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La Fotografia naturalistica

La fotografia naturalistica nasce nella seconda metà dell’Ottocento, in parallelo con lo sviluppo delle prime spedizioni scientifiche organizzate e con il crescente interesse per lo studio della natura da parte delle istituzioni accademiche e delle società geografiche. Fin dall’invenzione del dagherrotipo nel 1839, naturalisti e scienziati compresero l’utilità di questo nuovo strumento per documentare la fauna e la flora in modo più oggettivo rispetto al disegno a mano, che era stato fino ad allora il principale mezzo di registrazione visiva.

Le prime applicazioni si rivelarono complesse. La necessità di tempi di esposizione molto lunghi rendeva difficile fotografare animali vivi, costringendo spesso a utilizzare esemplari morti o immobilizzati. Questo comportava una resa più vicina all’illustrazione scientifica che alla fotografia di campo. Alcuni pionieri, come Adolphe Braun in Francia, realizzarono già a partire dagli anni Cinquanta dell’Ottocento interi repertori fotografici di fiori e piante, destinati sia agli studiosi che agli artisti, i quali trovavano nelle fotografie un modello fedele da cui trarre ispirazione.

La svolta decisiva si ebbe con l’introduzione delle lastre al collodio umido (1851), che permisero una sensibilità superiore e tempi di esposizione leggermente più rapidi. Ciò consentì ai fotografi naturalisti di lavorare sul campo, benché con attrezzature ancora ingombranti e fragili. Un altro momento chiave fu l’invenzione delle lastre a gelatina-bromuro negli anni Settanta, che semplificarono enormemente la pratica: esse potevano essere preparate e conservate, senza richiedere lo sviluppo immediato in loco, come invece accadeva con il collodio.

Le spedizioni coloniali furono un terreno privilegiato per la diffusione della fotografia naturalistica. Scienziati e fotografi viaggiavano insieme per documentare nuove specie vegetali e animali. Le immagini venivano poi utilizzate nei musei di storia naturale e nelle pubblicazioni accademiche. È in questo periodo che la fotografia naturalistica acquisì una funzione documentaria e classificatoria, diventando parte integrante della ricerca zoologica e botanica.

Dal punto di vista estetico, i primi decenni furono dominati da un approccio descrittivo, quasi tassonomico. Le fotografie venivano realizzate con sfondi neutri o all’interno di studi improvvisati, con l’obiettivo di eliminare ogni elemento estraneo. Tuttavia, già verso la fine del secolo si osserva un progressivo interesse per la resa dell’habitat naturale, con i fotografi che iniziano a cercare modalità di ripresa in esterni capaci di restituire non solo l’aspetto dell’animale o della pianta, ma anche il contesto ambientale in cui viveva.

Un caso emblematico è rappresentato dal lavoro di Richard Kearton e di suo fratello Cherry, attivi in Inghilterra a partire dagli anni Novanta dell’Ottocento. Essi furono tra i primi a tentare sistematicamente la fotografia di uccelli nel loro ambiente naturale, utilizzando ingegnosi stratagemmi per avvicinarsi agli animali senza disturbarli, come capanni mimetici e persino travestimenti. Le loro immagini, benché tecnicamente limitate, aprirono la strada a un approccio più autentico e immersivo, anticipando la fotografia naturalistica del XX secolo.

Tecniche e strumenti della fotografia naturalistica tra XIX e XX secolo

L’evoluzione della fotografia naturalistica è stata profondamente legata allo sviluppo tecnico degli strumenti fotografici. Nel XIX secolo, l’uso di apparecchi a banco ottico e di lastre di grande formato garantiva un’alta qualità di dettaglio, ma al prezzo di una mobilità ridotta. I fotografi erano costretti a trasportare cavalletti pesanti, lastre fragili e camere oscure portatili. Le condizioni di lavoro in ambienti naturali, spesso impervi e privi di infrastrutture, rendevano l’impresa faticosa e limitavano il numero di immagini realizzabili.

