Immaginare Robert Frank camminare per le strade di una grande città con uno smartphone in mano è un esercizio che ci spinge a ripensare radicalmente il rapporto tra dispositivo fotografico e sguardo autoriale. Nato a Zurigo nel 1924 e naturalizzato statunitense, Frank è stato l’occhio inquieto che ha documentato l’America degli anni ’50 con uno stile crudo, spoglio, spesso volutamente imperfetto. Il suo libro The Americans, pubblicato nel 1958, ha sconvolto i canoni della fotografia documentaria, facendo della soggettività, del movimento e della granulosità espressiva i suoi strumenti estetici primari.
Il suo approccio era artigianale, quasi rabbioso. Fotocamere compatte, pellicola 35mm, sviluppo manuale, stampa in camera oscura con contrasti spinti e margini neri a delineare il fotogramma originale: ogni dettaglio tecnico era parte di una visione. Eppure, se oggi Frank potesse scattare con uno smartphone di fascia alta, con sensori da 1 pollice e algoritmi neurali in grado di riconoscere volti, cieli, e ottimizzare gamma dinamica e nitidezza, probabilmente non si fermerebbe di fronte al perfezionismo della tecnologia. Ne farebbe anzi un uso anarchico, come strumento di indagine antropologica e visiva.
Un iPhone 15 Pro Max, un Google Pixel 8 Pro o un Xiaomi Ultra, per citare modelli recenti, offrono una combinazione di lenti grandangolari, tele e ultra-wide, con aperture variabili da f/1.7 a f/2.8 e sensibilità ISO estese fino a 6400. Sono macchine in grado di girare in RAW a 12 o 16 bit, supportare profili Log per la postproduzione e scattare in formati ad alta risoluzione come HEIF, DNG, Apple ProRAW o JPEG XL. Ma Frank, verosimilmente, avrebbe rifiutato il file patinato e levigato. Avrebbe disattivato ogni filtro, bypassato la fotocamera stock per affidarsi a app manuali come Halide, ProCamera, Filmic Firstlight o persino Open Camera, pur di forzare l’immagine nella direzione del difetto umano.
Ecco dunque che le foto scattate da Frank nel presente digitale non sarebbero state immagini perfette. Nessuna regola dei terzi, nessuna postproduzione con preset. Solo l’urgenza del vedere, in tempo reale. Il telefono sarebbe diventato il suo taccuino visivo, il sostituto della Leica, sempre pronto nella tasca della giacca, privo di peso, privo di rumore. Avrebbe fotografato il bordo delle cose, le crepe nell’identità americana odierna, i senzatetto nei McDonald’s di periferia, le comunità migranti nei bus interurbani, le famiglie latine al confine sud, i giovani neri nei fast food h24. Il suo sguardo, come sempre, non avrebbe concesso sconti.
Anche se armato di un dispositivo ipertecnologico, Frank avrebbe agito contro la tecnologia stessa. Avrebbe forzato i limiti dell’automatismo, rifiutato la nitidezza chirurgica in favore di esposizioni sovrabbondanti o sottoesposte, fotogrammi strappati al flusso, tremolanti, sfocati. Come quando nel 1955 si fece arrestare in Arkansas solo per aver fotografato da straniero con accento tedesco. Frank aveva chiaro che la fotografia è politica, non solo nel contenuto ma nella forma. E oggi, con una fotocamera sempre in tasca, connessa e istantanea, la responsabilità autoriale sarebbe forse ancora più evidente.
L’atto fotografico, mediato da uno smartphone, comporta una riflessione ulteriore sulla presenza: scattare diventa un gesto continuo, ubiquo. Non esiste più la preparazione, il caricamento del rullino, la scelta del diaframma o dell’otturatore. Ma proprio in questo azzeramento dei tempi, Frank avrebbe trovato nuove possibilità. Il gesto dello scattare diventa reazione, riflesso, quasi pre-istintuale. La memoria interna da 1 TB non lo avrebbe portato a risparmiare immagini, ma a seppellirle sotto una stratificazione compulsiva, da cui poi estrarre, in una selezione successiva, l’immagine vera, quella viva.
