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Generi fotograficiLa Fotografia di messa in scena (staged photography)

La Fotografia di messa in scena (staged photography)

La fotografia messa in scena, conosciuta anche come staged photography, si colloca tra le forme più affascinanti e controverse della storia della fotografia. A differenza della fotografia documentaria, che si propone di registrare la realtà così come appare davanti all’obiettivo, la fotografia messa in scena implica una costruzione intenzionale dell’immagine, attraverso la predisposizione di set, scenografie, luci, attori o oggetti, con l’obiettivo di veicolare un’idea, una narrazione o una precisa atmosfera. Per comprendere le origini di questo genere, è necessario risalire al XIX secolo, epoca in cui la fotografia si affermava come nuova tecnologia visiva.

Già negli anni immediatamente successivi all’invenzione del dagherrotipo (1839), fotografi e artisti intuirono la possibilità di utilizzare il nuovo medium non soltanto per registrare fedelmente la realtà, ma anche per costruire immagini che evocassero una dimensione narrativa o simbolica. Le prime fotografie “messe in scena” erano spesso legate alla tradizione del tableau vivant, una forma di spettacolo molto diffusa nell’Ottocento che consisteva nel ricreare quadri famosi o scene allegoriche con attori in posa immobile. Fotografi come Oscar Rejlander e Henry Peach Robinson furono tra i pionieri di questa pratica, realizzando complesse composizioni fotografiche ottenute mediante la tecnica del composite printing, che consisteva nel combinare più negativi in un’unica immagine. Queste opere, pubblicate a partire dalla metà dell’Ottocento, suscitarono grande dibattito: da un lato venivano esaltate come dimostrazione delle potenzialità artistiche della fotografia; dall’altro, criticate per la loro artificialità rispetto alla presunta “oggettività” del mezzo.

Il caso di “The Two Ways of Life” (1857) di Rejlander è emblematico: una grande stampa combinata da oltre trenta negativi che rappresentava una scena allegorica in stile rinascimentale, con figure nude e vestite che simboleggiavano il contrasto tra virtù e vizio. Allo stesso modo, Robinson con “Fading Away” (1858) affrontava temi drammatici come la morte di una giovane, ricorrendo a un’elaborata messa in scena con modelli e set appositamente costruiti. Queste immagini non erano semplici ritratti o vedute, ma vere e proprie narrazioni fotografiche, antesignane di un genere che avrebbe trovato pieno riconoscimento soltanto nel XX secolo.

Parallelamente, anche la fotografia teatrale e quella di costume ottocentesca costituirono un terreno fertile per lo sviluppo della staged photography. Studi fotografici di successo, come quello di Nadar a Parigi, allestivano set complessi per ritrarre attori, cantanti e personalità dell’epoca, conferendo alle immagini una dimensione spettacolare che andava oltre la semplice rappresentazione. La fotografia messa in scena, dunque, nasce già nel XIX secolo come tentativo di estendere il linguaggio fotografico verso una dimensione artistica e narrativa, capace di dialogare con la pittura e con il teatro.

La staged photography nel Novecento: tra avanguardia e sperimentazione

Il XX secolo rappresenta una svolta decisiva per la fotografia messa in scena, poiché il medium entra in dialogo con le avanguardie artistiche e con i linguaggi della modernità. A partire dagli anni Venti e Trenta, fotografi legati al Surrealismo come Man Ray o Claude Cahun sperimentano immagini costruite che mettono in discussione i confini tra realtà e immaginazione. Le fotografie surrealiste, spesso realizzate con tecniche di solarizzazione, esposizioni multiple o manipolazioni in camera oscura, non erano semplici documentazioni di soggetti, ma veri e propri laboratori visivi in cui l’atto fotografico diventava un processo creativo e concettuale.

