Hiroshi Sugimoto nacque il 23 febbraio 1948 a Tokyo, in Giappone. Ancora oggi è vivo e divide il suo tempo tra Tokyo e New York, città in cui ha il suo studio principale. Laureato in scienze fisiche presso l’Ritsumeikan University di Kyoto nel 1970, Sugimoto unì fin dagli inizi la formazione scientifica a una profonda passione per la fotografia analogica, che ha esplorato per oltre cinquant’anni spingendo continuamente i limiti tecnici ed estetici della pratica fotografica.
All’inizio degli anni Sessanta, a Tokyo, Sugimoto si avvicinò alla fotografia grazie all’eredità stravagante dello zio collezionista di macchine analogiche. La prima fotocamera di famiglia era una Mamiya Six medio-formato con ottica standard da 80 mm, con cui il giovane Hiroshi sperimentò i primi ritratti in bianco e nero. La pellicola in uso era allora la Kodak Plus‑X 125 ISO, e la sua sensibilità relativamente bassa costringeva ad esposizioni lunghe, tipicamente tra 1/15 e 1/60 di secondo, mentre il diaframma variava tra f/4 e f/11 per modulare la profondità di campo. Quei primi scatti furono sviluppati in un semplice laboratorio domestico con D‑76 a temperatura ambiente, ma già si percepiva la ricerca di un’equilibrio tonale che avrebbe caratterizzato tutta la sua carriera.
Nel periodo universitario, Sugimoto proseguì gli studi in fisica teorica, approfondendo concetti di ottica geometrica e ottica ondulatoria, competenze che influenzarono drasticamente la sua percezione della luce e della messa a fuoco. Parallelamente alle lezioni di fisica, frequentava il laboratorio di fotografia dell’Ateneo, dove sperimentò ingranditori Durst dotati di obiettivi a fuoco automatico e ampi bellows per il controllo dei piani focali. Affinò le tecniche di contact printing con lastre di vetro e carta baritata, scoprendo come la distanza tra negativo e carta influenzasse la nitidezza complessiva e il microcontrasto delle stampe.
A metà degli anni Settanta, terminati gli studi, si trasferì a New York. Qui Sugarimoto lavorò come assistente in uno studio di moda, ma fu subito attratto dall’ambientazione museale e dai grandi maestri: trascorreva ore davanti alle esposizioni di pittura minimalista e astrazione geometrica, studiando composizioni spaziali e rapporti di luce e ombra. A contatto con il lavoro di fotografi come Walker Evans e Edward Weston approfondì l’uso delle emulsioni ortocromatiche e panchromatiche, sperimentando filtri in camera oscura per controllare la resa tonale dei cieli e dei tessuti nelle stampe. In quegli anni iniziò a prediligere il formato 4×5″: una Graflex Speed Graphic con ottica Kodak Anastigmat 127 mm gli permise di ottenere negative di grande definizione, utili per stampe di ampio formato.
L’esperienza newyorkese lo portò a iscriversi a corsi serali di Storia dell’Arte al School of Visual Arts, dove apprese i principi di composizione e prospettiva del Rinascimento e dell’arte giapponese tradizionale. Fu allora che concepì le sue prime serie sperimentali, tra cui “Seascapes”, in cui il mare e il cielo si confondevano in un unico orizzonte, ragionando sui concetti di infinito, di tempo negli scatti a lunga esposizione e di tempo fisso di esposizione, talvolta fino a 30 secondi o più, in funzione della luce naturale disponibile.
Evoluzione stilistica e tecniche fotografiche
Verso la fine degli anni Settanta, Sugimoto delineò un linguaggio riconoscibile: le Seascapes, ritratti del mare in cui l’orizzonte è centrato e l’esposizione variava tra 5 e 30 secondi a seconda dell’intensità luminosa, realizzate su pellicola Ilford FP4+ o Kodak Tri‑X 400, rivelarono la sua ossessione per il contrasto tra immobilità e movimento dell’acqua. Per ogni scatto montava la fotocamera su un treppiede a bolla di precisione e utilizzava un otturatore a tendina calibrare sulla base di un esposimetro a lettura spot, con valori misurati a 18% di grigio per evitare “bruciature” nelle alte luci.
Sul fronte tecnico, inaugurò una serie di sperimentazioni sul banco ottico: adottò tra gli altri una Sinar P2 con schermo di messa a fuoco a sfera e vetro smerigliato, sfruttando i movimenti di tilt e shift per correggere le linee di prospettiva e ottenere una planarità estrema dell’immagine. Montava tubi di sviluppo Rodinal per enfatizzare la resa dei dettagli e ridurre la grana quando serviva massima nitidezza, oppure ricorreva a bagni con Metol‑Idrochinone per un contrasto più morbido e una gradazione tonale uniforme.
