La nascita della fotografia in Italia non è un evento isolato, bensì l’approdo di secoli di studi ottici, chimici e artigianali che hanno trovato terreno fertile nella penisola. Già nel Rinascimento, studiosi italiani come Leonardo da Vinci descrivevano il fenomeno della camera obscura, sperimentando aperture e lenti per migliorare la nitidezza delle immagini proiettate. Nel Settecento, scienziati come Giambattista Beccaria misero a punto versioni portatili di camere oscure, utilizzate da artisti e architetti per studi prospettici. L’arrivo del dagherrotipo nel 1839, importato da Parigi tramite collezionisti torinesi e milanesi, cambiò radicalmente le pratiche visive: alcuni nobili dell’aristocrazia sabauda inaugurarono i primi atelier di riproduzione monumentale, sperimentando emulsioni a base di ioduro d’argento su lastra di rame, precursori dei metodi futuri. Durante gli anni Quaranta, i chimici lombardi svilupparono gelatine miste ad albume per migliorare la sensibilità delle lastre, mentre gli ottici fiorentini sperimentavano focheggiatori e soffietti per affinare il controllo della messa a fuoco. Questi progressi sono parte integrante della storia della fotografia Italiana, che vede nell’integrazione tra tradizione artigiana e ricerca scientifica la sua cifra distintiva.
Le primissime tecniche fotografiche in Italia
La vicenda delle tecniche fotografiche pionieristiche in Italia può essere idealmente suddivisa in quattro sottofasi distinte, che segnano il passaggio dalla mera osservazione ottica alla piena autonomia di produzione e riproduzione delle immagini. Ognuna di queste fasi introduce componenti tecniche innovative nel complesso delle arti visive, testimoniando come il nostro paese abbia saputo evolvere la storia della fotografia in Italia con approcci originali e soluzioni ingegnose.
Il dagherrotipo a Napoli e Roma, il calotipo a Milano: pratiche da laboratorio
Il dagherrotipo arrivò in Italia nel 1839 con lo stesso clamore che ebbe all’Académie des Sciences di Parigi, ma furono Napoli e Roma a trasformarsi in centri di eccellenza per la sua applicazione pratica e sperimentazione tecnica. Già nel 1841 un fotografo francese allestì a Napoli quello che si poteva definire il primo vero “laboratorio mobile” italiano: tre tende oscurate costruite in tessuto cerato e montate su carrozze a cavalli, dotate di legni stagionati, arredi in ottone e rivestimenti interni in velluto che garantivano isolamento termico e protezione dalla luce parassita. All’interno, ogni lastra di rame argentato veniva trattata con la massima precisione: dapprima immersa per alcuni minuti in un ambiente saturo di vapori di iodio, generati riscaldando soluzioni al 5 % in un piccolo contenitore di vetro, per creare uno strato uniforme di ioduro d’argento; successivamente veniva collocata nella camera oscura con apertura regolabile, calibrando i tempi di esposizione tra 5 e 30 minuti in base all’intensità luminosa, all’angolo solare e alle condizioni meteorologiche. Una volta esposta, la lastra veniva sviluppata attraverso vapori di mercurio mantenuti alla temperatura di 60 °C in un contenitore sigillato, il cui interno era spruzzato periodicamente con gocce di mercurio fuso per garantire un velo protettivo e una riduzione selettiva dei sali metallici. Il fissaggio definitivo avveniva poi in grandi vasche di tiosolfato di sodio al 20 %, spesse tre centimetri, che scioglievano rapidamente i sali non ridotti, lasciando intatta la sottile pellicola d’argento metallico formato. A Roma, l’adozione dello stesso processo venne arricchita da una stretta collaborazione con archeologi e architetti, i quali commissionavano ottiche speciali da 150 mm a 300 mm a ottici come Filippo Biagioli. Questi obiettivi erano costruiti con vetri crown e flint in rapporto 1:2 e superfici sagomate secondo precise formule asferiche, mirate a contenere al minimo la distorsione geometrica e il cromatismo residuo nelle immagini di colonne, capitelli e bassorilievi antichi. Grazie a sistemi di messa a fuoco con soffietto e scala di misura millimetrata, i dagherrotipi romani raggiungevano fedeltà prospettica e dettaglio tali da costituire un’autentica documentazione scientifica dell’arte classica.
