L’immagine della ragazza afghana di Steve McCurry, scattata nel campo profughi di Nasir Bagh nel 1984, ha raggiunto una tale diffusione da sembrare ormai un frammento fisso dell’immaginario collettivo. Pubblicata sulla copertina del National Geographic nel giugno 1985, quella fotografia ha trascinato con sé l’aura di uno scatto irripetibile, epico e fortunato. Ma chiunque abbia avuto accesso al provino a contatto di quel servizio fotografico, sa che quella immagine è solo una delle molte. Non è un unicum, ma un vertice selezionato da un insieme, uno fra tanti frame.
Analizzare un provino significa penetrare dentro il processo decisionale del fotografo, comprendere l’istante prima e quello dopo, leggere il ritmo visivo della scena. Nel caso della ragazza afghana, questa operazione rivela quanto la potenza iconica dell’immagine definitiva sia il frutto di una costruzione narrativa meticolosa, fondata non solo sulla qualità tecnica dello scatto ma anche su scelte estetiche, simboliche e contestuali.
Il provino a contatto del rullino Kodak Kodachrome 64 utilizzato da McCurry per questo shooting mostra la giovane Sharbat Gula ritratta in più pose, più espressioni, con variazioni quasi impercettibili nell’angolazione, nella luce, nel gesto. Ogni frame testimonia un avvicinamento progressivo all’immagine perfetta, ma nessuno è identico. Esaminare il provino permette di notare come la scena sia stata costruita in maniera graduale, attraverso interazioni ripetute tra fotografo e soggetto, e grazie a un’attenta lettura dell’ambiente e della luce disponibile.
Ogni scatto intermedio è un documento: la ragazza abbassa lo sguardo, poi lo rialza; distoglie lo sguardo, poi fissa l’obiettivo. Il diaframma resta pressoché invariato, ma la gestione dell’esposizione cambia leggermente in relazione ai movimenti della luce sulla pelle e sullo sfondo. Lo sfondo stesso, una parete scrostata di tela grezza, contribuisce alla resa cromatica dell’insieme, ma è la scelta del momento in cui l’iride verde della ragazza si accende contro il rosso del suo scialle a determinare l’equilibrio definitivo.
Con il provino tra le mani, ogni osservatore è in grado di ricostruire la grammatica tecnica dello shooting: apertura stimata a f/2.8, tempo di esposizione intorno a 1/125, lente Nikkor 105mm f/2.5, pellicola Kodachrome 64 con grana finissima e resa cromatica impareggiabile. Ma ciò che colpisce di più non è la perfezione tecnica, bensì l’intenzionalità dello sguardo. McCurry ha saputo spingere il soggetto a una postura che travalica il reportage, pur restando al suo interno: il volto della ragazza non è rappresentato come documento, ma come icona emotiva. Eppure, proprio questa tensione è leggibile in filigrana nel provino.
La potenza dell’immagine definitiva dipende dunque anche da ciò che è rimasto fuori: gli scatti eliminati, i volti sfuggenti, le mezze espressioni, gli occhi chiusi. Il provino non è semplicemente un oggetto tecnico, ma un dispositivo narrativo. In esso si leggono le incertezze, i tentativi, le strategie di comunicazione visiva. La selezione dello scatto finale non è casuale: è una decisione meditata che tiene conto di elementi retorici tanto quanto di aspetti formali.
Per chi si occupa di fotografia documentaria, il provino di “Afghan Girl” è un testo fondamentale. Permette di studiare la costruzione dell’icona, l’articolazione della sequenza, la dinamica dello sguardo tra fotografo e soggetto. Mostra l’apparente semplicità di una foto che in realtà è il culmine di un processo articolato, tecnico, emotivo e visivo. Una lezione magistrale di composizione e intenzione fotografica.
Il provino come strumento di lettura autoriale
Quando si parla di provino a contatto, spesso si tende a relegare l’oggetto al dominio strettamente tecnico della selezione fotografica. Ma il provino è molto più di una griglia di fotogrammi da cui scegliere lo scatto migliore. È, nella sua forma più completa, una mappa mentale, una cronologia visiva, un diagramma del pensiero del fotografo. Nel caso del servizio di McCurry in Pakistan, il provino di Sharbat Gula agisce come una finestra sul processo autoriale di uno dei più celebri fotografi della seconda metà del Novecento.