Negli anni Trenta e Quaranta, la staged photography trovò applicazione anche nella fotografia di propaganda e nella fotografia pubblicitaria. I governi totalitari compresero rapidamente l’efficacia della fotografia come strumento di persuasione di massa e incoraggiarono l’uso di immagini costruite per veicolare ideali politici. In parallelo, il mondo della pubblicità e della moda sviluppò pratiche di messa in scena elaborate, con scenografie, modelli e luci artificiali, contribuendo a creare un’estetica specifica legata al consumo e allo spettacolo.

Con il dopoguerra, la staged photography divenne terreno di ricerca per autori che intendevano indagare i confini della fotografia come linguaggio. Negli anni Cinquanta e Sessanta, fotografi come Duane Michals svilupparono sequenze narrative in cui ogni immagine era parte di un racconto più ampio, sovente arricchito da testi scritti a mano direttamente sulla stampa. Michals, in particolare, utilizzò la staged photography per esplorare temi come l’identità, la spiritualità e la memoria, adottando uno stile intimo e poetico che anticipava molte tendenze successive.

Parallelamente, la staged photography trovava espressione anche nel mondo del cinema e del teatro fotografico. Fotografi come Angus McBean in Inghilterra crearono ritratti teatrali altamente elaborati, caratterizzati da scenografie surreali e atmosfere oniriche. Questo intreccio tra fotografia, teatro e cinema sottolinea la natura ibrida della staged photography, sempre sospesa tra documentazione e finzione.

La staged photography contemporanea: dagli anni Settanta a oggi

A partire dagli anni Settanta, la staged photography acquisisce una centralità crescente nel panorama dell’arte contemporanea. In questo periodo emergono figure che trasformano il genere in una vera e propria pratica artistica riconosciuta, capace di conquistare musei e gallerie internazionali. Un nome fondamentale è quello di Cindy Sherman, che con la serie “Untitled Film Stills” (1977-1980) mise in scena autoritratti travestita da personaggi femminili stereotipati, evocando atmosfere cinematografiche hollywoodiane. Sherman utilizza la staged photography non soltanto per costruire immagini, ma per decostruire i codici visivi e culturali con cui la società rappresenta la figura femminile.

Contemporaneamente, Jeff Wall inaugura un filone di staged photography monumentale e teorica. Le sue fotografie, spesso di grande formato e presentate in lightbox retroilluminati, riproducono scene di vita quotidiana apparentemente documentarie ma in realtà minuziosamente ricostruite in studio o sul set. L’opera “Mimic” (1982) è esemplare: una scena urbana che sembra colta al volo, ma che in realtà è stata diretta dall’artista con attori e scenografie per riflettere su temi sociali come il razzismo e le tensioni di classe. In Wall la staged photography diventa un dispositivo critico, capace di interrogare la relazione tra fotografia e realtà.

Un altro autore imprescindibile è Gregory Crewdson, che a partire dagli anni Novanta sviluppa una staged photography caratterizzata da set cinematografici complessi, con l’uso di troupe di tecnici, attori professionisti e illuminazioni elaborate. Le sue immagini, spesso ambientate in sobborghi americani, evocano atmosfere sospese tra realismo e inquietudine, ispirandosi tanto al cinema di David Lynch quanto alla pittura di Edward Hopper. Dal punto di vista tecnico, Crewdson lavora con camere di grande formato e un’illuminazione da set cinematografico, creando fotografie che richiedono mesi di preparazione e un’organizzazione simile a quella di una produzione filmica.

La staged photography contemporanea non si limita a questi nomi. Fotografi come Hiroshi Sugimoto, con le sue serie sui teatri e i diorami museali, esplorano il concetto stesso di rappresentazione fotografica. Altri, come Sandy Skoglund, realizzano scenografie coloratissime e surreali, spesso con la partecipazione di attori e modelli, per riflettere sulla società dei consumi e sulla dimensione artificiale dell’immagine. La staged photography, insomma, dagli anni Settanta a oggi si afferma come una delle pratiche più rilevanti dell’arte fotografica contemporanea, capace di fondere tecnica, narrazione e critica culturale.

