Sergio Larraín Echeñique nacque il 27 luglio 1931 a Santiago del Cile, figlio di una famiglia di imprenditori agricoli profondamente legati al paesaggio rurale cileno, e morì il 7 febbraio 2012 a Los Molles, provincia di Valparaíso, in Cile. Il suo percorso personale fu segnato dall’incontro fra le radici latinoamericane e la lezione della grande fotografia europea, un miscuglio che si riflesse nelle sue immagini cariche di mistero e di tensione poetica.
Già da bambino, Larraín trascorreva lunghe ore fra i filari delle piantagioni della tenuta di famiglia, osservando i giochi di luce fra foglie e ombre. Questi primi stimoli plasmarono la sua sensibilità visiva, facendogli acquisire un naturale senso della composizione e dell’equilibrio tonale. All’età di quindici anni ricevette una Kodak Retina IIc, macchina a pellicola 35 mm con ottica Schneider-Kreuznach Xenar 50 mm f/2.8, che gli consentì di esaminare le basi dell’esposizione e il rapporto fra tempo di posa e profondità di campo. Utilizzò inizialmente pellicole Ilford FP4+ 125 ISO e Kodak Tri‑X 400, sviluppando in un piccolo laboratorio casalingo con bagni D‑76 a temperatura controllata (20 °C) e movimenti regolari del tank per assicurare una grana omogenea.
Durante gli studi di ingegneria commerciale all’Universidad Católica de Chile, Larraín frequentò i laboratori di fotografia analogica dove venivano ospitati ingranditori Durst e Leitz con ottiche asferiche per la stampa in grande formato. Qui imparò a padroneggiare il contact printing su carta baritata e le tecniche di tonalizzazione con bagni di citrato d’oro e selenio, che gli permisero di sperimentare tonalità lievemente seppiate e contrastate, esaltando gli accenti di luce sulle superfici metalliche o umide delle scene di strada. Fu in questo contesto che approfondì la conoscenza delle emulsioni panchromatiche e ortocromatiche, testando filtri di contrasto gialli e arancioni per la resa dei cieli o dei riflessi sulle strade bagnate di Santiago.
Il suo inquieto desiderio di comprensione della realtà urbana lo spinse a viaggiare per il Sud America già nei primi anni Cinquanta, alternando periodi di lavoro in una rivista locale con sperimentazioni sul campo. Convinto che la pratica fotografica dovesse sposarsi con l’osservazione antropologica, studiò le fotografie di Eugène Atget e di Henri Cartier‑Bresson, assimilandone le nozioni di momento decisivo e il rigore formale nella costruzione di inquadrature apparentemente informali.
Evoluzione stilistica e tecniche fotografiche
All’inizio degli anni Sessanta, durante un soggiorno a Parigi, Larraín approfondì la fotografia di strada frequentando il circolo degli street photographer d’oltralpe. Scoprì così una diversa concezione del mezzo fotografico: la scelta di un fotogramma in bianco e nero, la compresenza di figure umane e architetture, l’uso dell’iperfocale per assicurare che ogni elemento trovasse nitidezza nel fotogramma. In quegli anni adottò una Leica M3 con obiettivo Summicron 35 mm f/2, che gli consentiva di operare con grande discrezione, scattando a tempi rapidi fino a 1/250 s e a diaframmi compresi tra f/4 e f/8, in modo da ottenere un’adeguata profondità di campo senza sacrificare la velocità di ripresa.
La sua evoluzione tecnica lo portò a sperimentare il formato 6×6 con una Rolleiflex 2.8E su pellicola 120, preferendo la nitidezza dell’obiettivo Planar 80 mm e la resa della grana controllata sulle pellicole Tri‑X o Neo‑Pan 100. Nelle fotografie di piazza e di cortei politici, Larraín calibrava tempi di posa di 1/125 s e apriva il diaframma fino a f/2.8 quando voleva isolare un soggetto dal fondale, oppure chiudeva fino a f/16 per ottenere immagini in cui il contesto urbano compariva con chiarezza insieme alle figure umane.
L’approccio di Larraín alla camera oscura era altrettanto rigoroso: la scelta delle carte baritate da 270 g/m² e dei bagni di sviluppo a base di Metol‑Idrochinone gli garantivano stampe con neri profondi e ampie gradazioni di grigio, mentre le successive permanenti in fissaggio e i bagni di tonalizzazione al selenio creavano un’aura di antichità e di mistero. Questo stesso rigore si ritrovava nella scansione analogica dei suoi negativi a 4 000 dpi per preparare le edizioni limitate in grandi formati, elaborate in digitale solo per i ritocchi di pulizia, evitando qualsiasi sovrapposizione artificiale.
Progetti documentari e reportage
Nel 1964 Larraín fu assunto come fotografo ufficiale di un’importante testata cilena per realizzare un documentario visivo sulle trasformazioni urbane di Santiago. Armato della sua Leica con pellicola Tri‑X, percorse i quartieri emergenti, fissando le linee di una città in rapido sviluppo. La sua capacità di cogliere contrasti sociali si tradusse in immagini dove il cemento fresco degli edifici moderni conviveva con le sagome anziane di venditori ambulanti e con le geometrie dei carretti di frutta. Quei reportage furono pubblicati in pagine doppie, stampate in offset con separazione CMYK calibrata su luce naturale per mantenere i toni fedeli alle stampe baritate.
