Il concetto di Retrofocus nacque dalla necessità di risolvere un problema specifico delle fotocamere reflex a obiettivo singolo (SLR): la collisione tra lo specchio ribaltabile e gli elementi posteriori degli obiettivi grandangolari. Nei primi anni ’50, con la crescente popolarità delle reflex 35mm, divenne evidente che i tradizionali schemi ottici per grandangoli non potevano essere adattati a causa della ridotta distanza di back focus (la distanza tra l’ultimo elemento ottico e il piano pellicola). Uno schema convenzionale per un 35mm richiedeva una back focus di circa 40mm, mentre lo spazio disponibile dietro l’obiettivo, dopo il passaggio dello specchio, era spesso inferiore a 30mm.
Pierre Angénieux (1907-1998), fondatore dell’omonima azienda ottica francese nel 1935, affrontò questa sfida con un approccio radicale. Nel 1950 brevettò il primo obiettivo Retrofocus 35mm f/2.5, introducendo il concetto di teleobiettivo invertito. A differenza dei grandangolari tradizionali, che utilizzavano elementi frontali positivi, il design di Angénieux adottava un gruppo anteriore negativo (divergente) seguito da un gruppo posteriore positivo (convergente). Questa configurazione spostava il piano nodale posteriore oltre la struttura fisica dell’obiettivo, aumentando artificialmente la back focus pur mantenendo una lunghezza focale ridotta.
Il principio ottico alla base del Retrofocus può essere espresso attraverso l’equazione delle lenti sottili:
1f=1f1+1f2−df1f2
dove f1 è la focale del gruppo anteriore negativo, f2 quella del gruppo posteriore positivo, e d la distanza tra i due. La scelta di f1<0 e f2>0 permetteva di ottenere una focale complessiva f ridotta con una back focus estesa.
Nonostante il brevetto di Angénieux, lo sviluppo del Retrofocus fu preceduto da tentativi meno riusciti. Nel 1941, Rudolf Kingslake e Paul Stevens della Eastman Kodak avevano progettato il WA Ektanar, un obiettivo a quattro elementi che combinava un menisco negativo anteriore con uno schema Tessar modificato. Tuttavia, la back focus di questo design risultò insufficiente per le esigenze delle reflex. Parallelamente, nel 1949, Harry Zöllner e Rudolf Solisch della Zeiss Jena completarono il Flektogon 35mm f/2.8, presentato alla Fiera di Lipsia nel marzo 1950. Sebbene tecnicamente funzionante, il Flektogon soffriva di distorsione a barilotto e vignettatura marcata, limitandone l’adozione commerciale.
Il vero successo arrivò con la versione di Angénieux, che ottimizzò il bilanciamento tra correzione delle aberrazioni e compattezza meccanica. Il primo Retrofocus 35mm f/2.5 utilizzava sei elementi in cinque gruppi, con un gruppo anteriore a tre elementi negativi e un doppietto cementato posteriore. La distanza di back focus raggiungeva i 42mm, sufficiente per ospitare lo specchio delle reflex contemporanee come l’Alpa Prisma Reflex. Questo design divenne rapidamente lo standard per i grandangolari delle SLR, influenzando tutti i produttori principali.
Innovazioni tecniche e sfide progettuali
L’implementazione pratica dello schema Retrofocus richiese soluzioni innovative per gestire le complesse aberrazioni ottiche introdotte dalla configurazione asimmetrica. Il gruppo anteriore negativo, necessario per aumentare la back focus, generava una forte distorsione a barilotto e coma nelle aree periferiche dell’immagine. Per contrastare questi effetti, i progettisti svilupparono configurazioni con elementi asferici impliciti, ottenuti attraverso la combinazione di curvature sferiche e spessori variabili.
Un esempio chiave fu il Retrofocus 28mm f/3.5 di Angénieux, introdotto nel 1952. Questo obiettivo adottava un gruppo anteriore a quattro elementi, includendo un doppietto negativo-cementato con vetri ad alto indice di rifrazione (LaK9 e SF6). La scelta dei materiali ottici fu cruciale: l’uso di vetri flint pesanti (nd>1.65) nel gruppo anteriore permise di ridurre la curvatura delle superfici, mitigando l’aberrazione sferica obliqua. Il gruppo posteriore, composto da un tripletto cementato e un menisco positivo, correggendo la curvatura di campo attraverso un attento bilanciamento della somma di Petzval.