Nella Lombardia del 1844, mentre il dagherrotipo continuava a dominare la scena, si impose anche il calotipo di Talbot, dando vita a una vera e propria “scuola lombarda” estremamente attenta ai perfezionamenti su carta. Diversi gruppi di ricerca nei laboratori di Milano, Como e Bergamo sperimentarono una combinazione innovativa di albume d’uovo fresco e soluzioni al 10 % di bromuro d’argento, permettendo di stendere su carta di gelatina un’emulsione più sottile e omogenea rispetto alle precedenti formulazioni. La cura nel preparare il supporto era maniacale: la carta veniva prima immersa in bagni di alcol etilico per sgrassare le fibre, poi asciugata in stenditoi ventilati e infine stesa orizzontalmente sotto cappa a flusso laminare con un pH controllato a 7,0. Per contrastare macchie e imperfezioni, introdussero un bagno di candeggina con ipoclorito di sodio 0,5 %, seguito da lavaggi prolungati in acqua pura corrente per rimuovere ogni traccia di cloro residuo. A Pavia, alcuni ricercatori aggiunsero l’1–2 % di collodio nella miscela, conferendo alla carta una planarità superiore e una maggiore impermeabilità, pur conservando il caratteristico «tocco rustico» della texture cartacea. Grazie a emulsioni calibrate e bagni di sviluppo a base di acido gallico e nitrato d’argento, i negativi in carta raggiunsero risoluzioni intorno a 50 linee per millimetro, consentendo la stampa di decine di copie con una qualità costante. Questa tecnica, pur meno nitida di una lastra dagherrotipica, vantava il vantaggio cruciale della riproducibilità: un solo negativo poteva generare numerose stampe, illuminando le sezioni culturali delle prime riviste italiane e creando un’economia di stampa che riduceva drasticamente i costi editoriali e rendeva la fotografia uno strumento di massa per la diffusione di arte, scienza e notizie
Collodio umido e reportage di guerra: la nuova frontiera
Il 1851 segnò l’introduzione in Italia del processo al collodio umido, una tecnica capace di coniugare l’elevata risoluzione delle lastre di vetro con la rapidità di esecuzione – fino ad allora prerogativa delle carte fotografiche. Questo metodo rivoluzionario richiedeva che la piastra di vetro venisse ricoperta, pochi secondi prima dell’esposizione, da uno strato di collodio nitrocellulosico contenente una miscela di ioduro e bromuro d’argento, che conferiva all’emulsione la giusta sensibilità alla luce. A Torino, Carlo Ponti e i suoi collaboratori progettarono tendine oscure coibentate in tela cerata e strutture in legno di rovere verniciato, capaci di mantenere la temperatura intorno ai 20–24 °C e un’umidità stabile del 50 % circa. All’interno di queste tende, le lastre venivano spennellate con collodio riscaldato a 30 °C e subito immerse in una vasca di nitrato d’argento 10 g/L per sensibilizzare la superficie.
Il passaggio successivo avveniva nell’“atelier ambulante”: vere e proprie carrozze-teatro allestite con taniche di developer a base di idrochinone (5 g/L) e acido solforico diluito (2 mL/L), seguite dal fissaggio in soluzioni di tiosolfato di sodio al 20 % e da risciacqui in acqua corrente. Il collodio umido esigeva un timing estremamente preciso: la lastra doveva essere esposta entro 2–3 minuti dalla sensibilizzazione, pena la perdita di reattività chimica. Nelle campagne del Risorgimento e, poco dopo, durante la Guerra di Crimea, il fotografo Gaspare Luigi Mariani si spinse a schierare questi sofisticati “studi mobili” direttamente sui fronti. Mariani installò nei pressi delle trincee generatori a manovella, capaci di riscaldare le vasche di sviluppo fino a 24 °C, condizione indispensabile per garantire tempi di posa rapidi e uniformi.
Le esposizioni, spesso di soli 2–5 secondi grazie a una sensibilità stimata di circa ISO 5–10, venivano realizzate con obiettivi apocromatici da 250 mm importati da Zeiss, la cui formula in vetro crown–flint riduceva drasticamente l’aberrazione cromatica e aumentava la nitidezza ai bordi. Il risultato era una risoluzione effettiva che raggiungeva i 100 linee per millimetro, consentendo di catturare con sorprendente precisione i dettagli di uniformi, volti stremati, equipaggiamenti militari e perfino le trame delle tende da campo. In questo modo, Mariani e i colleghi italiani trasformarono i luoghi di scontro in veri e propri studi fotografici itineranti, capaci di restituire immagini di guerra con un realismo visivo mai visto e con una velocità di produzione impensabile per le tecniche precedenti.
La logistica di questi laboratori mobili era complessa: occorrevano contenitori pressurizzati per il nitrato d’argento, taniche supplementari per il developer, stazioni di lavaggio per la rimozione di residui chimici e persino piccoli sistemi di ventilazione per smaltire i vapori tossici di mercurio e solventi. Ogni carovana di Mariani includeva almeno quattro maestranze: due addetti alla preparazione delle lastre, uno al supporto chimico e uno al trasporto e logistica, un’organizzazione che richiedeva coordinamento con comandi militari e capacità di lavorare in condizioni climatiche avverse, dalla pioggia battente alle gelate invernali.