Con l’inizio del XX secolo, la diffusione delle fotocamere a pellicola in rullo introdotte da Kodak e la progressiva miniaturizzazione degli apparecchi consentirono una maggiore agilità. Le prime reflex a pellicola da 35 mm, sviluppate a partire dagli anni Trenta, furono determinanti per il progresso della fotografia naturalistica. Esse permettevano di scattare rapidamente, con tempi di esposizione ridotti grazie alla maggiore sensibilità delle pellicole, e di controllare l’inquadratura attraverso il mirino reflex.

La questione dell’obiettivo ha rappresentato un aspetto centrale. La fotografia naturalistica richiede spesso focali lunghe, indispensabili per riprendere soggetti distanti senza disturbarli. Nel primo Novecento gli obiettivi tele non erano ancora diffusi, ma già negli anni Venti e Trenta iniziarono a comparire teleobiettivi dedicati, con lunghezze focali superiori ai 200 mm. Negli anni Cinquanta e Sessanta, produttori come Nikon e Canon introdussero teleobiettivi luminosi che rivoluzionarono la disciplina, rendendo possibile fotografare animali in movimento con nitidezza.

Un’altra innovazione significativa fu rappresentata dalle pellicole a colori. Sebbene già disponibili dagli anni Trenta con l’introduzione della Kodachrome, fu solo nel dopoguerra che il colore si diffuse su larga scala. Per la fotografia naturalistica, il colore costituì un valore aggiunto inestimabile, poiché consentiva di documentare con precisione cromatica piumaggi, fioriture e paesaggi, elementi fondamentali per la classificazione scientifica.

Parallelamente, si svilupparono tecniche specifiche per superare le difficoltà ambientali. La fotografia subacquea, ad esempio, richiese lo sviluppo di custodie impermeabili e sistemi di illuminazione artificiali. Già negli anni Trenta alcuni pionieri sperimentavano con apparecchi sigillati, ma fu con Jacques-Yves Cousteau e la diffusione delle attrezzature subacquee nel dopoguerra che la fotografia naturalistica marina conobbe un’espansione sistematica.

Anche la fotografia ravvicinata di insetti e piccoli organismi portò alla creazione di obiettivi macro e accessori come soffietti ed estensori, capaci di aumentare il rapporto di riproduzione. Questo permise di documentare dettagli morfologici con grande precisione, utili non solo agli entomologi ma anche agli illustratori scientifici e agli editori di atlanti naturalistici.

Sul piano della stampa, la diffusione delle tecniche fotomeccaniche – come la fotoincisione e la rotocalcografia – facilitò la pubblicazione di fotografie naturalistiche in libri, riviste e guide sul campo. Questo rese accessibili a un pubblico più ampio le immagini della natura, trasformando la fotografia naturalistica in un linguaggio condiviso tra scienza e divulgazione.

La fotografia naturalistica nel Novecento

Il Novecento rappresenta il secolo di consolidamento e di maturazione della fotografia naturalistica. Con la progressiva democratizzazione delle tecnologie fotografiche, questo genere si diffuse non solo in ambito scientifico ma anche amatoriale, alimentando movimenti e associazioni dedicate.

Già dagli anni Venti e Trenta nacquero le prime società di fotografia naturalistica, come il Nature Photographic Society in Inghilterra, che raccoglieva fotografi impegnati nella documentazione della fauna selvatica. La loro attività era rivolta non soltanto alla scienza, ma anche alla sensibilizzazione del pubblico sull’importanza della conservazione ambientale.

La vera rivoluzione tecnica fu però legata alla combinazione di pellicole sempre più sensibili, obiettivi tele di qualità superiore e l’introduzione del flash elettronico negli anni Quaranta. Questo insieme di fattori rese possibile catturare soggetti in movimento, in condizioni di luce scarsa o in ambienti difficili come le foreste pluviali.

