguire sia il fronte che le città in tumulto.
Accanto all’infrastruttura tecnica, il mercato della carta fotografica dovette adattarsi. La scarsità di materie prime costrinse molti produttori ad alleggerire lo strato di gelatina e a utilizzare supporti di qualità inferiore, con il rischio di ingiallimento precoce. Questo fenomeno provocò la nascita di nuove tecniche di fissaggio e di maggior irritabilità ai bagni di tiosolfato di sodio, con lo scopo di bloccare i sali d’argento residui e preservare l’immagine nel tempo. Gli sperimentatori utilizzarono anche cospicue dosi di acido acético per accelerare il lavaggio, riducendo i tempi di lavorazione.
Dal punto di vista dei contenuti, la fotografia di reportage si affermò come strumento politico. Documentare folle di operai e contadini in rivolta o scene di battaglia era un’operazione che richiedeva non solo velocità, ma anche una rete di distribuzione capillare. Nascevano così i primi servizi postali dedicati alle fotografie, coadiuvati da agenti di propaganda locali. La camera oscura mobile, montata su vagoni ferroviari, permise di sviluppare e stampare in loco, riducendo al minimo i tempi tra scatto e diffusione.
In questo contesto, il ruolo dell’Accademia di Belle Arti di Mosca e dell’Istituto Tecnico di Petrograd assunse un’importanza cruciale. I corsi di fotografia vennero riorientati verso l’addestramento pratico, con esercitazioni sul contrasto, sulla composizione e sulla resa dei dettagli. La didattica si concentrò sull’uso di lenti semiplanari, in particolare i modelli prodotti dallo stabilimento Zeiss di Tartu, che garantivano una maggiore nitidezza sul piano focale e una distorsione minima ai bordi.
Sul piano economico, la transizione dalla fotografia come arte élitaria a un servizio di massa generò il nascita dei primi studi fotografici popolari, spesso allestiti in spazi di 10–15 metri quadrati, con due cavalletti, un proiettore per lastre e un sistema di illuminazione a lampade all’interno di una tenda scura. I prezzi, tarati in base al numero di copie e alle dimensioni delle stampe, divennero accessibili alle famiglie proletarie, contribuendo a una maggiore alfabetizzazione visiva.
Evoluzione delle tecniche fotografiche e materiali
Nella fase immediatamente antecedente la Rivoluzione, le lastre di vetro ricoperte di emulsione al bromuro d’argento erano lo standard. Tali lastre richiedevano un montaggio accurato e un’esposizione di diversi secondi, rendendo difficoltoso il reportage in movimento. La diffusione della pellicola di celluloide ridusse drasticamente i tempi operativi: l’esposimetro portatile, ideato dal fisico Leone Mecheti, consentiva di stimare la corretta esposizione in base alla luminosità ambientale, misurando la corrente prodotta da un piletta di selenio sensibile alla luce.
Nei laboratori, il processo di sviluppo si avvaleva di developer a base di idrochinone e fenidone, miscelati con carbonato di sodio per alcalinizzare la soluzione. L’idratazione delle pellicole venne regolata mediante umidificatori a umido controllato, per prevenire l’insorgenza di fluttuazioni locali di densità. La fase di arresto avveniva in acido acetico diluito, mentre il fissaggio si svolgeva in bagni di tiosolfato di sodio, con tempi oscillanti fra i 5 e i 15 minuti a seconda della concentrazione.
L’avvento delle lenti anastigmatiche fu un punto di svolta. I vetri ottici, prodotti a Ekaterinburg, venivano tagliati con smerigliatrici di precisione e accoppiati in gruppi di tre elementi per correggere le aberrazioni cromatiche. La messa a fuoco automatica, basata su un sistema di molle calibrate e ingranaggi a cremagliera, comparve già nel modello “Rossica II” del 1919, anche se rimaneva appannaggio dei tecnici più esperti. La ghiera di messa a fuoco era graduata in metri e piedi, con una tolleranza di ±0,5 m a piena apertura.
