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Berenice Abbott

Berenice Abbott nacque il 17 luglio 1898 a Springfield, Ohio, in una famiglia dalle risorse limitate. La sua infanzia fu segnata da una condizione economica precaria che non le offrì particolari stimoli culturali, ma sviluppò molto presto una spiccata curiosità intellettuale e un forte desiderio di emancipazione personale. Durante l’adolescenza, frequentò scuole locali a Columbus e Cleveland, mostrando interesse per le arti figurative e per la letteratura. Dopo il diploma, decise di intraprendere studi universitari, iscrivendosi alla Ohio State University. Qui entrò in contatto con un ambiente aperto alle nuove correnti artistiche americane ed europee, ma sentì presto i limiti provinciali del contesto accademico.

Nel 1918 si trasferì a New York City, dove si iscrisse alla Parsons School of Design e successivamente alla Art Students League, approfondendo pittura e scultura. La metropoli in quegli anni rappresentava un crocevia di linguaggi artistici e avanguardie, e Abbott entrò a far parte di circoli intellettuali animati da scrittori, pittori e poeti. Tuttavia, non trovò nella scultura il suo linguaggio definitivo, pur acquisendo un occhio attento alla tridimensionalità, alla costruzione dei volumi e alla relazione tra forma e luce. Queste competenze sarebbero state fondamentali per la sua futura carriera fotografica.

La decisione di trasferirsi a Parigi nel 1921 segnò un passaggio cruciale. La capitale francese era allora il cuore delle avanguardie artistiche, luogo in cui il dadaismo, il surrealismo e il cubismo convivevano in un terreno di sperimentazione continua. Abbott inizialmente si mantenne come assistente di scultori e artigiani, tra cui Constantin Brâncuși. Questo contatto con un artista che faceva della semplificazione formale e della riduzione a volumi essenziali la sua cifra stilistica contribuì a formare la sensibilità visiva della giovane americana.

Nonostante la sua formazione plastica, Abbott sentiva il bisogno di un medium più immediato e accessibile rispetto alla scultura. Lo scoprì con la fotografia, inizialmente per necessità lavorativa e successivamente come scelta consapevole. Il rigore geometrico acquisito nello studio delle arti tridimensionali si trasformò in un linguaggio fotografico basato sulla precisione della prospettiva, sull’uso calcolato della luce e sulla costruzione dell’immagine come spazio architettonico.

L’incontro con Man Ray e la scoperta di Atget

Il 1923 rappresentò una svolta definitiva quando Berenice Abbott venne assunta come assistente da Man Ray, fotografo e artista dadaista che in quegli anni operava nel quartiere parigino di Montparnasse. In quello studio ebbe modo di apprendere tutte le tecniche di laboratorio: dalla preparazione delle lastre al trattamento dei negativi, dalla stampa a contatto alla sperimentazione con solarizzazioni e luci artificiali. Nonostante l’approccio surrealista di Man Ray, Abbott maturò un atteggiamento opposto, caratterizzato da una ricerca di oggettività e chiarezza formale.

Proprio durante questa fase cruciale conobbe Eugène Atget, anziano fotografo francese che aveva dedicato la vita a documentare Parigi con immagini sistematiche e prive di retorica. Abbott rimase profondamente colpita dal suo metodo e dalla sua dedizione alla fotografia come strumento di documentazione storica. Dopo la morte di Atget nel 1927, acquistò e preservò gran parte del suo archivio, comprendendo l’enorme valore che avrebbe avuto per le generazioni future. In seguito, si adoperò per farlo conoscere negli Stati Uniti, contribuendo a costruirne la reputazione come uno dei padri della fotografia documentaria.

Da Man Ray, Abbott assimilò la padronanza tecnica e la libertà di sperimentazione, mentre da Atget trasse l’idea che la fotografia potesse diventare un archivio della modernità, un testimone fedele dei mutamenti urbani e sociali. Questa doppia influenza segnò indelebilmente il suo stile, capace di coniugare precisione tecnica e consapevolezza storica.

Negli anni parigini Abbott realizzò anche numerosi ritratti di scrittori e artisti come James Joyce, Jean Cocteau e André Gide. In queste immagini emerge la sua capacità di restituire con essenzialità il carattere psicologico dei soggetti, evitando eccessi stilistici e privilegiando un uso diretto della luce e una composizione equilibrata.

Il ritorno a New York e “Changing New York”

Nel 1929 Abbott tornò a New York, trovandosi di fronte a una città radicalmente diversa da quella lasciata otto anni prima. Il processo di verticalizzazione con i nuovi grattacieli, la demolizione di interi quartieri e la costruzione di ponti e arterie moderne la impressionarono profondamente. Riconobbe in quella trasformazione urbana l’equivalente americano del lavoro che Atget aveva svolto a Parigi: documentare i cambiamenti, registrare le tracce del passato e i segni del futuro.

