Frank Horvat nacque il 28 aprile 1928 ad Abbazia (oggi Opatija, Croazia), da famiglia ebraica di medici: il padre Karl era un illustre medico generico ungherese e la madre Adele psichiatra viennese. Nel 1939, all’età di undici anni, la famiglia fuggì dal clima di crescente fascismo in Italia e si stabilì a Lugano, in Svizzera, dove Horvat frequentò la scuola media e acquistò la sua prima macchina fotografica. Trasferitosi in seguito a Milano, studiò arti figurative all’Accademia di Brera, imprimendo nel suo percorso una solida base di sensibilità estetica. Morì a Parigi il 21 ottobre 2020, dopo oltre sei decenni di attività costellata da continue innovazioni tecniche e stilistiche.
Frank Horvat trascorse l’infanzia in un contesto familiare altamente colto, dove l’arte e la scienza erano dialetticamente connesse. A Milano, l’iscrizione all’Accademia di Brera lo avvicinò alla pittura e alla scultura, ma fu il suo primo incontro con il mezzo fotografico a orientarne definitivamente la carriera. La scelta di passare da formati medio formato (la Rolleiflex, allora diffusissima tra i fotogiornalisti) al 35 mm Leica, su consiglio esplicito di Henri Cartier-Bresson, segnò l’inizio di un approccio estremamente mobile e documentaristico. Questo cambio di strumento non fu mero vezzo: permetteva velocità di scatto, compattezza e una qualità ottica tale da rendere possibile l’uso della luce ambiente senza ausili di flash ingombranti.
Nei primi anni Quaranta, Horvat sperimentò le pellicole pancromatiche ad alta sensibilità, in particolare la Ilford HP5 Plus, sfruttando la loro latitudine di posa per ottenere contrasti più morbidi nelle scene urbane. Sviluppava personalmente i negativi in camera oscura, dosando meticolosamente i tempi di sviluppo e le diluizioni del developer per modulare il grano e la nitidezza in funzione del soggetto. Queste tecniche di controllo chimico restarono un suo tratto distintivo per tutta la vita: Horvat credeva fermamente che la resa finale dipendesse tanto dalla scelta della pellicola quanto dalle scelte in camera oscura.
All’inizio degli anni Cinquanta, terminati gli studi, cominciò a lavorare come fotogiornalista free-lance. Viaggiò in Asia – dall’India al Pakistan – realizzando reportage per riviste come Life, Réalités, Picture Post e Match. Fu in questo periodo che sviluppò un occhio attento ai dettagli culturali e architettonici, cogliendo archi, colonne e scorci urbani con una prospettiva che riecheggiava la sua formazione accademica. Le sue inquadrature privilegiano la regola dei terzi, ma spesso Horvat la declina in modo creativo, spostando il soggetto oltre il centro per enfatizzare la dinamica spaziale.
Approccio alla moda e innovazioni negli anni ’50 e ’60
Trasferitosi a Parigi nel 1955, Horvat si trovò immerso nel fervore della fotografia di moda post-bellica. Mentre molti colleghi usavano ancora grandi apparecchi a banco ottico con amplificatori di luce e flash rotanti, lui introdusse con audacia il 35 mm nel contesto fashion, affidandosi esclusivamente alla luce naturale. Questa scelta non era dettata da una semplice affinità estetica, ma da una precisa visione: voleva che gli abiti dialogassero con l’ambiente quotidiano, mostrando come la moda potesse inserirsi nella vita di tutti i giorni.
Il suo lavoro per Jardin des Modes rappresentò una svolta: inquadrature dinamiche su scale, marciapiedi e giardini, con modelle che interpretavano pose di vita reale, non statiche. L’uso di obiettivi grandangolari moderati (tra 28 mm e 35 mm) gli permise di catturare scenari urbani ampi, dando un contesto alle creazioni sartoriali mentre la sua competenza in metodiche HDR analogiche, ottenute tramite esposizioni multiple in camera oscura, restituiva un dettaglio eccezionale nelle alte luci e nelle ombre.