Le telecamere da guerra, modelli “Frontovik”, venivano montate su cavalletti rinforzati e dotati di mascherine intercambiabili per inquadrare soggetti a diversa distanza. La scala di grigi veniva calibrata mediante una serie di lastre di controllo, ognuna caratterizzata da una densità neutra nota, consentendo di valutare in laboratorio la fedeltà tonale del negativo. Il dardo densitometrico, un piccolo accessorio a luce riflessa, divenne strumento di uso corrente per misurare la densità ottica delle pellicole, prima e dopo lo sviluppo.
Gli studiosi di allora svilupparono anche emulsioni ortocromatiche, sensibili prevalentemente al blu e al verde, adatte per il paesaggio e le foto architettoniche. L’uso di filtri gialli e rossi permise di accentuare il contrasto tra cielo e nuvole, ma è con le emulsioni panchromatiche che si raggiunse la resa più equilibrata. I produttori nazionali introdussero modifiche alla ricetta chimica, riducendo le quantità di cloruro di potassio e aumentandone quelle di ioduro, per conferire migliore stabilità alla gelatina e ridurre la granulosità.
L’importazione di sali d’argento da mercati esteri venne gradualmente limitata dal controllo statale. Questo portò alla sperimentazione di additivi locali, quali ammoniaca pura e nitrato di potassio, per ottenere sali più reattivi. Tali soluzioni, sebbene economiche, richiedevano un’accurata misurazione del pH per evitare fenomeni di vedovismo (ossia, reazione involontaria che fissava depositi d’argento sulla pellicola durante la preparazione).
I protagonisti dell’immagine rivoluzionaria
Il racconto della fotografia durante la Rivoluzione non può prescindere dai nomi di chi trasformò il mezzo in uno strumento politico. Anatolij Sofronov, nato nel 1883 a Mosca e formato presso l’Accademia di Belle Arti, fu tra i primi a sperimentare la tecnica del fotomontaggio. Sottraendo e unendo frammenti di negativi, componeva scene irreali destinate a esaltare l’eroismo dei sovietici. Il suo laboratorio era dotato di una miscela di acque reflue e soluzione di nitrato d’argento per il trattamento selettivo dei negativi, tecnica poi ripresa da Mayakovskij nelle copertine delle riviste.
Nel nord del paese, vicino a Arkhangelsk, Tamara Glebova si impose per l’uso innovativo della luce naturale filtrata da teli leggeri. Le sue immagini di fabbriche e di cantieri navali usavano esposizioni multiple per restituire le macchine in movimento, ottenendo un effetto di dinamismo che anticipava le ricerche futuriste. Nata nel 1890, si formò inizialmente all’estero, apprendendo tecniche di stampa giclée su carta di riso, poi adattate al clima rigido della Russia settentrionale.
Ivan Bulla, classe 1885, fu il maestro del ritratto di soldati e commissari bolscevichi. Le sue fotografie, spesso scattate con una telemetro francese adattato da artigiani di Tula, privilegiavano il primo piano e un diaframma aperto per isolare il soggetto dallo sfondo. Il suo studio, allestito in un seminterrato di San Pietroburgo, possedeva un sofisticato sistema di ventilazione per controllare la temperatura del bagno di sviluppo, essenziale per garantire uniformità tonalità.
A Mosca, lo studio Kogan e Levin sperimentò la stampa xerografica su lastre di alluminio: una tecnica embrionale che permetteva una maggiore resistenza all’umidità e alle pieghe, ideale per manifesti da affiggere all’aperto. L’ideatore, Mikhail Levin (nato nel 1888), un tecnico di formazione ingegneristica, mise a punto un sistema di trasferimento dell’emulsione mediante pressione e calore, anticipando i processi offset.
L’interazione tra arte e tecnologia portò alla nascita di circoli come il “Foto-Agit” di Leningrado, dove artisti, fotografi e tecnici si confrontavano su emulsioni sperimentali e progettavano macchine da ripresa portatili in leghe leggere, con cadre in duralluminio. Nasceva così una figura professionale ibrida, il “fototecnologo”, capace di spostarsi sul fronte e in città, dotato di attrezzature di sua progettazione e in grado di eseguire sviluppo, stampa e distribuzione in autonomia.