Le immagini presenti su quel rullino Kodachrome 64 non sono distribuite in modo casuale, ma compongono una sequenza ordinata in cui ogni scatto reagisce al precedente. McCurry non si limita a “catturare” un soggetto. Lo costruisce, lo cerca, lo segue, e quel percorso è leggibile nella successione delle immagini. È in questa progressione che il provino assume il valore di strumento narrativo. La scelta dello scatto finale non è l’esito passivo di una fortuna visiva, ma il risultato di una concatenazione di prove, errori e intuizioni. In esso si osserva lo sviluppo del rapporto tra il fotografo e la ragazza: si parte da una distanza prudente, con ritratti ampi, inquadrature centrali, poi gradualmente la lente si avvicina, il volto si stringe nel frame, lo sguardo diventa diretto, quasi perforante.
Dal punto di vista tecnico, il formato 35mm e la pellicola Kodachrome non consentivano margini ampi di ritaglio in post-produzione. La scelta del 105mm f/2.5 Nikkor, una lente da ritratto che McCurry ha dichiarato di usare abitualmente, imponeva già in fase di scatto un’attenzione assoluta alla composizione finale. Il bokeh che isola la figura della ragazza, rendendo il fondo un tessuto visivo neutro, è una decisione operata al momento dello scatto, non dopo. Nel provino, questa scelta è verificabile con chiarezza: la resa ottica resta coerente lungo tutta la sequenza, ma è solo in alcune immagini che il soggetto si pone perfettamente all’interno della profondità di campo voluta.
Nel provino si nota anche la gestione della luce naturale. Il piccolo spazio nella tenda del campo profughi non offriva molte opzioni: McCurry si è affidato alla luce ambientale riflessa, che sul Kodachrome genera una gamma tonale molto contenuta ma coerente. L’assenza di flash o luce artificiale ha imposto un gioco complesso tra tempi e diaframmi. Si stima che la velocità fosse intorno a 1/125 o 1/100, un limite che comportava la necessità di una mano ferma e di un soggetto relativamente statico. Questo è evidente in alcuni frame dove Sharbat si muove leggermente: il micro-mosso sfuma i contorni del volto, e la messa a fuoco si disallinea dall’iride. Sono fotogrammi che, pur tecnicamente validi, non raggiungono la tensione emotiva dello scatto selezionato.
Un aspetto meno discusso ma cruciale nella lettura del provino è la marcatura editoriale. Nel provino originale, McCurry (o l’editor di National Geographic) ha cerchiato l’immagine selezionata con una matita rossa. Quel cerchio è un gesto semplice ma denso di significato: indica una scelta, un’intenzione comunicativa. Il gesto della selezione è un atto editoriale, ma anche autoriale: è lì che la fotografia passa da documento a simbolo. Non è solo una delle tante immagini: è quella giusta, quella che porta su di sé il peso della narrazione, dell’etica, dell’estetica.
Nell’insieme, il provino funziona come una partitura. Ogni scatto è una nota che prepara la risoluzione finale. Il fotografo, come un direttore d’orchestra, dosa intensità, ritmo, variazioni. Osservarlo con attenzione consente di accedere alla dimensione creativa del processo, andando oltre la superficie della fotografia finale. E soprattutto restituisce al fotografo il ruolo che spesso viene dimenticato: quello di costruttore di senso, non solo di immagini.
Composizione, colore e intensità: la grammatica visiva dello scatto finale
Nel linguaggio della fotografia, la composizione non è un semplice esercizio di simmetrie e regole geometriche, ma un insieme di scelte consapevoli che determinano la forza visiva e la carica emotiva di un’immagine. Nella fotografia di Sharbat Gula selezionata per il National Geographic, ogni elemento compositivo lavora a favore di un impatto immediato, ma allo stesso tempo costruito con minuzia.
L’immagine è strutturata su un equilibrio formale classico: soggetto centrato, rapporto aureo rispettato quasi intuitivamente, distribuzione del colore che converge al centro. Il volto della ragazza occupa la porzione centrale del fotogramma, ma non è piatto né frontale. La testa è lievemente ruotata, gli occhi perfettamente allineati con l’asse orizzontale, eppure si avverte una torsione nel busto che introduce dinamismo. È un dettaglio sottile ma decisivo: la postura rompe la staticità e trasmette una tensione trattenuta. Lo scialle, rosso, avvolge la figura con un moto obliquo che amplifica questa sensazione di energia compressa.