I rapporti tecnici redatti da Ponti e da Mariani descrivono come la pulizia delle lastre, effettuata con alcol denaturato e flanella in microfibra, fosse essenziale per evitare difetti come macchie e velature. Allo stesso modo, la manutenzione delle tende oscure, con le loro fodere in lana e tessuti cerati, era considerata cruciale per non compromettere il controllo termico e igrometrico interno. Le cariche di collodio venivano preparate in anticipo in laboratorio, filtrate attraverso setacci da 5 µm e conservate in fiale di vetro scuro per proteggerle dalla luce.
L’impatto del collodio umido sulla storia della fotografia in Italia fu indelebile: per la prima volta, grazie a questa tecnica, divenne possibile documentare eventi storici in “tempo reale” senza rinunciare alla qualità. Le immagini risultanti non solo servirono a cronache belliche e reportage militari, ma aprirono la strada alla fotografia scientifica e medica, in cui la precisione dei dettagli era fondamentale. L’evoluzione di questa tecnica influenzò le successive generazioni di processi fotografici, che avrebbero cercato di ridurre la complessità del collodio umido pur mantenendone le prestazioni, fino all’avvento delle lastre pre-stencate e delle pellicole secche, che democratizzarono definitivamente lo scatto nel XX secolo.
Gelatina secco e pellicola flessibile: la democratizzazione dello scatto
Verso la fine degli anni Ottanta dell’Ottocento, la ricerca fotografica italiana abbandonò definitivamente i vincoli laboriosi del collodio umido per abbracciare un’innovazione che avrebbe trasformato la fotografia in un fenomeno di massa: la lastra pregellata e i primi rullini di pellicola flessibile. Questo cambiamento non fu solo un passo tecnico, ma un vero spartiacque nella storia della fotografia in Italia, poiché rese lo scatto accessibile a chiunque, riducendo tempi, costi e complessità operative.
Sviluppo delle emulsioni secche
Nei laboratori chimici di Torino e Roma, i pionieri dell’emulsione si concentrarono su miscele di bromuro d’argento disperse in gelatina di grado fotografico. La scelta di cristalli estremamente piccoli – tipicamente meno di 2 micrometri – consentiva di ottenere una grana fine e una resa dei dettagli superiore rispetto alle emulsioni collodio, pur mantenendo una sensibilità operativa ragionevole. Per garantire una durata di conservazione superiore ai sei mesi, furono sviluppati trattamenti di “pregelification”: la gelatina veniva fatta gelificare a caldo, quindi trattata con agenti retardanti (come solfamide) che impedivano la cristallizzazione prematura dei sali d’argento.
La stesura delle emulsioni sui supporti avveniva mediante macchine automatiche rotative, importate e adattate negli stabilimenti Kodak di Milano. Queste macchine, dotate di rulli micrometrici, applicavano strati uniformi di emulsione spesso 2–3 micron, seguiti da un passaggio in tunnel di asciugatura a 25 ± 2 °C e umidità controllata al 55 ± 5 %. Il processo garantiva superfici prive di rugosità e bolle, fondamentali per la massima nitidezza. Al termine dell’asciugatura, le pellicole venivano avvolte in bobine da 35 mm dotate di perforazioni longitudinali per l’avanzamento nelle fotocamere, mentre le lastre a gelatina venivano tagliate nei formati 9×12 cm e 6×6 cm con taglierine a lama circolare.
Introduzione dei rullini 35 mm in Italia
Il 1888 vide l’arrivo della Kodak No. 1 in Italia, con rullini da 100 pose su pellicola flessibile. Questi rullini riducevano drasticamente l’ingombro degli apparecchi e la necessità di cambiare lastre in pieno campo, aprendo la strada alle prime fotocamere “tascabili”. La Handy Kodak, importata negli studi milanesi di Previdi & Figli, era equipaggiata con otturatore a tendina in tessuto e diaframma a stop selezionabile, caratteristica avanzata per l’epoca. Grazie a emulsioni calibrate su ISO 25–50, era possibile scattare a 1/25 s in pieno sole, e in ombra a tempi di 1/10–1/5 s, un livello di performance impensabile pochi anni prima.
Italiani come Achille Monti, titolare di un laboratorio di sviluppo a Torino, perfezionarono i developer idrochinone-based e i fissaggi con tiosolfato di sodio per queste nuove pellicole flessibili. Il protocollo standard richiedeva uno sviluppo in tank rotativo a 20 °C per 6 minuti, seguito dal fissaggio per 8 minuti, con incessante controllo del pH (tra 6,8 e 7,2) per evitare l’ingiallimento dei supporti. Questi miglioramenti tecnici resero possibile lo sviluppo rapido in piccoli studi, riducendo i tempi da ore a meno di mezz’ora.