All’inizio degli anni Ottanta accostò alla pittura minimalista il medium fotografico di architettura e interior design. Le serie dedicate ai musei – come quelle scattate all’interno del Solomon R. Guggenheim Museum – furono realizzate con pellicola Kodak T‑Max 100 a grana ultra fine, a volte sovraesposta di mezzo stop e recuperata in sviluppo –1 di contrasto per preservare le ombre. L’illuminazione naturale proveniente dalle finestre globulari veniva misurata con esposimetri Gossen a lettura media, calibrati su superfici calcaree per evitare dominanti di colore in stampa bianco e nero.
La metà degli anni Novanta segnò l’ingresso definitivo nel bianco e nero ad alto contrasto: le stampe su carta baritata matt venivano caricate in camera oscura con filtri di contrasto 2–3 per ottenere neri profondi e bianchi luminosi, giocando sulle aree di grigio per conferire struttura e volume. Realizzava contatti su vetri smerigliati prima della stampa finale, assicurandosi che ogni dettaglio fosse perfettamente allineato.
Nel Duemila, pur mantenendo le pratiche analogiche, iniziò a integrare la scansione a tamburo di altissima qualità per digitalizzare negativi 4×5″ e stampe vintage, con risoluzioni fino a 8.000 dpi. Questa transizione gli consentì di presentare le sue opere anche in formati video ad alta definizione, proiettando le immagini in loop continuo per mostre immersive. Ogni scansione era accompagnata da un profilo colore ICC creato ad hoc, basato su target X‑Rite ColorChecker, sebbene non smettesse mai di privilegiare il tratto analogico nell’iter di produzione delle tirature di stampa.
Progetti principali e mostre
Nel 1980 la serie “Seascapes” fu esposta per la prima volta in Europa, dove Venezia e il Mare Adriatico divennero soggetti ideali per sperimentazioni di lunga esposizione e composizione centrata. Ogni immagine fu presentata in formato 150×200 cm su carta baritata, suscitando immediato interesse presso gallerie come la Tate Modern e il Centre Pompidou. In quegli allestimenti gli scatti erano montati senza cornice, a filo con le pareti bianche, enfatizzando l’effetto di spaesamento e di profondità infinita.
A metà degli anni Ottanta, “Dioramas” rivoluzionò il rapporto tra fotografia e museo: Sugimoto fotografò vetrine di animali imbalsamati in musei di storia naturale, scegliendo ottiche a focale fissa da 100 mm e tempi di esposizione sino a 30 secondi per neutralizzare riflessi e ombre estranee. La pellicola era la Kodak Tri‑X, sovraesposta di un terzo di stop e sviluppata in Rodinal 1+50, per un dettaglio assai definito del soggetto e una grana marcata nelle aree più scure. Le stampe di queste serie sono state esposte al Museo di Arte Contemporanea di Tokyo e in mostre itineranti in Nord America e Asia.
Il progetto “Architecture” iniziato nel 1995 lo portò a fotografare edifici storici come il Museo Solomon R. Guggenheim, il Parliament Building di Budapest e le grotte di Lascaux. Ogni location richiese un lungo lavoro di preparazione: Sugimoto montava il banco ottico su travi di appoggio isolate da vibrazioni, misurava le condizioni luminose con esposimetri spot e usava filtri arancio per compensare toni caldi di materiali antichi. Le lastre 4×5″ venivano sviluppate in bagni a 20 °C di Metol‑Idrochinone, quindi stabilizzate in stop-bath acidi e fissate con tiosolfato di sodio per almeno 20 minuti, seguite da un lavaggio prolungato per eliminare ogni traccia di sali.
Nel Duemila, la serie “Lightning Fields”, dedicata ai grandi spazi desertici nella parte meridionale degli Stati Uniti, vide l’uso di esposizioni multiple: Sugimoto scattava fino a tre esposizioni a intervalli regolari in una stessa inquadratura, combinandole in camera oscura durante la stampa a contatto. Questo procedimento di “layering analogico” creava immagini che suggerivano un continuum temporale e un effetto cromatico simile all’HDR, sebbene ottenuto tramite metodi tradizionali. La pellicola preferita fu la Ilford FP4+ per la sua linearità tonale, sviluppata in D‑23 a 18 °C per controllare la grana e ampliare la gamma dinamica.
Tra il 2010 e il 2020, Sugimoto ha presentato progetti performativi e installativi, come “Phantom”, in cui le proiezioni delle sue diapositive 35 mm venivano retroilluminate e sincronizzate a colonne sonore ambient per creare stanze immersive. Per queste proiezioni digitalizzava le sue diapositive Kodachrome 64 a 4.000 dpi e le presentava su schermi LED calibrati a 2.700 K per mantenere la coerenza cromatica con la versione analogica. Mostre come quelle al MoMA di New York e alla Serpentine Gallery di Londra hanno consacrato il suo lavoro come punto di riferimento nell’incontro tra arte fotografica e arte concettuale.