Sotto il sole delle metropoli del 2025, tra scie luminose e piogge digitali, Frank avrebbe probabilmente usato il modulo notturno dei moderni smartphone, non per fare street photography con luci perfette, ma per esasperare il senso di alienazione urbana, come faceva con le sue pellicole spinte a 1600 ISO. I risultati sarebbero stati sporchi, tremanti, disomogenei. Avrebbe sfruttato lo zoom digitale non per avvicinare soggetti lontani ma per degradare l’immagine, per esasperare la compressione, per rendere tangibile la materia della luce artificiale.
L’assenza di un mirino ottico, uno dei limiti più discussi dagli amanti della fotografia classica, non avrebbe rappresentato un ostacolo per Frank. Egli non cercava mai la perfezione dell’inquadratura, ma la disfunzione significativa, l’imprevisto che rompeva la superficie. Guardare attraverso un display retroilluminato, con il riflesso del sole o il tremolio del buio, sarebbe stato parte della poetica dell’errore.
Ma soprattutto, lo smartphone avrebbe dato a Frank l’accesso immediato all’editing. Non avrebbe mai usato Lightroom Mobile o Snapseed in modo sistematico. Piuttosto, avrebbe abbracciato l’imperfezione dell’app nativa, ritagliando al volo, alzando il contrasto in modo esagerato, o lasciando tutto com’era, in una sorta di fedeltà alla durezza del presente.
Quello che è certo è che Robert Frank non avrebbe fotografato i monumenti, le skyline, i tramonti virali di Instagram. La sua America oggi sarebbe composta da stazioni di servizio abbandonate, tatuatori di provincia, banconote accartocciate, voci marginali e insegne sfarinate. L’algoritmo che governa il nostro vedere quotidiano sarebbe stato il suo nemico. Lui avrebbe scelto di pubblicare su canali alternativi, forse una pagina personale, o più probabilmente niente. Nessuna foto pubblicata online, nessun feed. Solo archivi privati, forse stampati, forse no.
E se avesse usato i video? Forse sì. Con il modulo 4K 60fps, o le riprese al rallentatore a 240fps, non per creare contenuti, ma per catturare frammenti di tempo che resistono, per osservare le smorfie che si formano tra due gesti, gli sguardi che si abbassano quando nessuno li guarda. La velocità dell’immagine digitale sarebbe diventata materia da rallentare, sezionare, come in un autopsia del reale.
Da queste prime considerazioni è chiaro che la fotografia di Frank, anche con uno smartphone, non sarebbe mai stata fotografia mobile. Sarebbe stata, sempre e comunque, un atto di resistenza.
Lo sguardo errante di Robert Frank: una camera Leica, un cuore inquieto
Nel 1955 Robert Frank ricevette una borsa dalla Guggenheim Foundation per viaggiare attraverso gli Stati Uniti e realizzare un’opera fotografica che ritraesse “aspects of contemporary American society”. Iniziò così un viaggio solitario, spesso ai margini dell’autostrada, lungo il quale scattò oltre 28.000 fotografie con la sua Leica IIIc carica di pellicola 35mm. Quel viaggio non fu solo geografico, ma interiore: una lenta e inesorabile discesa nella disillusione americana, ben lontana dagli ideali patinati della pubblicità post-bellica. Di tutto questo, cosa sarebbe rimasto se Frank avesse avuto in mano uno smartphone?
Robert Frank non era un tecnico della fotografia nel senso tradizionale. Era un poeta dell’imperfezione, un autore che cercava l’emozione cruda, anche a scapito della nitidezza o della composizione classica. I suoi scatti sono mossi, sgranati, tagliati fuori asse, spesso in controluce. Sono “sbagliati” per la fotografia accademica, ma autentici nel raccontare la verità di un momento. È qui che lo smartphone, inteso come strumento di immediatezza, si inserisce con forza. Se l’ideale di Frank era l’istantaneità, l’essere lì quando qualcosa di “vero” accade, allora lo smartphone sarebbe stato la sua arma perfetta.
