La Studio Camera associata al nome di C.G. Collins rappresenta una delle manifestazioni più pure del concetto di apparecchio fotografico concepito esclusivamente per l’uso in studio, con caratteristiche progettuali e funzionali fortemente orientate alla precisione, alla modularità e alla resa ottica. Si colloca nella seconda metà del XIX secolo, con una probabile introduzione commerciale tra il 1885 e il 1895, a cavallo della piena maturità del ritratto fotografico come genere borghese e dell’affermazione della tecnica al collodio secco prima, e alla gelatina successivamente.
Charles G. Collins, noto costruttore americano attivo tra Boston e New York, non fu soltanto un venditore di apparecchiature fotografiche, ma anche un artigiano ingegnoso, capace di interpretare le esigenze emergenti della fotografia da salotto e di canalizzarle in strumenti ad alta ingegnerizzazione. Le camere prodotte da Collins erano spesso pezzi unici o di piccola serie, realizzate su ordinazione o per i mercati più attenti alla qualità costruttiva, come quelli professionali statunitensi, inglesi e australiani.
La Studio Camera di Collins nasce da una visione ben definita dell’ambiente di posa, pensato come una estensione del laboratorio chimico. Le camere da studio dovevano essere robuste ma maneggevoli, dotate di movimenti precisi, facilmente adattabili a lastre di grande formato – in genere 8×10 pollici o superiori – e compatibili con ottiche di alta qualità come quelle fornite da Dallmeyer, Voigtländer o Ross. L’impianto costruttivo rifletteva questa esigenza: un banco ottico in mogano rosso lucidato, montato su un basamento regolabile con ruote e sistema di freno, una soffietto in pelle trattata e telai portalastra con oscuratori in legno nero di ebanite o acero verniciato.
Le specifiche tecniche erano tra le più avanzate del periodo: movimenti indipendenti di basculaggio anteriore e posteriore (tilt), scorrimento micrometrico su cremagliere di bronzo, attacchi filettati universali per ottiche, e un sistema di fuoco a doppia vite che consentiva di passare rapidamente da una messa a fuoco grossolana a una finissima. La Collins Studio Camera veniva quasi sempre utilizzata con lastre al collodio umido nella sua fase iniziale, ma fu presto adattata all’uso di supporti a gelatina-bromuro d’argento grazie alla presenza di chassis con doppi portellastra.
Non si trattava di camere trasportabili. La massa complessiva superava facilmente i 40 kg, e la macchina richiedeva un montaggio fisso all’interno del laboratorio o della sala di posa. La base spesso integrava un meccanismo di sollevamento a vite per il piano di ripresa, utile per correggere l’inquadratura senza spostare fisicamente l’intera macchina. La verniciatura interna antiriflesso, i tendaggi di copertura in velluto nero e l’impiego di materiali di alta qualità ne facevano strumenti pensati per la lunga durata e la massima resa fotografica.
Una delle ragioni della notorietà della Studio Camera di C.G. Collins è il modo in cui il suo progetto tecnico sembrava anticipare la compatibilità con le ottiche più performanti dell’epoca. Le filettature frontali erano disponibili in passi universali, accettando obiettivi dei principali costruttori europei, tra cui J.H. Dallmeyer, Ross, Petzval, Hermagis e successivamente anche Zeiss. Le ottiche utilizzate in queste camere erano, nella maggior parte dei casi, lenti a lunga focale (dai 300 ai 450 mm), spesso ad ampia apertura, costruite per minimizzare le distorsioni geometriche e restituire sfocature morbide sullo sfondo, in linea con le esigenze ritrattistiche.
La struttura anteriore della camera, detta standard frontale, era mobile su guide in bronzo e dotata di sistema di inclinazione (tilt) e traslazione (shift), il che permetteva un controllo molto fine sulla prospettiva. Questo era particolarmente utile in ritratti ambientati o composizioni dove l’inquadratura richiedeva un lavoro più elaborato sulle linee di fuga. Il soffietto, allungabile anche oltre 90 cm, consentiva l’uso agevole di ottiche a focale molto lunga, aprendo la strada a sperimentazioni di tipo pittorialista e alle prime prove di flou artistico, senza perdita di nitidezza sul piano focale.
L’otturatore era esterno all’epoca: nella maggior parte dei casi si trattava di un lens cap shutter, ovvero la rimozione manuale del tappo dell’obiettivo. Solo successivamente, grazie all’adozione degli otturatori a settore o a tendina da parte di costruttori come Thornton-Pickard, alcune versioni avanzate della camera furono dotate di sistemi d’esposizione temporizzati. Collins era solito collaborare con altri artigiani per la fornitura di questi componenti secondari, mantenendo la struttura ottica e meccanica interna come tratto distintivo della propria manifattura.
Particolarmente rilevante è il fatto che le camere Collins non venissero vendute “complete”, ma bensì modulari. Il fotografo professionista poteva scegliere chassis, ottiche, basamenti e accessori in base alle proprie esigenze, dando così luogo a un sistema fotografico su misura, completamente adattabile, anticipando in un certo senso il concetto moderno di “sistema modulare a componenti intercambiabili”.
Il cuore operativo della Studio Camera di C.G. Collins era rappresentato da un banco ottico di precisione, la cui configurazione si rifaceva alle esigenze più pratiche della fotografia da cavalletto ma anche alla flessibilità necessaria per i lunghi tempi di posa del periodo. Il banco era solitamente costituito da due standard mobili – anteriore per l’obiettivo e posteriore per il piano focale – montati su guide metalliche ricavate in ottone pieno, fissate a un piano di base in legno massello spesso più di 3 cm. Questo assetto consentiva di spostare avanti e indietro i due elementi indipendentemente, regolando con altissima precisione il fuoco e la distanza tra lente e lastra.