Il colore in questa fotografia è molto più di un elemento descrittivo. È la chiave stessa della grammatica emotiva dell’immagine. Il rosso acceso dello scialle, il verde degli occhi, il tono terroso dello sfondo: tutti i colori sembrano essere scelti, o quantomeno percepiti, in funzione di un contrasto psico-visivo che accentua la presenza del soggetto. Il Kodachrome 64, pellicola storicamente amata per la sua saturazione controllata e l’eccellente fedeltà nei rossi e nei verdi, ha lavorato come un alleato del fotografo, traducendo fedelmente l’armonia cromatica già presente in scena. Ma è la luce a far vibrare tutto il sistema. Una luce morbida, diffusa, probabilmente riflessa da una superficie chiara posta lateralmente: nessuna ombra dura, nessun contrasto eccessivo. Solo un chiaroscuro modellato sul volto, che dà profondità e tridimensionalità allo sguardo.
Lo sfondo è un altro capolavoro di gestione consapevole. Si tratta di una parete anonima, probabilmente in tessuto, forse tela di tenda, consumata, scura, priva di dettagli. È completamente sfocata, quasi pittorica, grazie all’apertura generosa (presumibilmente f/2.5) dell’obiettivo. In questo modo, il volto di Sharbat emerge isolato, quasi scolpito. Non esiste contesto, non esiste rumore visivo: tutto converge su di lei. Questa scelta è opposta al classico stile documentaristico che tende a includere l’ambiente. McCurry, invece, stringe il campo fino a trasformare il volto in icona. Il reportage si fa ritratto, il documento si fa simbolo.
Lo sguardo è la somma di tutte queste scelte. Sharbat Gula guarda dritto nell’obiettivo, ma con una tensione interna che va oltre la posa. Non è uno sguardo “addestrato” alla macchina fotografica. È uno sguardo che trattiene dolore, diffidenza, forza, dignità. È il momento in cui la comunicazione diventa diretta, incondizionata. E questa immediatezza emotiva è costruita attraverso un’architettura invisibile di elementi tecnici. Il tempo di esposizione ha congelato la vibrazione dell’iride, la nitidezza della pelle. La distanza focale ha compresso la prospettiva. Il diaframma ha selezionato ciò che doveva essere visto.
Nella sequenza del provino, molti scatti si avvicinano a questo equilibrio, ma solo uno lo raggiunge. E lo fa per un incastro perfetto di composizione, colore, intensità e interazione umana. È questo incastro che trasforma una fotografia in icona. Non c’è solo fortuna, ma progettazione. Non c’è solo intuizione, ma esperienza. E nel caso di McCurry, anche una profonda consapevolezza di cosa significhi trasmettere una storia attraverso un volto.
Il provino come strumento critico: leggere il processo, non solo il risultato
In un’epoca dominata dalla fotografia digitale, in cui l’istantaneità dello scatto è accompagnata da una cancellazione altrettanto immediata delle immagini “scartate”, il provino a contatto analogico appare come una reliquia di un metodo più riflessivo, lento, sequenziale. Ma nel caso dello shooting di Steve McCurry con Sharbat Gula, il provino diventa molto di più: uno spartito visivo, in cui ogni fotogramma rappresenta una nota nel processo compositivo.
Un provino non è mai neutro. È la mappa mentale di un fotografo, una rappresentazione concreta del suo modo di esplorare un soggetto. Nel caso specifico, vediamo McCurry avanzare a piccoli passi. Gli scatti iniziali sono più distanti, meno intensi. Si percepisce una fase di studio reciproco: il fotografo calibra la luce, prova il colore, saggia la disponibilità della ragazza a lasciarsi ritrarre. I primi frame mostrano Sharbat con lo sguardo sfuggente, il viso parzialmente coperto, le spalle rigide. Non c’è ancora la piena consapevolezza, né da parte del soggetto né da parte del fotografo, che qualcosa di straordinario stia per accadere.