Aspetti tecnici della fotografia messa in scena

Dal punto di vista tecnico, la staged photography rappresenta una delle forme più complesse della fotografia. A differenza della fotografia documentaria o di reportage, che si confronta con la realtà già data, la staged photography implica una vera e propria progettazione del set fotografico. L’artista deve definire la scenografia, i costumi, la disposizione degli attori o dei modelli, l’illuminazione e l’inquadratura, in un processo che richiama la regia cinematografica o teatrale.

L’illuminazione riveste un ruolo cruciale. Molti fotografi di staged photography lavorano con complessi sistemi di luci artificiali, simili a quelli del cinema, per controllare in modo totale l’atmosfera dell’immagine. L’uso di proiettori, gelatine colorate, softbox e sistemi di illuminazione diretta o diffusa consente di creare effetti drammatici o surreali che sarebbero impossibili con la sola luce naturale. Gregory Crewdson, ad esempio, è noto per utilizzare decine di fonti luminose in un singolo set, con tempi di esposizione lunghi che permettono di bilanciare la luce artificiale con quella ambientale.

Dal punto di vista delle attrezzature fotografiche, la staged photography si avvale spesso di camere di grande formato, che garantiscono un livello di dettaglio e una qualità tonale superiore. Questo è particolarmente importante nelle stampe di grande dimensione, che devono mantenere nitidezza e profondità anche su superfici molto ampie. Tuttavia, con l’avvento del digitale, molti artisti hanno iniziato a utilizzare fotocamere ad alta risoluzione e tecniche di post-produzione avanzata. La manipolazione digitale, in questo contesto, non è necessariamente nascosta, ma può diventare parte integrante del processo creativo, contribuendo alla costruzione di scenari impossibili o alla perfezione iperrealistica delle immagini.

Un altro aspetto tecnico fondamentale è la collaborazione interdisciplinare. La staged photography, soprattutto a livello contemporaneo, coinvolge spesso team composti da scenografi, costumisti, tecnici delle luci e persino registi. Questo la distingue radicalmente da altri generi fotografici più individuali: qui la figura del fotografo assume i tratti di un direttore artistico o di un regista, più che di un semplice operatore dell’apparecchio.

Le strategie di stampa rivestono anch’esse grande importanza. Le stampe di staged photography sono spesso realizzate in grande formato, su supporti come la stampa lambda, il cibachrome o, più recentemente, la stampa inkjet su carta fotografica di alta qualità o su materiali rigidi come l’alluminio. L’obiettivo è conferire all’opera una presenza fisica monumentale nello spazio espositivo, trasformando la fotografia in un oggetto che compete con la pittura e la scultura.

Differenze e intersezioni con altri generi fotografici

La staged photography si colloca in una posizione particolare rispetto ad altri generi fotografici. Rispetto alla fotografia documentaria, essa rappresenta quasi un opposto, poiché non registra la realtà così com’è, ma la ricostruisce artificialmente. Tuttavia, la differenza non è sempre netta: molti fotografi documentaristi, consapevoli della dimensione interpretativa della fotografia, hanno adottato strategie di messa in scena per rafforzare il proprio messaggio. Si pensi, ad esempio, alle fotografie di propaganda, che pur presentandosi come documentarie erano spesso accuratamente orchestrate.

Rispetto alla fotografia concettuale, la staged photography condivide l’attenzione all’idea e al messaggio, ma si distingue per la sua enfasi sulla messa in scena visiva e sull’uso del set. Mentre la fotografia concettuale può presentarsi anche in forme minimali o testuali, la staged photography punta sulla costruzione di immagini complesse e spettacolari, spesso destinate a grandi formati e a spazi espositivi museali.

Un ulteriore punto di intersezione è con la fotografia di moda e la fotografia pubblicitaria, che da sempre fanno largo uso di set e scenografie. Tuttavia, nella staged photography il fine non è vendere un prodotto, ma esplorare questioni estetiche, sociali o filosofiche. Questa distinzione di finalità è cruciale per comprendere il genere come pratica artistica autonoma.

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