Un elemento di spicco era il sistema di movimenti micrometrici: la camera disponeva di ruote dentate con cremagliere in ottone, azionabili da manopole laterali che trasmettevano il movimento tramite aste interne a scorrimento lineare. I meccanismi non erano lubrificati con olio, bensì con grafite naturale, che offriva un movimento fluido senza il rischio di attrazione di polveri o residui di emulsione fotografica. Questo tipo di progettazione rendeva la camera incredibilmente silenziosa e stabile, due fattori determinanti durante le lunghe esposizioni tipiche del ritratto in luce naturale.
Le dimensioni del piano portalastra posteriore erano calibrate per alloggiare chassis da 8×10”, 11×14” o addirittura 14×17”, ed erano dotati di uno sportello a tenuta di luce con sistema a molle, che poteva essere azionato con una sola mano. I piani interni erano rivestiti in velluto nero o cuoio trattato antiriflesso, e l’intero sistema era progettato per ridurre al minimo il flare interno e il rischio di velature dovute alla riflessione della luce sulle superfici lucide.
Il banco ottico Collins era anche regolabile in altezza, grazie a un sistema a pantografo montato su guide verticali e un meccanismo a manovella, spesso fissato direttamente sul cavalletto in ghisa o ferro battuto. Questo permetteva di portare il piano ottico all’altezza desiderata, mantenendo un assetto perfettamente orizzontale anche su pavimentazioni irregolari. In diversi modelli superstiti è possibile osservare anche sistemi di livellamento a bolla incassati nel piano di supporto.
Va notato che le camere da studio di Collins avevano una peculiarità visiva: l’uso di finimenti in ottone dorato lucido, un tratto distintivo che ne rende immediatamente riconoscibile la provenienza. Questa scelta non era soltanto estetica, ma aveva anche lo scopo di proteggere le componenti metalliche dalla corrosione in ambienti ad alta umidità, come spesso erano gli studi fotografici vicini a zone costiere.
Sebbene non esistano numeri di serie ufficiali o archivi completi relativi alla produzione delle camere da studio di Collins, gli esemplari superstiti indicano una distribuzione selettiva ma diffusa nel mondo anglosassone, con presenza documentata negli Stati Uniti orientali, nel Regno Unito, in Nuova Zelanda e in Australia. Le camere venivano distribuite direttamente attraverso corrispondenza privata o tramite alcuni rivenditori selezionati, come Scovill Manufacturing Co. o la Anthony & Scovill, che talvolta inserivano i prodotti Collins in cataloghi non numerati o supplementari.
Alcuni celebri ritrattisti dell’epoca fecero uso di questi apparecchi, spesso in configurazioni modificate: tra i più noti si ricordano William Notman in Canada, che ne possedeva un modello a doppia altezza con due chassis sovrapposti, e Frank Meadow Sutcliffe in Inghilterra, che usava una camera Collins con ottica Dallmeyer Soft Focus per i suoi celebri ritratti ambientati. Testimonianze fotografiche e inventari privati hanno documentato almeno cinque varianti note, con differenze nella lunghezza del soffietto, nella larghezza del banco e nel tipo di materiali utilizzati per il piano focale.
Le versioni tarde, prodotte probabilmente intorno al 1905, iniziarono a incorporare alcune innovazioni di epoca edoardiana, come l’adozione del metallo per le strutture portanti, e l’integrazione di otturatori a tempo meccanico nei corpi anteriori. Tuttavia, la vera essenza della Collins Studio Camera rimase ancorata alla sua anima tardo-vittoriana, con un’attenzione al dettaglio e una qualità artigianale che rende ogni esemplare una testimonianza unica della grande stagione della fotografia da studio.

Sono Manuela, autrice e amministratrice del sito web www.storiadellafotografia.com. La mia passione per la fotografia è nata molti anni fa, e da allora ho dedicato la mia vita professionale a esplorare e condividere la sua storia affascinante.
Con una solida formazione accademica in storia dell’arte, ho sviluppato una profonda comprensione delle intersezioni tra fotografia, cultura e società. Credo fermamente che la fotografia non sia solo una forma d’arte, ma anche un potente strumento di comunicazione e un prezioso archivio della nostra memoria collettiva.
La mia esperienza si estende oltre la scrittura; curo mostre fotografiche e pubblico articoli su riviste specializzate. Ho un occhio attento ai dettagli e cerco sempre di contestualizzare le opere fotografiche all’interno delle correnti storiche e sociali.
Attraverso il mio sito, offro una panoramica completa delle tappe fondamentali della fotografia, dai primi esperimenti ottocenteschi alle tecnologie digitali contemporanee. La mia missione è educare e ispirare, sottolineando l’importanza della fotografia come linguaggio universale.
Sono anche una sostenitrice della conservazione della memoria visiva. Ritengo che le immagini abbiano il potere di raccontare storie e preservare momenti significativi. Con un approccio critico e riflessivo, invito i miei lettori a considerare il valore estetico e l’impatto culturale delle fotografie.
Oltre al mio lavoro online, sono autrice di libri dedicati alla fotografia. La mia dedizione a questo campo continua a ispirare coloro che si avvicinano a questa forma d’arte. Il mio obiettivo è presentare la fotografia in modo chiaro e professionale, dimostrando la mia passione e competenza. Cerco di mantenere un equilibrio tra un tono formale e un registro comunicativo accessibile, per coinvolgere un pubblico ampio.