Poi, lentamente, McCurry si avvicina. Cambia leggermente l’inquadratura, cerca una maggiore connessione psicologica. La ragazza inizia a rispondere, si rilassa, assume una postura più naturale. È un processo di costruzione di fiducia, che non può essere forzato né affrettato. Ed è tutto documentato, fotogramma dopo fotogramma. Il provino è una narrazione che mostra non solo ciò che è stato fatto, ma come è stato fatto, con che sensibilità, con che ritmo.
Questo è il vero valore pedagogico del provino: mostra la fotografia come processo, non solo come risultato. È un oggetto didattico straordinario, perché insegna non la regola generale, ma l’intuizione contestuale. Mostra gli errori, i tentativi mancati, le variazioni minime che a occhio nudo possono sembrare irrilevanti ma che, viste in successione, cambiano radicalmente la forza narrativa dell’immagine.
In molti dei frame precedenti allo scatto scelto, ad esempio, gli occhi della ragazza sono rivolti altrove o leggermente socchiusi. Basta un decimo di secondo in meno o in più e l’equilibrio visivo si rompe. In altri scatti, l’espressione appare più irrigidita o troppo neutra. Ma nel frame scelto, avviene qualcosa di impercettibile e straordinario: la tensione e la vulnerabilità si equilibrano in una composizione espressiva perfetta. Il provino, in questo senso, non è solo un documento, ma una rivelazione del momento esatto in cui la verità fotografica si manifesta.
Inoltre, il provino a contatto è uno strumento di autocritica per il fotografo. Permette di misurare la coerenza del proprio sguardo, di analizzare la sequenza come un insieme logico. Spinge alla riflessione: perché ho scattato di nuovo? Perché ho cambiato l’angolazione? Cosa cercavo e cosa ho trovato? Nel caso di McCurry, il provino rivela una strategia silenziosa ma rigorosa: ogni frame si appoggia sul precedente, ogni variazione è minima ma precisa. Nessuna discontinuità, nessuna esitazione marcata. Solo un percorso visivo consapevole che conduce allo scatto finale come a un climax visivo.
Questo tipo di lettura è fondamentale anche per chi studia la fotografia in senso storico e teorico. Analizzare il provino della ragazza afghana consente di vedere il dietro le quinte dell’immagine più famosa del secondo Novecento. Permette di comprendere come la mitologia dell’istantanea sia, in realtà, il risultato di una sequenza costruita, sedimentata, ponderata. Il mito dello scatto “decisivo” viene ridimensionato, o meglio, ridefinito: il momento decisivo non è un lampo, ma il punto culminante di un processo paziente.
Il provino diventa così una testimonianza della fotografia come pratica complessa, che implica tempo, relazione, tecnica, empatia. In un solo foglio si concentra un universo di decisioni e possibilità non realizzate, ma tutte indispensabili per arrivare al frame che diventerà simbolo. Nessuna di quelle immagini “scartate” è superflua: sono tutte parti di una traiettoria, ombre che rendono possibile la luce dello scatto finale.
Il provino e l’ideologia dell’immagine: quando lo scarto svela il messaggio
Esaminare il provino a contatto della serie di Sharbat Gula non significa soltanto osservare una sequenza tecnica. Significa anche penetrare nel cuore semantico di un’immagine, nella sua intenzionalità narrativa e nel suo sottotesto culturale. Il frame finale – quello che sarebbe stato scelto per la copertina di National Geographic nel giugno 1985 – non è solo il più tecnicamente riuscito: è anche il più carico di significato simbolico. Il provino, in questo senso, diventa una sorta di specchio della coscienza fotografica e giornalistica dell’epoca.
Ogni fotografia è, consapevolmente o no, una costruzione. E il provino, nella sua pluralità, mette a nudo il processo con cui questa costruzione viene operata. Guardando i fotogrammi uno per uno, è chiaro che la decisione finale non è solo estetica. McCurry ha avuto davanti a sé almeno quattro o cinque scatti quasi identici dal punto di vista compositivo. Ma è proprio quello in cui l’espressione della ragazza risulta più intensa, più interrogativa, più ambivalente, ad essere stato selezionato. Il volto non comunica solo paura, ma anche sfida. Non solo vulnerabilità, ma una forma di misteriosa resilienza.