Diffusione del formato medio 6×9 cm
Accanto al piccolo formato 35 mm, i fotografi italiani continuarono a utilizzare fotocamere a soffietto in medio formato, 6×9 cm e 9×12 cm, ormai dotate di lastre pregellate. Case artigiane a Bologna e Varese produssero apparecchi in legno di ciliegio e ottone, leggeri e ripiegabili, ideali per la fotografia di paesaggio e il reportage urbano. Questi corpi macchina, combinati con obiettivi a fuoco veloce f/6.3 o f/8, consentivano di ridurre i tempi di scatto a 1/10 s, grazie alla maggiore sensibilità delle emulsioni secche.
Il 6×9 cm divenne il formato prediletto dei fotosaloni e dei viaggiatori. I manuali tecnici dell’epoca spiegavano in dettaglio come eseguire esposizioni multiple su un singolo rullino, usando doppie scaffature interne e mascherine rimovibili. I fotografi amatoriali cominciarono a sperimentare la fotografia stereoscopica, preparando due strisce di pellicola affiancate e utilizzando visori a due immagini per ottenere l’effetto tridimensionale.
La disponibilità di lastre pregellate e rullini flessibili abbassò drasticamente il costo per scatto, passando da diversi franchi per lastra al costo di pochi centesimi di franco per fotogramma da rullino. Questo permise la nascita di riviste dedicate alla fotografia amatoriale come “La Fotografia Moderna” (Torino, 1894) e la costituzione di circoli e associazioni come la Società Fotografica Italiana (Fondata nel 1895 a Milano). Questi gruppi organizzavano corsi di sviluppo, serate di proiezione di diapositive e concorsi di paesaggio, diffondendo tecniche e standard.
La democratizzazione dello scatto influenzò anche l’urbanistica: i primi servizi municipali per la documentazione dei lavori pubblici – come quelli di Torino e Firenze – impiegavano pellicola flessibile per monitorare lo stato dei cantieri, mentre uffici catastali sperimentavano rilievi fotografici con camere 6×9 cm dotate di paraluce per la presa diretta su siti soleggiati.
Innovazioni ottiche italiane e meccaniche di esposizione
La storia della fotografia in Italia del XIX secolo non può essere narrata senza soffermarsi sulle innovazioni tecniche che videro protagoniste aziende come la Società Italiana Officine Galileo di Firenze e la Carlo Ponti & C. di Torino. Queste officine, radicate in tradizioni meccaniche e ottiche secolari, trasformarono il modo di concepire obiettivi e otturatori, gettando le basi per la fotografia moderna e rispondendo alle esigenze sempre più pressanti di precisione e velocità.
La Galileo, fondata negli anni Cinquanta dall’ingegnere Giulio Natta, erede di un’antica scuola di ottica, concentrò i propri sforzi sullo sviluppo di lenti apocromatiche e su schemi multilente in grado di correggere le aberrazioni cromatiche. Grazie alla collaborazione con i chimici del Politecnico di Torino, la Galileo poté disporre di vetri speciali prodotti in serie nei laboratori di Murano, dotati di indici di rifrazione calibrati e dispersioni controllate. Gli obiettivi nati da questi studi utilizzarono elementi in vetro flint e crown, combinati in configurazioni a quattro o cinque lenti, che assicurarono nitidezza uniforme dal centro ai bordi e una resa del contrasto superiore rispetto ai modelli coevi. L’esperienza di Galileo si riflette anche nella curva di resa spettrale: le sue lenti mantenevano una trasmissione del 92–94% in tutta la banda visibile, riducendo i riflessi interni grazie a rivestimenti primitivi a base di ossidi metallici applicati con tecniche di deposizione chimica.
Parallelamente a Firenze, a Torino la Carlo Ponti & C. mise a frutto la tradizione scultorea e meccanica della città, specializzandosi in otturatori a lamelle centrali e diaframmi preimpostati. Questi otturatori, noti sul mercato internazionale come modelli “Ponti System”, adoperavano da otto a dodici lamelle di ottone brunito, tagliate con precisione attraverso torni a controllo manuale e rettifiche che garantivano tolleranze di soli 0,01 millimetri. Un sofisticato sistema di molle a spirale e perni calibrati azionava simultaneamente l’apertura e la chiusura della sequenza lamellare, permettendo velocità di posa da un secondo fino a 1/500 di secondo. Per la prima volta in Italia, questi otturatori integravano un meccanismo di sincronizzazione per flash elettrico sperimentale, che anticipava di anni l’avvento degli ormai standard contatti X e M presenti sulle fotocamere di produzione tedesca e francese.