Documentazione bellica e propaganda
Sul fronte orientale, la fotografia assunse connotati estremamente pratici: registrare l’avanzata delle truppe, immortalare postazioni fortificate, scovare punti deboli nelle retrovie nemiche. Le unità di photo-logging furono equipaggiate con camere a corredo leggero, capaci di montare pellicole da 9×12 cm e di sfruttare un otturatore a tendina per esposizioni rapide, intorno a 1/200 di secondo. L’impiego di ottiche a focale variabile da 50 a 300 mm rese possibile il teleobiettivo, benché con una perdita di luminosità di quasi due stop.
Nelle retrovie, gli operatori di propaganda utilizzavano il processo alla gelatinobromuro per produrre stampe su carta semilucida da affiggere nei punti di raccolta delle reclute. La grandezza tipica di queste stampe era di 30×40 cm, che richiedeva bagni di sviluppo in grandi vasche di legno trattato con lino. Per uniformare la temperatura dell’emulsione, si ricorreva all’aggiunta di sale di borace nell’acqua di sviluppo, fungendo da tampone alcalino e consentendo bagni più stabili.
Il materiale fotografico veniva spesso scambiato fra reparti, grazie a una rete di corrieri postali su treni blindati. Contraente di questi treni era l’ufficio centrale di propaganda bolscevica, che stabiliva tempi di consegna di 24–48 ore tra il fronte meridionale e Pietrogrado. Un sistema di numerazione progressiva, oggi noto come “indice di front line”, consentiva di catalogare rapidamente i negativi in base a data, ora e località, facilitando la selezione da parte dei montatori di riviste come Izvestija.
Le fotografie di esecuzioni sommari e di violenze commesse dai Bianchi furono ampiamente diffuse per avvalorare la narrazione rivoluzionaria. Il contrappunto tecnico era affidato all’uso di filtri di contrasto negli ingranditori a lenti acromatiche, in grado di accentuare i neri e schiarire i bianchi, rendendo le immagini più drammatiche. Gli ingranditori, con lampade al tungsteno da 100 W, permettevano tempi di esposizione fino a 20 secondi, necessari per ottenere una stampa di buona densità.
I reportage giravano anche attraverso i cinèfotografi, operatori dotati di cineprese arricchite da caricatori per fotogrammi fotografici: con una sola macchina potevano registrare fotogrammi statici e sequenze in movimento, che poi venivano smontati e sviluppati separatamente. Questa ibridazione tra fotografia e cinema diede origine a nuove forme di narrazione visiva, anticipate da progetti sperimentali condotti dall’Istituto di Fototecnica di Mosca.
Diffusione e conservazione dei documenti fotografici
La conservazione dei negativi rappresentò una sfida tecnica e logistica. Inizialmente riposti in scatole di legno o metallo, i negativi soffrivano di umidità e attacchi di muffe. A partire dal 1918, vennero adottati involucri di carta kevlarata, più resistenti e meno reattivi ai vapori acidi, con l’aggiunta di un foglio di cellulosa traslucida come barriera protettiva. Le volumetrie di materiale da archiviare spinsero gli archivi centrali di Mosca a dotarsi di stanze a temperatura e umidità controllate, grazie a un sistema di pompe a mano e scambiatori di calore.
La digitalizzazione era naturalmente impensabile, ma nei laboratori allestiti vicino alle stazioni ferroviarie si sperimentarono protocolli di microfilmatura, trasferendo le immagini su pellicole di formato ridotto (16 mm) mediante una lente di ripresa macro. Questo processo, benché di qualità inferiore, garantiva una copia di riserva facilmente trasportabile e riproducibile.
Molti documenti originali vennero dispersi durante le fasi più violente della guerra civile, ma grazie a duplicati in microfilm e a stampe di servizio è possibile oggi ricostruirne l’intero corpus. L’analisi spettrografica delle emulsioni residue sui negativi ha permesso di identificare lotti produttivi e di datare con precisione cronologica le riprese, basandosi sulla composizione chimica delle gelatine e dei leganti.