Decise quindi di intraprendere un progetto personale, che prese il nome di Changing New York. Per portarlo avanti, Abbott fece uso di macchine fotografiche a banco ottico di grande formato, capaci di garantire nitidezza e precisione prospettica. Le immagini che ne risultarono erano caratterizzate da una geometria rigorosa, con linee verticali enfatizzate e contrasti netti tra luce e ombra.

Il progetto ricevette il sostegno del Federal Art Project, parte del programma del New Deal promosso da Franklin D. Roosevelt, che finanziava artisti e fotografi impegnati a raccontare la vita americana durante la Grande Depressione. Grazie a questi fondi, Abbott poté realizzare oltre 300 fotografie tra il 1935 e il 1939.

“Changing New York” rappresenta un documento unico dell’architettura e della vita urbana della città. Non si tratta di semplici vedute architettoniche: Abbott usava la fotografia come strumento per raccontare la tensione tra il vecchio e il nuovo, tra edifici ottocenteschi in demolizione e grattacieli in costruzione. Nei suoi scatti la città non è solo spazio, ma organismo vivente, in costante mutamento.

Dal punto di vista tecnico, la fotografa sperimentava con punti di vista elevati e prospettive angolari, utilizzava tempi di esposizione calibrati per garantire profondità di campo e faceva largo uso di contrasti tonali che accentuavano il dinamismo architettonico. Le stampe a gelatina d’argento, ricche di dettagli e di neri profondi, restituiscono una sensazione di solidità che riflette la monumentalità del soggetto.

Il libro “Changing New York”, pubblicato nel 1939, consolidò la sua reputazione internazionale e fissò un modello di fotografia urbana che avrebbe influenzato generazioni di autori successivi.

Le opere principali

Sebbene la sua produzione sia vastissima, alcune opere e serie rappresentano momenti cardine della carriera di Abbott:

  • Changing New York (1929–1939) – Documentazione fotografica sistematica della metropoli in trasformazione, commissionata dal Federal Art Project.

  • Night View, New York (1932) – Fotografia realizzata dall’Empire State Building che immortala la città illuminata dalle luci elettriche, simbolo della modernità americana.

  • Penn Station (1935) – Immagine che cattura la maestosità dell’antica stazione ferroviaria, con attenzione alle geometrie e alla monumentalità dello spazio.

  • Broadway to the Battery (1938) – Serie che evidenzia la stratificazione architettonica tra antico e moderno.

  • Ritratti parigini (anni ’20) – Tra cui quello celebre di James Joyce, che mostra la capacità di cogliere la complessità intellettuale del soggetto attraverso una composizione essenziale.

  • Fotografie scientifiche (anni ’50–’60) – Serie realizzata al MIT, tra cui scatti che illustrano fenomeni fisici come interferenze luminose, leggi ottiche e campi magnetici.

Queste opere, considerate insieme, mostrano la varietà della sua ricerca e la costanza del suo metodo, basato sulla precisione tecnica e sulla chiarezza visiva.

Fotografia scientifica e didattica

A partire dagli anni Cinquanta, Abbott intraprese una nuova direzione collaborando con istituti di ricerca, in particolare con il Massachusetts Institute of Technology (MIT). Qui sviluppò un lavoro pionieristico nella fotografia scientifica, documentando esperimenti fisici con l’obiettivo di rendere visibili fenomeni invisibili a occhio nudo.

Queste immagini avevano una funzione didattica, pensate per manuali e libri di testo, ma allo stesso tempo possedevano un forte valore estetico. Onde, traiettorie, interferenze luminose venivano fissate su carta fotografica con una chiarezza tale da trasformarle in vere e proprie composizioni astratte. Abbott dimostrava che la fotografia poteva essere ponte tra arte, scienza e divulgazione, capace di tradurre concetti complessi in immagini immediatamente leggibili.

Dal punto di vista tecnico, si trattava di lavori di grande difficoltà: richiedevano l’uso di tempi di esposizione calibrati al millesimo, ottiche particolari, spesso adattate agli strumenti scientifici, e un controllo assoluto della luce artificiale. La sua abilità artigianale e la lunga esperienza di camera oscura le permisero di ottenere risultati di qualità eccezionale, che ancora oggi sono utilizzati come esempi di fotografia applicata alla scienza.

Ultimi anni e morte

Negli ultimi decenni, Abbott visse prevalentemente nel Maine, in una casa-studio che divenne luogo di conservazione e riorganizzazione dei suoi archivi. L’attenzione della critica verso il suo lavoro aumentò progressivamente: mostre retrospettive al Museum of Modern Art e allo Smithsonian Institution contribuirono a consolidarne la fama internazionale.

Pur ritirandosi progressivamente dalla scena attiva, continuò a curare stampe e a concedere interviste, sottolineando l’importanza della fotografia come strumento di conoscenza. Abbott morì il 9 dicembre 1991 a Monson, Maine, all’età di 93 anni, lasciando un’eredità visiva di straordinaria rilevanza. La sua opera, che attraversa più di sessant’anni, testimonia come la fotografia possa essere insieme documento storico, indagine scientifica e forma d’arte autonoma.

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