Approccio concettuale e visione estetica
Hiroshi Sugimoto ha sempre concepito la fotografia come un’esperienza del tempo e dello spazio. Le sue immagini – dalle “Seascapes” ai “Dioramas”, dall’“Architecture” ai “Lightning Fields” – sono unite dalla convinzione che l’atto di fotografare sia innanzitutto un atto di contemplazione. Il concetto di “tempo oggettivo”, eredità dei suoi studi di fisica, si manifesta nella precisione delle esposizioni e nella ripetizione del soggetto in vari momenti della giornata, mentre il “tempo soggettivo” emerge nella fruizione dell’opera da parte dell’osservatore, chiamato a immergersi nell’immagine.
L’uso continuo di formati grandi e di lenti a focale fissa gli ha consentito di mantenere il controllo assoluto sulla resa prospettica e sulla profondità di campo. I movimenti di camera (tilt/shift) servono a sottolineare la planarità dell’immagine, come se ogni scatto fosse un dipinto minimalista. Pur utilizzando tecniche elaborate, Sugimoto rifiuta qualsiasi forma di manipolazione digitale invasiva: la purezza del processo analogico è parte integrante del suo codice etico.
La scelta di soggetti apparentemente statici – orizzonti marini, animali imbalsamati, architetture monumentali – è uno specchio della sua riflessione sul carattere effimero della vita. Gli scatti di dioramas consentono di mettere in luce la tensione tra realtà e finzione, sottolineando come la fotografia possa diventare strumento di illusione e al tempo stesso di verità.
Nel dialogo con la tradizione artistica, Sugimoto ricollega costantemente il suo lavoro alla pittura monocromatica giapponese e all’arte occidentale post‑minimalista: la riduzione degli elementi visivi all’essenziale e la centralità del bianco e nero sono elementi comuni. Questa fusione di riferimenti culturali e tecnici ha contribuito a ridefinire i confini della fotografia contemporanea, posizionando il medium come linguaggio autonomo e materico.
Principali opere di Hiroshi Sugimoto
Le opere simbolo di Sugimoto riflettono la varietà dei suoi temi e l’ampiezza delle sue sperimentazioni tecniche.
La serie “Seascapes” (1976–) ha inaugurato il suo percorso: ogni immagine, prodotta con esposizioni fino a 30 secondi su pellicola Tri‑X o FP4+, restituisce un orizzonte privo di punti di riferimento, dove l’acqua e il cielo si confondono in uno stato di sospensione. Le stampe su carta baritata, a volte in formati fino a 200×300 cm, sono caratterizzate da neri profondissimi e bianchi luminosi, ottenuti con filtri di contrasto e bagni di sviluppo Metol‑Idrochinone a 20 °C.
“Dioramas” (1980–) è la serie in cui Sugimoto fotografò le scene espositive nei musei di storia naturale. Con esposizioni comprese tra 15 e 30 secondi, utilizzando flash alloggiati in grotte artificiali e tubi fluorescenti per neutralizzare riflessi, ottenne immagini che oscillano tra realismo e finzione. Il controllo delle luci è gestito con riflettori d’argento in seta, softbox artigianali e un’accurata lettura spot utilizzando esposimetri Gossen.
La stagione “Architecture” (1995–) comprende scatti in interni di edifici storici e siti archeologici. Ogni edificio fu fotografato con banco ottico e ottiche grandangolari da 90 mm, esponendo su lastre 4×5″ e sviluppando in Rodinal per massimizzare il microcontrasto. Le stampe finali mostrano precisione prospettica e profondità di campo estesa, frutto di movimenti shift calibrati in centimetri e di focus stacking analogico in camera oscura.
Con “Lightning Fields” (2002–2007) ha esplorato i paesaggi desertici americani tramite esposizioni multiple e layering, unendo tre fotogrammi in un’unica stampa a contatto per dare l’idea di un tempo sospeso e continuo. Pellicola FP4+ o Tri‑X 400 sviluppata in D‑23 a 18 °C, stampa su carta baritata ad alto grammaggio.
Nelle installazioni video come “Phantom” (2010–) le sue diapositive 35 mm vengono digitalizzate a 4.000 dpi e proiettate in loop: le immagini sono sincronizzate con colonne sonore ambient e microproiezioni accentuano il dettaglio della grana. Ogni progetto è accompagnato da un catalogo con profili colore ICC e note sul workflow analogico.
Con queste opere, Hiroshi Sugimoto ha ridefinito la fotografia concettuale e l’arte fotografica contemporanea, dimostrando che la grande tradizione analogica può coesistere con forme di sperimentazione visiva estremamente articolate.