Questo tipo di selezione è profondamente legato al contesto politico e ideologico in cui l’immagine avrebbe circolato. All’epoca dello scatto, l’Afghanistan era ancora occupato dall’Unione Sovietica, e milioni di rifugiati si trovavano nei campi in Pakistan, in condizioni di estremo disagio. Una copertina come quella doveva colpire, ma anche servire un messaggio: generare empatia, sottolineare l’urgenza umanitaria, ma al tempo stesso evocare una dignità inattesa in un soggetto “altro”, non occidentale. Il frame scelto assolve perfettamente a questa funzione.
Gli altri scatti, per quanto simili, non avevano la stessa carica metaforica. In uno, gli occhi della ragazza sono lievemente abbassati: il messaggio cambia. In un altro, lo sguardo è più diretto ma meno teso: la potenza si attenua. Il provino permette di leggere questa progressione non solo come una questione di intensità, ma come una raffinata operazione simbolica, dove ogni micro-variazione contribuisce a definire una narrativa.
In un certo senso, il provino diventa uno strumento per visualizzare il montaggio ideologico dell’immagine. Non è un caso che Susan Sontag, in numerosi suoi scritti, metta in guardia dal potere dell’immagine fotografica di costruire stereotipi culturali attraverso ciò che seleziona e ciò che esclude. Ecco: nel provino della ragazza afghana vediamo cosa è stato escluso. E proprio questo scarto getta luce sull’intenzione finale.
Inoltre, il colore ha un ruolo decisivo. La pellicola Kodachrome 64 restituisce una gamma cromatica vibrante ma controllata. Il rosso dello scialle, in contrasto con il verde degli occhi, crea una tensione simbolica che richiama le bandiere, i conflitti, le passioni e le sofferenze. Il fondo neutro, bruno-grigiastro, assorbe ogni elemento superfluo. Ma negli altri scatti la luce cade leggermente diversa, il rosso è meno acceso, il verde meno penetrante. Scegliere uno scatto anziché un altro è anche scegliere una temperatura emotiva, un’intensità narrativa.
C’è poi il ruolo del fotografo come mediatore culturale. McCurry, pur avendo dichiarato più volte di aver agito con istintiva naturalezza, è perfettamente consapevole della potenza di ciò che sta costruendo. Il provino lo dimostra: non c’è nulla di improvvisato. Lo sguardo di Sharbat viene diretto, interrogato, quasi scolpito attraverso la ripetizione. In questo senso, il provino è il laboratorio dell’icona: lì si forgia il mito, attraverso l’eliminazione di ogni ambiguità non voluta, e il potenziamento di ogni possibile simbologia efficace.
Il fatto che la fotografia sia diventata, nel tempo, una delle immagini più riprodotte, studiate e strumentalizzate del secolo dimostra quanto la scelta di un singolo frame da un provino possa avere effetti culturali globali. Se fosse stato scelto uno degli altri scatti – solo lievemente diverso – è probabile che la ricezione dell’immagine sarebbe stata radicalmente diversa. Non ci sarebbe stato lo stesso impatto visivo, né lo stesso consenso emotivo.
Il provino, dunque, non è il backstage della fotografia: è il vero palcoscenico su cui si gioca la partita iconografica. È la zona franca tra realtà e racconto, tra documento e allegoria. Mostra non solo quello che è accaduto, ma anche ciò che si è deciso di far vedere. E in questa zona grigia, fatta di istanti impercettibili, risiede il vero potere della fotografia.
Il provino come fonte: archiviazione, filologia visiva e circuiti museali
Il provino a contatto è, per molti versi, l’equivalente fotografico del manoscritto per la letteratura. Se l’immagine finale è il testo pubblicato, rifinito e selezionato, il provino rappresenta il corpo vivo del processo creativo, le varianti, le esitazioni, i tentativi. Negli ultimi decenni, questo tipo di materiale è stato oggetto di una crescente attenzione non solo da parte degli studiosi di fotografia, ma anche da parte dei curatori museali, degli storici dell’arte e dei teorici dell’immagine.
Il caso del provino di Afghan Girl è emblematico in tal senso. Quando fu finalmente reso pubblico in alta risoluzione, all’interno di mostre retrospettive dedicate a Steve McCurry, si rivelò una chiave interpretativa decisiva. Non solo per comprendere la genesi tecnica di uno scatto iconico, ma anche per leggere le logiche della selezione editoriale, le pressioni del photojournalism, e il ruolo che lo sguardo occidentale ha avuto nella costruzione dell’immaginario fotografico sul Medio Oriente.