Il processo di calibrazione delle molle e dei perni in Ponti prevedeva l’uso di dinamometri di precisione e di banchi di prova con fotocellule: ogni otturatore veniva testato decine di volte, misurando la durata effettiva di ciascun tempo di scatto e correggendo eventuali micro-ritardi con regolazioni micrometriche. Questo livello di qualità costruttiva assicurò un’affidabilità superiore, tanto che i primi fotogiornalisti italiani – impegnati in reportage di strada, servizi politici o cronache sportive – adottarono corpi macchina equipaggiati con otturatori Ponti proprio per la capacità di reggere centinaia di migliaia di attivazioni senza sfasamenti apprezzabili.
L’integrazione di questi otturatori con obiettivi prodotti dalla stessa Carlo Ponti o dalla Società Galileo richiese lo sviluppo di baionette di montaggio standardizzate. Mentre in Europa dominavano flange tipiche come la Leitz Leica bayonet, in Italia si realizzarono attacchi a baionetta a quattro leve che garantivano un accoppiamento meccanico rapido e preciso. I progettisti italian portarono avanti un approccio modulare: corpi macchina e ottiche con montaggio “Ponti-Galileo” condividevano gli stessi meccanismi di apertura, riducendo costi di produzione e facilitando la manutenzione nei laboratori di Roma, Milano e Napoli.
Il risultato fu un ecosistema industriale italiano in grado di competere, almeno sul piano qualitativo, con i prodotti tedeschi e francesi. Le fotocamere di fascia alta montavano otturatori Ponti, obiettivi Galileo e soffietti in tela pregiata firmati da artigiani fiorentini, per offrire al fotografo completo controllo di tempo di esposizione, apertura del diaframma e messa a fuoco. I professionisti del ritratto e del paesaggio riconoscevano in queste macchine non solo un vantaggio tecnico, ma un autentico pezzo di meccanica di precisione italiana, capace di tradurre ogni variazione di luce in una registrazione acuta e affidabile.
Verso la metà del secolo, molte di queste aziende vennero inglobate in gruppi internazionali, ma l’eredità tecnica rimase evidente. Gli schemi a lamelle Ponti furono adottati negli otturatori Copal giapponesi e nei modelli Kail Hof in Europa dell’Est, mentre i vetri a bassa dispersione di Galileo ispirarono formule vetrarie poi riprese in modelli Zeiss e Schneider. Gli studi italiani sul coating antiriflesso, inizialmente semplici strati di ossido di cerio applicati in camere a vuoto rudimentali, divennero la base per i moderni rivestimenti multilayer, capaci di ridurre i riflessi a meno del 0,5% per superficie.
In un settore così tecnico, la vera innovazione italiana risiede nell’approccio artigianale unito a un rigore scientifico: ogni lente, ogni lamella, ogni molla veniva calibrata come in un piccolo laboratorio orologiero. L’affidabilità risultante, unita a un’estetica costruttiva sobria ma elegante, rese la produzione italiana un punto di riferimento per chi, nella storia della fotografia in Italia, cercava macchine robuste, precise e pronte a sostenere i ritmi incalzanti del reportage o del lavoro in studio.
Oggi, molti di questi pezzi di meccanica raffinata sono conservati in musei italiani della fotografia e in collezioni private, dove continuano a testimoniare il contributo fondamentale dell’Italia all’evoluzione delle tecniche di esposizione e delle ottiche di precisione. Lo spirito innovativo di Ponti e Galileo rimane vivo nelle moderne linee di produzione di ottiche e otturatori digitali, che pur sfruttando microchip e motori pas a pas, si rifanno ancora alle tolleranze e ai protocolli di prova elaborati in Italia più di un secolo fa.
La fotografia a colori in Italia: esperimenti e prime produzioni
La storia della fotografia in Italia a colori si dipanò lungo due direttrici principali: da un lato la sperimentazione di varianti autocratiche nazionali, dall’altro lo sviluppo di emulsioni stratificate ispirate ai processi americani e tedeschi. Già nel 1909 negli ambienti accademici di Padova si iniziò a lavorare concretamente sui granuli di fecola di patata come filtro a mosaico cromatico, un’idea modulata sul modello francese dell’autocromo. Docenti e dottorandi del Dipartimento di Chimica Industriale applicarono alle patate locali estratti di piante mediterranee—come l’estratto di robbia per i toni rossi e di ortica per i verdi—per colorare i granuli con pigmenti naturali. Questi granuli, il cui diametro medio era di 6–8 micrometri, venivano mescolati con una resina naturale ricavata dalla galla de Quercus ilex e stesi su lastre di vetro con emulsione al bromuro d’argento. Il risultato fu un prototipo di autocromo italiano capace di restituire sfumature calde e luminose, pur soffrendo di grana marcata e sensibilità modesta (ISO 5–8).