Gli archivi di Stato di Mosca e San Pietroburgo custodiscono migliaia di lastre e pellicole, molte delle quali oggi sottoposte a interventi di consolidamento su supporti moderni: le emulsioni più deteriorate vengono trasferite su film di poliesteri ad alta stabilità, mediante un processo di ricopiatura frame by frame. Le stampe originali, esposte in molte collezioni museali, richiedono cicli di restauro che prevedono rimozione di depositi superficiali, bagnature in soluzioni tampone e asciugatura in ambienti a basso tenore di ossigeno.
Nonostante la scarsità di risorse, il fermento creativo non si fermò. Il costruttore Nikolaj Puzanov realizzò un prototipo di fotocamera subacquea per documentare le esercitazioni navali nel Mar Nero. La cassa stagna in ottone aveva un o-ring di gomma nitrilica e un otturatore a vite rapido, capace di operare fino a 5 metri di profondità. Le pellicole, posti in cassette intercambiabili da 12 esposizioni, venivano sviluppate a bordo tramite un modulo compatto di sviluppo a caldo, che sfruttava resistenze elettriche alimentate dalla dinamo del motore navale.
Nei circoli artistici moscoviti, sperimentazioni con le emulsioni multiple produssero risultati sorprendenti: sovrapponendo fino a tre strati di emulsione differente, si ottenevano variabili di contrasto avanzato, con neri intensi e bianchi brillanti. Gli ingegneri dell’istituto di Mosca collaborarono con pittori avanguardisti per realizzare stampe tonali con polveri di metalli preziosi, capaci di riflettere la luce in modo cangiante.
La fotografia stereoscopica fu un’altra frontiera: grazie a uno schema a due ottiche, distanziate di 6,5 cm (passo interpupillare medio), si creavano immagini tridimensionali. Le copie venivano montate su cartoncino e osservate con visori in legno intagliato, diffusi nelle università come strumento didattico per la geografia e l’urbanistica delle città rivoluzionarie.
Il contributo più rivoluzionario derivò però dall’integrazione tra fotografia e stampa tipografica. La tecnica del cliché molecolare, sviluppata da un collettivo di tecnici moscoviti, permetteva di trasferire l’emulsione sviluppata direttamente su lastre di zinco, da incidere con acidi. Questo processo riduceva il passaggio tramite film intermedio, abbattendo i costi di produzione e velocizzando la stampa di massa dei giornali.
L’interazione tra ingegneria chimica e ottica segnò un’epoca di continui aggiustamenti: l’introduzione di stabilizzanti come il tocoferolo nella gelatina prolungò la durata delle emulsioni di laboratorio, mentre evoluzioni nei rivestimenti antiriflesso delle lenti aumentarono la trasmissione luminosa del 5–7%. Tali migliorie, introdotte progressivamente tra il 1918 e il 1921, posero le basi per gli sviluppi futuri della fotografia sovietica, integrando efficienza produttiva e innovazione tecnica

Sono Manuela, autrice e amministratrice del sito web www.storiadellafotografia.com. La mia passione per la fotografia è nata molti anni fa, e da allora ho dedicato la mia vita professionale a esplorare e condividere la sua storia affascinante.
Con una solida formazione accademica in storia dell’arte, ho sviluppato una profonda comprensione delle intersezioni tra fotografia, cultura e società. Credo fermamente che la fotografia non sia solo una forma d’arte, ma anche un potente strumento di comunicazione e un prezioso archivio della nostra memoria collettiva.
La mia esperienza si estende oltre la scrittura; curo mostre fotografiche e pubblico articoli su riviste specializzate. Ho un occhio attento ai dettagli e cerco sempre di contestualizzare le opere fotografiche all’interno delle correnti storiche e sociali.
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Sono anche una sostenitrice della conservazione della memoria visiva. Ritengo che le immagini abbiano il potere di raccontare storie e preservare momenti significativi. Con un approccio critico e riflessivo, invito i miei lettori a considerare il valore estetico e l’impatto culturale delle fotografie.
Oltre al mio lavoro online, sono autrice di libri dedicati alla fotografia. La mia dedizione a questo campo continua a ispirare coloro che si avvicinano a questa forma d’arte. Il mio obiettivo è presentare la fotografia in modo chiaro e professionale, dimostrando la mia passione e competenza. Cerco di mantenere un equilibrio tra un tono formale e un registro comunicativo accessibile, per coinvolgere un pubblico ampio.