È facile immaginare Frank aggirarsi per i sobborghi di Detroit o i locali notturni di New Orleans con in tasca un iPhone o un Pixel, pronto a scattare senza essere visto, senza sollevare l’occhio al mirino, ma tenendo la camera all’altezza del cuore. Lo smartphone cancella la presenza del fotografo, lo rende spettatore invisibile. Per Frank, che spesso si sentiva un estraneo ovunque andasse, questo anonimato tecnologico sarebbe stato ideale. Non avrebbe avuto bisogno di chiedere permessi, né di comporre con lentezza. Avrebbe potuto cogliere l’attimo brutale in tutta la sua crudezza.
Certo, lo smartphone è uno strumento tecnologicamente distante dalla Leica IIIc. Sensore CMOS al posto della pellicola, autofocus continuo, stabilizzazione elettronica, esposizione automatica, riconoscimento facciale, modalità notturna. Ma Frank non avrebbe disattivato questi automatismi: li avrebbe sfruttati per scattare senza preoccuparsi della tecnica, concentrandosi solo sull’energia emotiva della scena. Non avrebbe usato il RAW, né regolato la curva dei toni. Gli bastava che l’immagine parlasse. Non cercava la perfezione, ma il nervo.
Le sue immagini di jukebox, autobus, marce, funerali, bandiere, cowboy e anonimi clienti di bar avrebbero trovato nuove ambientazioni nei fast food notturni, nei motel a ore, nelle lavanderie automatiche aperte H24. Il tema sarebbe rimasto lo stesso: l’alienazione dell’uomo moderno in un paese in perenne tensione tra mito e fallimento. Ecco perché è essenziale evitare di leggere questa trasposizione tecnologica come un esercizio stilistico. Non si tratta di immaginare una resa visiva “smart” della sua opera, ma di capire come quello sguardo, quello sguardo errante, si sarebbe adattato a un mezzo ancora più veloce, ancora più silenzioso, ancora più indiscreto.
Robert Frank probabilmente non avrebbe editato i suoi scatti. Li avrebbe caricati, grezzi, su un account anonimo di Instagram, senza tag né hashtag. Non cercava follower, ma autenticità. Magari avrebbe cancellato il profilo dopo pochi giorni, nauseato dalla superficialità del like. Ma fino ad allora, avrebbe fotografato la stessa America in decomposizione che osservò negli anni ’50, perché la materia del suo sguardo non è mai cambiata: la condizione umana, nella sua solitudine e nel suo smarrimento.
Fotografia cruda, senza filtri: lo smartphone come estensione dell’occhio di Frank
Robert Frank non cercava l’estetica, ma la ferita. Nella sua fotografia non c’è spazio per la perfezione, né per la gratificazione visiva. Le immagini de Gli Americani sono dense di ambiguità, errori, oscurità e strappi visivi. In un tempo in cui la tecnica fotografica puntava alla nitidezza e alla composizione classica, Frank tagliava volti, metteva fuori fuoco le mani, faceva scomparire i dettagli nell’ombra. Era una fotografia viscerale, fatta di assenza di regole. E proprio per questo, incredibilmente moderna. Lo smartphone, nella sua immediatezza e nella sua dipendenza dal gesto istantaneo, sarebbe stato per lui uno strumento perfetto.
Gli smartphone moderni, con i loro sensori da 12 o 50 megapixel, le lenti grandangolari da 26 mm equivalenti, i sistemi HDR automatici e le modalità notturne computazionali, sembrerebbero agli antipodi del linguaggio ruvido di Frank. Eppure è proprio in questa distanza che si nasconde una possibilità: disattivare tutte le opzioni, abbandonare ogni ottimizzazione e tornare al gesto crudo, istintivo. Alcuni dispositivi – come i Google Pixel, gli iPhone Pro o i Sony Xperia – consentono ancora oggi di scattare in modalità manuale, con esposizione selettiva, controllo degli ISO e disattivazione dell’HDR. Frank avrebbe probabilmente ignorato tutte queste possibilità. O, se le avesse impiegate, lo avrebbe fatto come un anarchico visivo, incurante del risultato.
L’ottica fissa degli smartphone, con la loro lunghezza focale corta, avrebbe forzato Frank a restare vicino ai soggetti. Ma lui lo faceva già. Scattava a un metro di distanza da volti stanchi, mani che stringevano bandiere, corpi seduti in sale d’attesa o vagoni segregati. Il suo stile era immersivo, impudico, emotivamente compromesso. Con lo smartphone, avrebbe potuto avvicinarsi ancora di più, diventare totalmente invisibile nella folla, un corpo che guarda, non che si impone. La distanza tecnica diventa qui prossimità poetica.