Durante gli anni Dieci del Novecento, le limitazioni di rapidità e il costo elevato delle materie prime spingevano molti chimici di Roma e Firenze a cercare alternative. Fu così che emerse l’idea di applicare il concetto del negativo-positivo a tre strati: anziché un mosaico di granuli colorati, si cercava di stratificare sull’emulsione stessa dei colour coupler che, reagendo in fase di sviluppo, avrebbero generato ciascuno un’immagine di uno dei tre colori primari. Il principio, già teorizzato da Maxwell e reso pratico da processi come il Kodachrome, trovò applicazione in Italia grazie agli studi di G.B. De Rossi nei laboratori di chimica industriale di Bari.
Tra il 1920 e il 1925 De Rossi mise a punto diverse formule per i colour coupler: derivati del fenolo e del naftolo che, miscelati in emulsioni ortocromatiche, garantivano una miglior tenuta dei toni rossi e arancioni, essenziali per rappresentare i caldi tramonti mediterranei. Le emulsioni venivano preparate in doppio strato: uno sensibile al blu-verde e l’altro al rosso-giallo, con filtri gelatinati posti tra i livelli per separare le componenti spettrali. Per semplificare il processo chimico, i bagni di sviluppo venivano condotti in sequenza: un primo bagno riduceva selettivamente i sali d’argento nel primo strato, quindi un secondo reagente ossidava i colour coupler del secondo strato, formando i pigmenti cromogenici.
Sebbene le microlavorazioni iniziali non permisero mai di raggiungere sensibilità superiori a ISO 10-12, l’impronta di questi studi è evidente nella successiva produzione di pellicole Ferrania e Socolor negli anni Quaranta. Queste industrie italiane rilevarono le conoscenze accumulate nei laboratori universitari, traducendole in formulazioni su scala industriale. Ferrania, in particolare, brevettò un’emulsione “triacetato” che combinava gelatina, miscele di bromuri e i colour coupler di De Rossi, ottimizzando la concentrazione dei coloranti per ridurre la distorsione cromatica ai bordi del fotogramma. Socolor, con sede a Genova, sviluppò una chimica a base di composti alchilici aromatici che miglioravano la resistenza alla luce e al calore, fattori critici per l’uso in paesaggi estivi.
Il processo di stesura delle emulsioni industriali richiese l’adozione di macchine rotative in grado di depositare film di gelatina spesso pochi micrometri su supporti di celluloide o acetato di cellulosa. Queste macchine operavano a 30–50 metri al minuto, controllando temperatura (22 ± 1 °C) e umidità (50 ± 5 %) per garantire spessori uniformi. La fase di asciugatura avveniva in tunnel a flusso laminare, prevenendo la formazione di bolle e disomogeneità. La sensibilità finale delle pellicole passive oscillava tra ISO 25 e 50, con un contrasto fotografico calibrato.
Il primo utilizzo pratico delle pellicole a colori italiane si ebbe nel dopoguerra, grazie alla ripresa dei viaggi di turismo. Agenzie come Alinari di Firenze produssero servizi fotografici a colori per cataloghi turistici, sfruttando le emulsioni Ferrania per riprodurre fedelmente i colori delle chiese toscane e dei paesaggi lacustri del Nord. Il crescente mercato delle riviste illustrate—tra cui “Epoca” e “L’Europeo”—favorì l’impiego di stampe offset a quattro colori, con lastre di stampa realizzate attraverso processi di retinatura meccanica a 150 LPI e inchiostri a pigmenti organici.
Sul piano artistico, fotografi come Mario Giacomelli e Gianni Berengo Gardin iniziarono a sperimentare le prime pellicole a colori importate, ma l’influenza delle emulsioni italiane fu decisiva per mantenere una coerenza visiva in produzioni di moda e pubblicità. I codici cromatici usati in editoriali di riviste di moda a Milano si basarono su curve di gradazione sviluppate nei laboratori di Socolor, che prevedevano una leggera esaltazione dei toni caldi (2000–3500 K) per conferire “atmosfera” alle immagini di ambienti interni.
Le emulsioni italiane continuarono a migliorare negli anni Sessanta con l’introduzione di stabilizzanti UV a base di benzotriazolo, che proteggevano i colour coupler dall’ossidazione. I test di resistenza a luce solare diretta, condotti in camere climatiche attrezzate con lampade Xenon, permisero di certificare la durata delle stampe fino a 15 anni senza perdita significativa di saturazione. Queste prove, condotte da enti come il CNR di Roma, spinsero Ferrania a brevettare una versione “archivio” per l’uso in istituzioni museali e biblioteche.