A partire dal 1966 intraprese una serie di viaggi in Europa e in Africa, documentando i processi di decolonizzazione e le tensioni culturali. Utilizzò una Nikon F con pellicola Ilford Delta 400, sviluppata in D‑76 a 24 °C per una grana più morbida rispetto alla Tri‑X, e testò filtri arancioni per scurire i cieli nei paesaggi semi‑aridi. In Marocco, fotografò i mercati di Marrakech con un’angolazione giocata sugli specchi d’acqua delle fontane, sfruttando la rifrazione e i riflessi come elementi compositivi. Nei paesi del Sahel, aprì il diaframma a f/2.8 per isolare volti e abiti tradizionali dal paesaggio vasto e arido.
La meta successiva fu l’Asia meridionale, dove Larraín realizzò un reportage intensivo su Cerimonie religiose e mercati di strada: impiegò una fotocamera medium format Bronica SQ‑A con film 120 a colori, probabilmente Fuji Provia 100F, per i servizi destinati alle riviste internazionali. In questo caso ottenne il massimo della saturazione cromatica accentuando la vividezza dei sari e dei tessuti locali, gestendo il bilanciamento del bianco in sviluppo E‑6 con bagni a 38 °C e una breve sobra a 15 °C per preservare i toni caldi dei tramonti monsonici.
Principali opere di Sergio Larraín
La produzione di Larraín è riunita in volumi d’autore che hanno fatto la storia della fotografia latinoamericana. Un primo libro, Santiago de Chile, raccolse i suoi scatti in bianco e nero della capitale, stampati in grande formato (20×25 cm) su carta baritata e presentati con tonalizzazione al selenio per un leggero cast seppia.
La serie più celebre è senza dubbio quella dedicata alla Valle de Elqui, dove Larraín fotografò la luce piena del deserto cileno con esposizioni variabili e un uso sapiente del banco ottico 4×5″ per catturare le sagome contadine in controluce all’alba. Le lastre furono sviluppate in bagni di sodio idrosolfito per attenuare il contrasto e mantenere dettagli nelle ombre dei pioppi e delle colline. Queste immagini furono esposte nel Museo de la Fotografía Alcalá 31 di Madrid, montate su pannelli retroilluminati che accentuavano la proiezione dei neri profondi.
Nel corso degli anni Ottanta, Larraín riunì i suoi ritratti estemporanei in un volume intitolato Pasajeros, in cui le fotografie di viaggiatori e pendolari erano state tutte realizzate con Leica M3 e pellicole Tri‑X 400 sviluppate in D‑76 a 20 °C, con un taglio frontale e tempi rapidi a 1/500 s per congelare l’espressività istantanea. Il design grafico del libro includeva finestrelle trasparenti che sovrapponevano le immagini, un omaggio alle sue sperimentazioni di sovrapposizione analogica.
Tra le mostre più importanti spicca quella tenuta nel 1992 al Museo de Arte Contemporáneo di Santiago, dove Larraín presentò anche la serie sperimentale delle Ombre in movimento: immagini a lunga esposizione (fino a 8 secondi) effettuate in interni con Leica M2 su pellicola Plus‑X 125, in cui le figure umane lasciavano scie luminose, evocando un pattern quasi etnico, ottenuto cedendo il controllo dell’otturatore a impulsi di mano libera e rotazione dell’apparecchio.
Negli anni Duemila le sue opere furono incluse in esposizioni collettive alle Biennali di Venezia e di São Paulo; in tali contesti, i suoi negativi vintage 35 mm e 6×6 vennero esposti in teche di vetro con illuminazione LED a 3 500 K per preservare la qualità chimica e dare allo spettatore la sensazione di trovarsi di fronte a un’antica pergamena.
Visione artistica e contributo storico
La lezione di Sergio Larraín si basa sull’idea che la fotografia sia un atto di scrittura visiva, capace di fissare non solo un’immagine ma un momento storico e un sentimento collettivo. Le sue immagini urbane, nate dall’incontro fra rigore tecnico e spirito vagabondo, hanno mostrato la complessità delle metropoli latinoamericane e dei paesaggi ancestrali, restituendo dignità a soggetti spesso dimenticati.
Il suo uso combinato di formati multipli (35 mm, 6×6, 4×5″), di emulsioni diverse, e di processi di sviluppo e tonalizzazione, documenta una ricerca continua di equilibrio fra controllo formale e immediatezza espressiva. Le sue fotografie di strada e i reportage documentari hanno influenzato generazioni di autori, mostrando come la fotografia possa essere al tempo stesso journalisticamente rigorosa e poeticamente evocativa.
In un panorama digitale in cui la post‑produzione tende a cancellare ogni imperfezione, l’esempio di Larraín ricorda l’importanza della matericità analogica, del rispetto dei tempi di sviluppo e stampa, e della bellezza insita nelle contraddizioni visive di un mondo in trasformazione.