Ma c’è di più. Lo smartphone permette di scattare senza sollevare la macchina all’occhio, evitando quel momento di interruzione tra la visione e la sua trascrizione fotografica. Questo “scatto dal petto”, o addirittura “dal fianco”, è perfettamente coerente con l’etica di Frank, che cercava la rottura del diaframma tra fotografo e realtà. Tenere il dispositivo in basso, scattare “alla cieca”, senza inquadrare pienamente, avrebbe generato immagini imperfette ma sincere, dense di casualità. E Frank amava il caso, l’intervallo, la sbavatura.
Il movimento, altro pilastro della poetica frankiana, si adatterebbe allo smartphone anche nella sua instabilità. Frank scattava spesso in condizioni di luce scarsa, mentre camminava, in auto, in treno. Il mosso e il fuori fuoco non erano limiti tecnici, ma strutture espressive. Oggi, mentre gli smartphone tentano di “correggere” tutto con l’intelligenza artificiale – dai riflessi all’effetto bokeh – un autore come Frank avrebbe resistito. Avrebbe usato il “Live Photo” non per animare le immagini, ma per catturare un momento spezzato, un respiro, un battito, uno sguardo che cade fuori campo.
Probabilmente avrebbe fotografato con la camera interna rovesciata, come accade negli autoritratti accidentali, o con filtri usati non per “abbellire”, ma per sporcare l’immagine, ridurla a uno spettro. In un’epoca in cui il filtro trasforma ogni volto in una maschera, Frank avrebbe cercato l’opposto: rimuovere i filtri della società, far emergere la stanchezza, la rabbia, la solitudine.
Il formato verticale, spesso disprezzato dalla fotografia tradizionale, sarebbe stato per lui una nuova opportunità di destrutturazione. I soggetti centrali, decapitati, i margini tagliati, le simmetrie rotte. Frank era già oltre la regola dei terzi: era dentro il flusso della strada. L’inquadratura era un accidente, non un dogma.
E poi il silenzio. Lo smartphone non fa “clic”, non annuncia la sua presenza. Frank avrebbe amato questa assenza di teatralità tecnica, questa possibilità di osservare senza disturbare, di registrare la vita così com’è, senza mediazioni ottiche. Avrebbe forse rinunciato del tutto allo scatto per dedicarsi al video? Improbabile. Ma l’idea di un’immagine in continuo divenire, catturata senza intenzione, lo avrebbe affascinato. Forse avrebbe girato clip mute, in bassa definizione, come quelle che si trovano nelle cartelle dimenticate dei telefoni di seconda mano. Materiale povero, ma carico di verità.
Robert Frank non cercava la verità nella definizione. La cercava nella faglia tra apparenza e realtà, tra gesto e intenzione. Lo smartphone, pur nella sua ossessione per la nitidezza, avrebbe potuto diventare per lui uno strumento di imperfezione, un prolungamento della sua visione inquieta, un modo nuovo per esistere dentro le immagini, senza mediazioni, senza fotoritocchi, senza illustrare nulla. Solo per guardare.
L’ottica fissa degli smartphone, con la loro lunghezza focale corta, avrebbe forzato Frank a restare vicino ai soggetti. Ma lui lo faceva già. Scattava a un metro di distanza da volti stanchi, mani che stringevano bandiere, corpi seduti in sale d’attesa o vagoni segregati. Il suo stile era immersivo, impudico, emotivamente compromesso. Con lo smartphone, avrebbe potuto avvicinarsi ancora di più, diventare totalmente invisibile nella folla, un corpo che guarda, non che si impone. La distanza tecnica diventa qui prossimità poetica.
Ma c’è di più. Lo smartphone permette di scattare senza sollevare la macchina all’occhio, evitando quel momento di interruzione tra la visione e la sua trascrizione fotografica. Questo “scatto dal petto”, o addirittura “dal fianco”, è perfettamente coerente con l’etica di Frank, che cercava la rottura del diaframma tra fotografo e realtà. Tenere il dispositivo in basso, scattare “alla cieca”, senza inquadrare pienamente, avrebbe generato immagini imperfette ma sincere, dense di casualità. E Frank amava il caso, l’intervallo, la sbavatura.