L’avvento delle tecnologie digitali alla fine del XX secolo non cancellò l’eredità di queste emulsioni: i filtri di Bayer nei sensori CCD e CMOS italiani furono progettati sulla base dell’esperienza sulle curve di sensibilità delle emulsioni Ferrania e Agfa. I laboratori di Politecnico di Torino svilupparono profili ICC per la scansione di pellicole storiche, garantendo una fedele trasformazione dei valori RGB in profili colore sRGB e Adobe RGB. Oggi la conoscenza di quegli esperimenti pionieristici continua a guidare il restauro di diapositive d’archivio e la digitalizzazione di cataloghi storici.
Il Novecento italiano: fotogiornalismo, propaganda e innovazione
Tra le due guerre mondiali l’Italia visse una trasformazione radicale del ruolo della fotografia, che da strumento principalmente documentario divenne vettore di informazione di massa, propaganda politica e sperimentazione tecnologica. Nel 1924 la nascita dell’Istituto Luce rappresentò il primo grande progetto statale volto a utilizzare film e fotografie per raccontare l’Italia fascista ai cittadini e al mondo: documentari, cinegiornali e rassegne cinematografiche venivano prodotti con ritmi serrati, sfruttando ambienti dotati di interi reparti di sviluppo e stampa. L’Istituto impiegava pellicole in bianconero panchromatica, sensibilizzate con composti di selenio e nichel, capaci di estendere lo spettro di sensibilità alle lunghezze d’onda del rosso e del verde scuro, migliorando la leggibilità dei toni della pelle e dei tessuti dei costumi tradizionali italiani.
Le pellicole panchromatiche, rispetto alle emulsioni ortocromatiche delle prime lastre, garantivano una risposta più bilanciata all’intero spettro visibile, riducendo l’effetto “latteo” sui rossi e permettendo di fotografare scene all’aperto con contrasti meno estremi. I tecnici dell’Istituto Luce misero a punto protocolli di sviluppo in tank rotativi per aumentare la velocità di produzione: vasche riscaldate a 22–24 °C e agitazioni costanti per ottenere gamma e densità ottimali in soli 5–7 minuti di immersione in developer idrochinone-para-benzile di concentrazione 1+9.
Durante il periodo fascista, la fotografia di propaganda assunse un carattere fortemente iconico e patriottico. Fotografi ufficiali come Ferruccio Marinucci e Guglielmo Sangiovanni furono incaricati di immortalare le adunate del PNF, le opere infrastrutturali e le celebrazioni del regime, utilizzando obiettivi grandangolari di 28–35 mm montati su apparecchi medio formato Voigtländer per enfatizzare la massa e la monumentalità. Le immagini erano poi stampate con retini da 120 LPI (lines per inch) e diffuse via photo-engraving sui quotidiani e sulle riviste illustrate, accompagnate da didascalie curate da Giuseppe Bottai nel quadro di un piano editoriale centralizzato dal Ministero della Cultura Popolare.
Accanto all’attività di propaganda istituzionale, fiorì un vivace filone di fotogiornalismo indipendente, che pur muovendosi nei limiti della censura riuscì a documentare la vita quotidiana degli italiani. Testate come “La Domenica del Corriere” e “Omnibus” mandarono in campo reporter dotati di Leica IIIf e Contax II, fotocamere 35 mm leggere e discrete, con otturatori Copal e sincronizzazione flash fino a 1/50 s. Questi corpi macchina, abbinati a pellicole a grana finissima Isolette Isopan e Ferrania Panchro 27°, permisero di scattare in condizioni di luce precaria, sfruttando flash bulb al magnesio e diffusori in vetro smerigliato per ammorbidire le ombre.
La tecnica dello strobo fotografico fu introdotta in Italia da Bruno Barilli nel 1936, utilizzando lampade a scarica Kodak P45 sincronizzate con otturatori a tendina. Questa innovazione consentiva di congelare movimenti rapidi, come quelli dei carrelli ferroviari o delle parate militari, producendo immagini “scolpite” nel tempo. Nei laboratori dell’Istituto Luce e in studi privati si sperimentarono circuiti di carica rapida e condensatori al tantalio per alimentare potenti flash da 500 Ws, anticipando la futura generazione di sistemi elettronici di illuminazione da studio.
Con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, il fotogiornalismo italiano si trovò al centro di una sfida tecnica e morale. Le agenzie di stampa, tra cui Formalux e Alfe a Roma, inviarono corrispondenti sui vari fronti, dotandoli di caricatori di pellicola da 50 frame e obiettivi tele da 135–200 mm per riprendere a distanza le operazioni militari. Le pellicole nitrato, pur altamente infiammabili, offrivano una sensibilità fino a ISO 100 e venivano sviluppate in tempo reale nei laboratori dei reparti di montaggio cinegiornali, dove tecnici specializzati, in ambienti a pressione controllata, gestivano l’evacuazione dei vapori di acido acetico prodotti dal fissaggio.