Nelle sedi museali, il provino ha assunto un valore autonomo, esposto come documento storico e come oggetto estetico. Non più semplice strumento di lavoro, ma traccia materiale di una decisione narrativa, di un taglio imposto alla realtà. Nei pannelli espositivi, spesso viene accompagnato da schede tecniche dettagliate: dati EXIF se ricostruibili, note sul tipo di pellicola, sulla macchina utilizzata (nel caso specifico, si tratta con ogni probabilità di una Nikon FM2 con ottica Nikkor 105mm f/2.5), sulle condizioni di scatto e sul trattamento in fase di sviluppo.
Dal punto di vista della filologia visiva, il provino consente un’analisi comparativa tra le immagini che non hanno superato la selezione e quella che ha “vinto”. È un campo fertile per la semiotica dell’immagine, perché evidenzia le linee di forza e i punti di frattura del linguaggio fotografico. Permette anche una riflessione sulle strategie di storytelling visivo e sulla costruzione dell’ethos dell’autore: ogni taglio, ogni scatto scartato o marcato con una X rossa, racconta un McCurry che sceglie, valuta, esclude.
In ambito accademico, i provini stanno assumendo un ruolo sempre più centrale in progetti di edizione critica e digitalizzazione delle opere fotografiche. Alcuni centri di ricerca hanno cominciato a raccogliere, catalogare e rendere consultabili online i provini di fotografi del Novecento, consapevoli del fatto che queste matrici visive rappresentano una fonte preziosa non solo per lo studio della tecnica, ma anche per la storia delle idee, dell’informazione e della rappresentazione. Il provino di Afghan Girl, in questo senso, è diventato quasi un caso di scuola: viene proposto nei corsi universitari come esempio di editing iconografico consapevole, come manifestazione del passaggio da documento a immagine-simbolo.
Anche dal punto di vista del collezionismo fotografico, i provini stanno acquisendo un valore crescente. Alcuni collezionisti privati cercano provini autografati o stampati manualmente dal fotografo, con le annotazioni originali a margine. Si tratta di pezzi rari, perché in molti casi venivano distrutti dopo la selezione finale. McCurry, al contrario, ha conservato e reso accessibili molti dei suoi provini, dimostrando una rara apertura verso la trasparenza del processo creativo. Questa scelta, lungi dall’indebolire l’aura dell’immagine finale, ne rafforza il mito, mostrando quanto sia fragile, complesso e selettivo il percorso che porta una fotografia a diventare icona.
Nel momento in cui lo scatto di Sharbat Gula viene dissezionato attraverso il provino, si aprono nuove prospettive critiche. Emergono non solo le dinamiche tecniche, ma anche le dimensioni etiche: cosa significa scegliere uno sguardo, una postura, un’espressione? Cosa si decide di rappresentare e cosa si lascia ai margini? In questa dialettica, il provino diventa uno strumento per leggere la fotografia come costruzione e non come trasparenza del reale.
È qui che risiede il valore ultimo del provino a contatto di Afghan Girl. Non solo nel mostrarci cosa c’era prima dello scatto che tutti conosciamo, ma nel ricordarci che ogni immagine è una scelta. E che dietro ogni scelta c’è un’intenzione, conscia o inconscia, che merita di essere interrogata. Il provino è il luogo dove il fotografo, il redattore, il lettore e lo storico possono incontrarsi. Non per cercare una verità definitiva, ma per vedere, finalmente, come nasce un’icona.

Mi chiamo Giorgio Andreoli, ho 55 anni e da sempre affianco alla mia carriera da manager una profonda passione per la fotografia. Scattare immagini è per me molto più di un hobby: è un modo per osservare il mondo con occhi diversi, per cogliere dettagli che spesso sfuggono nella frenesia quotidiana. Amo la fotografia analogica tanto quanto quella digitale, e nel corso degli anni ho accumulato esperienza sia sul campo sia nello studio della storia della fotografia, delle sue tecniche e dei suoi protagonisti. Su storiadellafotografia.com condivido riflessioni, analisi e racconti che nascono dal connubio tra approccio pratico e visione storica, con l’intento di avvicinare lettori curiosi e appassionati a questo straordinario linguaggio visivo.