Il movimento, altro pilastro della poetica frankiana, si adatterebbe allo smartphone anche nella sua instabilità. Frank scattava spesso in condizioni di luce scarsa, mentre camminava, in auto, in treno. Il mosso e il fuori fuoco non erano limiti tecnici, ma strutture espressive. Oggi, mentre gli smartphone tentano di “correggere” tutto con l’intelligenza artificiale – dai riflessi all’effetto bokeh – un autore come Frank avrebbe resistito. Avrebbe usato il “Live Photo” non per animare le immagini, ma per catturare un momento spezzato, un respiro, un battito, uno sguardo che cade fuori campo.
Probabilmente avrebbe fotografato con la camera interna rovesciata, come accade negli autoritratti accidentali, o con filtri usati non per “abbellire”, ma per sporcare l’immagine, ridurla a uno spettro. In un’epoca in cui il filtro trasforma ogni volto in una maschera, Frank avrebbe cercato l’opposto: rimuovere i filtri della società, far emergere la stanchezza, la rabbia, la solitudine.
Il formato verticale, spesso disprezzato dalla fotografia tradizionale, sarebbe stato per lui una nuova opportunità di destrutturazione. I soggetti centrali, decapitati, i margini tagliati, le simmetrie rotte. Frank era già oltre la regola dei terzi: era dentro il flusso della strada. L’inquadratura era un accidente, non un dogma.
E poi il silenzio. Lo smartphone non fa “clic”, non annuncia la sua presenza. Frank avrebbe amato questa assenza di teatralità tecnica, questa possibilità di osservare senza disturbare, di registrare la vita così com’è, senza mediazioni ottiche. Avrebbe forse rinunciato del tutto allo scatto per dedicarsi al video? Improbabile. Ma l’idea di un’immagine in continuo divenire, catturata senza intenzione, lo avrebbe affascinato. Forse avrebbe girato clip mute, in bassa definizione, come quelle che si trovano nelle cartelle dimenticate dei telefoni di seconda mano. Materiale povero, ma carico di verità.
Robert Frank non cercava la verità nella definizione. La cercava nella faglia tra apparenza e realtà, tra gesto e intenzione. Lo smartphone, pur nella sua ossessione per la nitidezza, avrebbe potuto diventare per lui uno strumento di imperfezione, un prolungamento della sua visione inquieta, un modo nuovo per esistere dentro le immagini, senza mediazioni, senza fotoritocchi, senza illustrare nulla. Solo per guardare.
La solitudine condivisa: archiviare e sparire, l’utopia dello smartphone secondo Frank
Robert Frank non cercava il pubblico. Al contrario, ne diffidava. Quando The Americans uscì nel 1958, fu accolto con freddezza e sospetto: troppo cupo, troppo informale, troppo distante dalla narrazione ottimista dell’America postbellica. Frank non rispose alle critiche, non spiegò le sue immagini, non cercò l’approvazione. Anche quando il suo lavoro venne rivalutato, lui si ritirò dal centro dell’attenzione. A metà degli anni Sessanta, lasciò la fotografia commerciale e si rifugiò nella dimensione più personale del film, del diario, della casa. Per lui, il valore dell’immagine stava nella sua capacità di sopravvivere al tempo, non nell’immediata ricezione.
Eppure lo smartphone, con la sua connessione istantanea al mondo, avrebbe potuto esercitare su di lui una strana attrazione. La possibilità di scattare, archiviare, dimenticare, oppure scattare, condividere e poi sparire, si sarebbe inserita perfettamente nel suo modo errante di pensare la fotografia. Frank non avrebbe usato Instagram per fare community, né TikTok per diventare un “creatore di contenuti”. Ma avrebbe potuto inviare fotografie criptiche via MMS, o aprire un profilo anonimo dove pubblicare immagini senza contesto, senza nome, senza geolocalizzazione. Una forma di sabotaggio dell’identità autoriale.