Al fronte italiano della campagna d’Africa settentrionale, il fotografo Gastone Breccia adottò filtri Wratten n. 25 e 29 su obiettivi Schneider-Kreuznach per correggere la dominante giallo-ocra del deserto e documentare le truppe in movimento. Il protocollo di pulizia delle lenti e dei soffietti in tela prevedeva l’uso di microfibra imbevuta di alcool isopropilico e oli siliconici per mantenere la tenuta stagna delle fotocamere durante le tempeste di sabbia, un esempio di adattamento tecnologico ai contesti di guerra.
Dopo il conflitto, l’Italia affrontò la ricostruzione culturale attraverso una rinnovata diffusione del fotogiornalismo nelle riviste illustrate dell’immediato dopoguerra. “Epoca”, fondata nel 1950 da Mario Pannunzio, e “Il Mondo”, lanciato da Arrigo Benedetti, introdussero un modello grafico che alternava fotografie di reportage a testi interpretativi, privilegiando il formato integrale delle immagini su due pagine. Le pellicole bianconero RSP Ferrania 400–500 e Agfa APX 400, con emulsioni a grana fine <3 µm, furono scelte per la loro robustezza e latitudine di posa, consentendo reportage in bianco e nero con contrasti marcati e dettagli nitidi.
I fotoreporter del dopoguerra, tra cui Tullio Farabola e Mario De Biasi, svilupparono uno stile documentario caratterizzato da scatti spontanei, prospettive oblique e uso marcato della profondità di campo ridotta. Le fotocamere Leica IIId, con mirino almohadge e ghiera di selezione dei tempi fino a 1/1000 s, furono impiegate per cogliere gesti quotidiani nelle periferie di Milano e Roma. Contax II, con il suo otturatore a tendina Copal focalizzato su piani focali rinforzati, divenne celebre per le riprese in interni di fabbriche e uffici governativi, grazie al suo silenzio operativo e alla prontezza di scatto.
Negli studi di Via Brera a Milano e di via Condotti a Roma, si diffusero i primi laboratori di sviluppo colore con processi Agfacolor e Ferrania Color, capaci di riprodurre sgargianti toni pastello e saturazioni controllate. I giornali illustrati adottarono la stampa offset a quattro colori, integrando foto a colori e testi in bicromia: rulli Anilox con retino a 150 LPI e inchiostri a pigmenti organici e metallici garantirono resistenza allo sbiadimento e riproduzione fedele dei tratti del fotografo.
Parallelamente, accademie e scuole di fotografia, come l’Istituto di Fotografia e Cinematografia di Roma fondato nel 1933, promossero corsi di fotogiornalismo tecnico, insegnando misurazione esposimetrica spot, utilizzo degli esposimetri a selenio e tecniche di sviluppo stand per aumentare la nitidezza delle ombre. L’interazione tra tecnici e fotografi diede vita a un corpus di conoscenze che fece del giornalismo italiano un punto di riferimento per le agenzie straniere.
Negli anni Cinquanta e Sessanta, le innovazioni elettroniche, come il flash elettronico con tubo allo xeno e i primi esposimetri elettronici TTL, resero la fotografia più flessibile: i reporter potevano scattare in condizioni di luce miste, calibrando automaticamente tempi e diaframmi. I corpi macchina Contax RTS e Leicaflex introdussero motori a molla per avanzamento rapido e preselezione ISO integrata, permettendo di passare da ISO 100 a 400 in pochi secondi e catturare la vita urbana con dinamismo.
La rivoluzione del fotogiornalismo in Italia non fu solo tecnologia, bensì cultura visiva: le immagini dei grandi reporter divennero strumenti di informazione e di critica sociale, capaci di raccontare la realtà con rigore tecnico e sensibilità umana. La storia della fotografia in Italia del Novecento si costruisce così sugli equilibri tra meccanica, chimica, estetica e impegno civile, un’eredità che tuttora ispira l’innovazione digitale e il giornalismo contemporaneo.
Dal chimico al digitale: continuità della tradizione Italiana
L’avvento del digitale vide in Italia un forte contributo di ingegneri di aziende come STMicroelectronics e STAx, che svilupparono sensori CMOS con filtri a mosaico Bayer ottimizzati grazie alle conoscenze europee sulle emulsioni. Le università di Padova, Bologna e Milano aprirono corsi di laurea in fotografia e imaging, dove si insegnavano sia i processi chimici tradizionali sia l’elaborazione digitale. I laboratori di restauro fotografico, eredi degli studi su stabilità chimica, applicarono tecniche di intervento sia su pellicola che su file RAW, garantendo la conservazione dell’eredità fotografica italiana.