Negli anni Sessanta e Settanta la fotografia naturalistica divenne una disciplina riconosciuta a livello internazionale. Riviste specializzate come “National Geographic” contribuirono a consolidare un immaginario visivo globale della natura, con immagini di grande impatto estetico ma basate su solide competenze tecniche. I fotografi naturalisti iniziarono a sviluppare un’etica professionale centrata sul rispetto degli animali e degli ecosistemi, in contrapposizione alle pratiche del secolo precedente, che non di rado comportavano la cattura o l’uccisione dei soggetti per poterli fotografare con facilità.

L’avvento delle reflex 35 mm e delle diapositive a colori a grana fine – come la Fujichrome Velvia negli anni Ottanta – offrì ai fotografi strumenti perfetti per catturare immagini vivide e dettagliate. La fotografia naturalistica raggiunse livelli di qualità tali da essere considerata non solo un mezzo scientifico ma anche una forma d’arte visiva. Mostre e concorsi internazionali, come il “Wildlife Photographer of the Year”, istituito nel 1965, sancirono il riconoscimento pubblico della disciplina.

La seconda metà del Novecento vide anche la nascita della fotografia naturalistica etologica, volta a documentare i comportamenti animali. I fotografi non si limitarono più a catturare ritratti statici, ma iniziarono a seguire interi cicli vitali: nidificazione, caccia, migrazioni. Questa trasformazione richiese una padronanza tecnica ancora maggiore, con l’uso di teleobiettivi da 400, 500 e 600 mm, spesso montati su treppiedi robusti e accompagnati da sistemi di scatto silenziosi.

La fotografia naturalistica nell’era digitale

Con l’avvento della fotografia digitale a partire dagli anni Novanta, la disciplina ha conosciuto un nuovo salto qualitativo. Le prime reflex digitali professionali, introdotte sul mercato alla fine degli anni Novanta, offrivano già una risoluzione sufficiente per pubblicazioni di alto livello. La possibilità di visualizzare immediatamente l’immagine consentì ai fotografi di correggere in tempo reale errori di esposizione o di messa a fuoco, riducendo drasticamente gli scarti.

La fotografia digitale rese possibile l’uso intensivo del burst mode, ovvero raffiche di scatti ad alta velocità, ideale per catturare comportamenti rapidi come il volo degli uccelli o la predazione. Parallelamente, la sensibilità ISO sempre più elevata e con un basso livello di rumore permise di lavorare anche in condizioni di luce molto ridotta, ampliando le possibilità creative.

La diffusione dei sensori full-frame e, successivamente, dei sensori ad altissima risoluzione, ha reso possibile realizzare stampe di grande formato senza perdita di dettaglio. L’uso di teleobiettivi stabilizzati e lenti con trattamenti antiriflesso avanzati ha migliorato ulteriormente la nitidezza delle immagini, anche in situazioni ambientali difficili come la neve, la pioggia o la forte luminosità tropicale.

Un aspetto innovativo è stata l’introduzione della fotografia con trappole fotografiche (camera trapping), che utilizza sensori a infrarossi o sistemi di rilevamento del movimento per scattare automaticamente quando un animale attraversa il campo visivo. Questa tecnica ha consentito di documentare specie elusive e notturne, impossibili da riprendere con metodi tradizionali.

La post-produzione digitale ha aggiunto un ulteriore livello di controllo. Programmi di editing come Photoshop o Lightroom hanno permesso di ottimizzare le immagini, correggere dominanti cromatiche e migliorare la resa tonale. Sebbene questo abbia aperto dibattiti etici sulla manipolazione, la comunità scientifica ha stabilito criteri rigorosi per distinguere le fotografie a valore documentario da quelle artistiche.

La fotografia naturalistica digitale si è integrata con le nuove forme di comunicazione online. Le piattaforme social e i siti di citizen science hanno reso possibile una diffusione capillare delle immagini, trasformando i fotografi naturalisti in testimoni attivi dei cambiamenti ambientali e climatici. Ciò ha consolidato la funzione documentaria e testimoniale della fotografia naturalistica nel XXI secolo, rafforzando il legame tra estetica e scienza.

Curiosità Fotografiche

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