La fotografia, per lui, era un atto privato che finiva per diventare pubblico per necessità, non per ambizione. L’uso dello smartphone gli avrebbe permesso di rendere ancora più fragile e interstiziale questa linea: immagini salvate nella galleria e mai pubblicate, screenshot di sguardi altrui, fotografie inviate una sola volta, in un gruppo chiuso, poi perse nei flussi digitali. La condivisione come smarrimento, non come visibilità.
Frank diffidava dei musei, delle cornici, della carta patinata. Le sue fotografie sono sopravvissute nonostante il sistema dell’arte, non grazie ad esso. In questo senso, la fotografia digitale mobile sarebbe stata per lui una benedizione: nessuna stampa, nessuna esposizione, nessun collezionista. Solo file. Fragili, compressi, cancellabili. Una fotografia che non accumula, ma si dissolve. Forse, in un universo parallelo, Robert Frank avrebbe fotografato compulsivamente e poi cancellato tutto, come esercizio di disobbedienza. O avrebbe affidato le sue immagini a un cloud sconosciuto, in una cartella dal nome sbagliato, lasciando che venissero trovate per caso, come negativi dimenticati in una soffitta digitale.
È difficile immaginare Frank preoccupato dell’editing, dei preset, dell’algoritmo. La sua postproduzione era assente, o estremamente limitata. Il suo processo era artigianale, ma non decorativo. L’editing, nel suo caso, non era estetico ma narrativo. In questo senso, una funzione come Google Photos o Apple Memories – che genera automaticamente raccolte e montaggi – gli sarebbe apparsa come una caricatura del suo lavoro. Ma forse avrebbe trovato un modo per manipolare anche questo: confondere l’algoritmo, fargli generare raccolte sbagliate, mischiare gli anni, le persone, i luoghi. Un nuovo caos narrativo, involontario e quindi perfetto.
Ciò che davvero avrebbe affascinato Frank è la possibilità di fotografare senza destino. Lo smartphone rende ogni scatto al tempo stesso eterno e volatile. Le immagini possono essere archiviate per decenni o svanire nel tempo di un messaggio. Questo gioco tra permanenza e oblio si lega profondamente alla sua poetica. Nei suoi film sperimentali degli anni Settanta e Ottanta – Conversations in Vermont, About Me: A Musical – Frank esplora la frattura tra memoria e perdita, tra ciò che si trattiene e ciò che scivola via. Lo smartphone gli avrebbe offerto uno spazio nuovo, invisibile, in cui abitare questa tensione.
Non va dimenticato, infine, il tema del viaggio, centrale nella sua opera. Frank era un nomade. Attraversava l’America su una Ford, attraversava le emozioni come si attraversano gli stati: con attenzione malinconica, con apertura brutale. Lo smartphone avrebbe potuto accompagnarlo come un taccuino silenzioso, capace di registrare la desolazione di un motel, la luce sporca di una pompa di benzina, l’attesa senza scopo in una stazione. Avrebbe scattato senza dover sostare, avrebbe catturato senza doversi rivelare. Un archivio portatile della distanza.
Nessuna immagine di Frank era pensata per la viralità. Nessuna avrebbe cercato “engagement”. Il suo gesto fotografico era privato, radicale, ostile alla spettacolarizzazione. Ma proprio per questo, se avesse scelto di usare lo smartphone, lo avrebbe fatto per sparire ancora meglio. Fotografare per dimenticare. Guardare per non appartenere. Scrivere il mondo con immagini che non hanno bisogno di essere trovate.

Mi chiamo Giorgio Andreoli, ho 55 anni e da sempre affianco alla mia carriera da manager una profonda passione per la fotografia. Scattare immagini è per me molto più di un hobby: è un modo per osservare il mondo con occhi diversi, per cogliere dettagli che spesso sfuggono nella frenesia quotidiana. Amo la fotografia analogica tanto quanto quella digitale, e nel corso degli anni ho accumulato esperienza sia sul campo sia nello studio della storia della fotografia, delle sue tecniche e dei suoi protagonisti. Su storiadellafotografia.com condivido riflessioni, analisi e racconti che nascono dal connubio tra approccio pratico e visione storica, con l’intento di avvicinare lettori curiosi e appassionati a questo straordinario linguaggio visivo.