Negli anni Sessanta, Horvat consolidò la sua fama su riviste internazionali come Vogue (Londra), Elle (Parigi) e Harper’s Bazaar (New York). Continuò a sperimentare con pellicole a colori – in particolare la Kodachrome 64 per le sue saturazioni e la Ektachrome per i toni più tenui – sviluppandole con processi E-6 modificati per ottenere variazioni cromatiche personalizzate. Il suo uso della filtratura gialla e arancio non serviva solo a migliorare i contrasti nei ritratti, ma anche a creare atmosfere distintive, tanto che molti colleghi cercarono di emulare i suoi filtri senza riuscire tuttavia a riprodurre la delicatezza dei suoi toni.
Opere principali
Tra le realizzazioni più celebri di Horvat spiccano i reportage asiatici degli anni Cinquanta, ma è soprattutto la serie “New York Up and Down” (1982–1987) ad aver consolidato il suo nome nella storia della fotografia: ritratti rubati ai passeggeri della metropolitana e agli avventori dei caffè, scattati con il minimale ma discreto contax T2 e accompagnati da testi di autori come Franz Kafka. Qui Horvat applicò il principio del “momento decisivo” non più come evento singolo, ma come rete di istanti interconnessi, sovrapponendo in camera oscura più negativi per creare narrazioni complesse.
Un altro progetto chiave è “Très Similar” (1982–1986), dove esplorò il tema della ripetizione e della somiglianza fotografica: accostò ritratti di personalità diverse ma con pose analoghe, realizzando un dialogo tra sguardi e posture. In questi lavori l’uso di flash ad alta velocità e pellicole ad alta sensibilità (fino a ISO 800) gli consentì di isolare il soggetto su sfondi ampiamente sfocati, ottenendo un effetto quasi pittorico.
Nel 1993, con “Yao the Cat” e nel 1994 con “Bestiary”, Horvat si avvicinò alla grafica digitale, pur mantenendo un forte legame con il suo passato analogico: i negativi venivano scannerizzati con risoluzioni superiori ai 4.000 dpi e poi assemblati digitalmente, anticipando l’arrivo di Photoshop nelle pratiche artistiche. Queste opere mostrano un’attenta cura della texture e del dettaglio, mescolando macchie di luce, riflessi e trame organiche.
Sperimentazione digitale e ultimi progetti
Negli anni Novanta e Duemila, Horvat fu tra i primi professionisti a esplorare le potenzialità del fotoritocco e delle applicazioni su dispositivi mobili. Nel 1995, realizzò “Ovid’s Metamorphoses”, un libro in cui immagini classiche venivano manipolate in post-produzione, spezzando le regole del “momento decisivo” per dar vita a collage temporali. Usò versioni beta di Photoshop per mescolare elementi disparati in un’unica composizione, portando il fotomontaggio a livelli di sofisticazione allora impensabili.
Nel 1999 compose un diario fotografico quotidiano usando una compatta analogica, gesto che paradossalmente rivaleggiava con l’immediatezza introdotta dal digitale. Ma è con la nascita dell’iPad e delle prime app fotografiche che Horvat realizzò “Horvatland”, un’applicazione contenente oltre 2.000 scatti e dieci ore di commento audio: una retrospettiva interattiva che univa scrittura, audio e immagine, confermando la sua vocazione di pioniere. Portò avanti progetti come “Entre Vues”, raccolta di interviste a colleghi del calibro di Don McCullin, Robert Doisneau e Helmut Newton, approfondendo la tecnica dell’intervista audiovisiva e del ritratto psicologico.
Fino agli ultimi anni di vita, Horvat si dedicò a stampe di grande formato, sviluppando negativi sottili in gelatina d’argento per ottenere superfici luminose e materiche al tempo stesso. Nel 2010 ricevette il Premio Fondazione del Centenario a Lugano per il suo contributo alla cultura europea, riconoscimento che suggellò una carriera in continua ricerca di nuovi linguaggi fotografici.