Le equazioni di correzione per la distorsione in un Retrofocus possono essere approssimate con:
D=y3f3(1n−1)(1R1−1R2)
dove y è l’altezza del raggio, n l’indice di rifrazione, e R1, R2 i raggi di curvatura degli elementi. I progettisti ottici scoprirono che l’inserimento di elementi divergenti con curvature concave rivolte verso l’esterno riduceva significativamente il valore di D.
Una sfida aggiuntiva fu il controllo del vignettamento, particolarmente pronunciato negli obiettivi Retrofocus a causa della lunga distanza tra il diaframma e il piano pellicola. La soluzione adottata da Angénieux nel 35mm f/2.5 fu l’uso di un diaframma a 10 lamelle posizionato esattamente a metà della lunghezza ottica, ottimizzando la distribuzione della luce attraverso i gruppi posteriori. Questo approccio ridusse il vignettamento a meno del 30% a f/5.6, un valore eccezionale per l’epoca.
Con l’avvento dei computer negli anni ’60, il design Retrofocus subì un’evoluzione radicale. L’ottimizzazione numerica permise di gestire fino a 20 variabili simultaneamente (raggi di curvatura, spessori, distanze, tipi di vetro), raggiungendo correzioni precedentemente impossibili. Il Nikkor 28mm f/2.8 AI-S del 1981, considerato uno dei Retrofocus più perfezionati, utilizzava sette elementi in otto gruppi con due elementi asferici lavorati a precisione micrometrica. La distorsione fu ridotta a meno dell’1.5%, mentre la risoluzione centrale superava i 100 lp/mm a f/4.
Impatto commerciale e varianti industriali
Il successo commerciale del Retrofocus trasformò radicalmente il mercato delle fotocamere reflex. Prima della sua introduzione, le SLR erano limitate a focali superiori ai 50mm, costringendo i fotografi a utilizzare telemetro per i grandangolari. Con il Retrofocus, produttori come Asahi Pentax, Nikon e Canon poterono offrire gamme complete di obiettivi per ogni esigenza, consolidando il dominio delle reflex nel mercato professionale.
La Carl Zeiss adottò una strategia differenziata: mentre la divisione orientale (Jena) continuò a produrre il Flektogon 35mm f/2.8, quella occidentale (Oberkochen) sviluppò il Distagon 35mm f/2, introdotto nel 1962. Questo obiettivo, con otto elementi in sei gruppi, introdusse l’uso di lenti ad alto contenuto di torio (ThO2) per migliorare la correzione cromatica, raggiungendo un rapporto di contrasto del 90% a 40 lp/mm già a f/2.8.
In Giappone, Canon rispose con il FL 19mm f/3.5 del 1964, il primo Retrofocus ultra-grandangolare per formato 35mm. La sua configurazione a 11 elementi in otto gruppi includeva un gruppo anteriore a cinque elementi negativi, con curvature estreme (raggi fino a 2.5mm) rese possibili dai progressi nella molatura del vetro. Nonostante una distorsione residua del 3%, divenne lo standard per la fotografia architettonica professionale.
L’evoluzione del Retrofocus influenzò anche lo sviluppo degli zoom. Il Zoomar 36-82mm f/2.8 del 1959, progettato da Frank Back per Voigtländer, adottava una configurazione Retrofocus variabile, permettendo per la prima volta l’uso di zoom sulle reflex. Questo design fu perfezionato da Angénieux nel 1964 con lo Zoom 35-140mm f/2.8 per cinema, che utilizzava quattro gruppi mobili in configurazione Retrofocus per mantenere una back focus costante durante la variazione focale.
Negli anni ’80, l’introduzione dei rivestimenti multistrato e dei vetri a bassa dispersione (ED, UD) permise di superare i limiti degli schemi Retrofocus tradizionali. Il Minolta AF 20mm f/2.8 del 1985, con 12 elementi in 10 gruppi, combinava elementi in fluorite sintetica con lenti asferiche stampate, riducendo l’aberrazione cromatica laterale a meno di 5 μm e la distorsione allo 0.8%. Questi progressi resero possibile l’adozione del Retrofocus anche nelle fotocamere digitali, dove la ridotta distanza tra obiettivo e sensore richiede back focus ancora più corte.