La fotografia di paesaggio nasce negli stessi anni in cui gli otturatori venivano perfezionati e le emulsioni rese più sensibili: intorno alla metà del XIX secolo, il dagherrotipo inventato da Louis Daguerre nel 1839 e il calotipo di William Henry Fox Talbot del 1840 aprirono ai fotografi la possibilità di fissare su lastre o carta la vastità della natura. Le prime immagini erano realizzate con apparecchiature ingombranti, talvolta costituite da vere e proprie carrozze‑laboratorio: il fotografo trasportava con sé bacinelle di sviluppo e bagni di fissaggio, treppiedi di legno, lastre di vetro umide al collodio e lampade ad acetilene per le esposizioni notturne.
Questi pionieri non cercavano solo di documentare la pura topografia ma di catturare la sublimità della natura, concetto caro ai pittori romantici come Caspar David Friedrich. Le montagne, le cascate e i boschi venivano inquadrati con un’attenzione alla composizione ereditata dalla pittura: il soggetto principale in primo piano, la prospettiva profonda e un equilibrio tra luci e ombre, esaltato dal contrasto delle emulsioni salate e del collodio umido. Nel 1850 Carleton Watkins si spinse fino alla Sierra Nevada, realizzando lastre 30×40 cm di Yosemite e del Mariposa Grove: le sue immagini, caratterizzate da dettagli minuti e un’eccezionale definizione, divennero cartoline per i membri del Congresso americano, suscitando l’interesse per la protezione dei parchi nazionali.
Nel frattempo in Europa Gustave Le Gray sperimentava la combination printing, unendo due negativi separati per cielo e paesaggio, sempre inchiostrati a mano con mascherine di cartone. Il suo celebre “Tempesta sul mare” (1856) mostrava onde frangenti e nubi tempestose, prodotte dalla sovrapposizione di due negativi: uno ottenuto con esposizione breve per mantenere i dettagli delle nuvole, l’altro con esposizione più lunga per illuminare la superficie dell’acqua. Questa tecnica anticipava il moderno HDR (high dynamic range), permettendo di bilanciare i luminari estremi che le tecniche originali non avrebbero mai potuto catturare in un singolo scatto chimico.
Nella seconda metà del secolo si diffondono le fotocamere a soffietto con grandi formati come il graflex 4×5 inch e le Graflex 8×10, dotate di ottiche anastigmatiche multi‑elemento. Queste macchine, montate su treppiedi in legno di faggio o betulla e corredate di piani di messa a fuoco micrometrici, garantivano uno spostamento del vetro dell’ottica fino a 10 cm, permettendo di correggere la prospettiva nelle riprese di edifici e vette rocciose. Gli obiettivi, spesso Taglione o later aplanatici, e i trattamenti antiriflesso appena introdotti miglioravano il microcontrasto e riducevano la fringing cromatica. Le lastre di vetro venivano sensibilizzate con collodio al 12 g per 100 ml, immersi in bagni di nitrato d’argento a 25 g/l, e sviluppate con solfato ferroso a 50 g/l e acido acetico diluito per imprimere ogni particolare del paesaggio.
Durante questi anni la stampa raggiunse vette di perfezione con il processo al platino/palladio. Sviluppato tra gli anni 1870 e 1880, prevedeva l’utilizzo di sali di platino e palladio per creare stampe dal tono morbido e dalla gamma tonale pressoché infinita. La preparazione richiedeva l’applicazione di una miscela di cloroplatinato di potassio, cloropalladico, acido ossalico e acido citrico su carta cotone, asciugatura in ambiente controllato e stampa a contatto per 3–5 minuti sotto una sorgente UV. La rimozione dei sali residui avveniva in bagni di acido cloridrico e acido ossalico, conferendo alle stampe una stabilità chimica superiore a cento anni. Grazie a questa tecnica, i paesaggi di Edward Steichen e Clarence White divennero “quadri” di luce, con ombre profonde e luci delicate che sembravano dipinte con la matita.
Modernismo, colore e nuove forme espressive nel Novecento
Con l’avvento del XX secolo, la fotografia di paesaggio sperimenta un’evoluzione sia tecnologica che stilistica. L’introduzione del minor format 35 mm da parte di Leica nel 1925 accelerò i tempi di scatto e consentì ai fotografi di muoversi con maggior leggerezza. Sebbene il formato medio e grande formato rimanessero privilegiati per la massima qualità, il 35 mm permise la nascita di una concezione più spontanea, “istintiva”, del paesaggio: la ricerca dell’istante decisivo coinvolse anche le vedute naturali, con riprese scattate in rapido movimento, senza treppiede.
Parallelamente, Ansel Adams elevò la fotografia di paesaggio a forma d’arte pura con il suo Zone System, un metodo rigoroso per il controllo delle esposizioni e dello sviluppo chimico. Dividendo la scala tonale in undici zone da 0 a X, Adams e il suo gruppo del f/64 (tra cui Imogen Cunningham e Edward Weston) promuovevano obiettivi a grande apertura, come i grandangolari Zeiss 21 mm f/4.5, per ottenere elevata definizione e profondità di campo. La stampa in camera oscura, con ingranditori a condensatore e filtri di contrasto, permetteva di enfatizzare le texture della roccia, il dettaglio delle foglie e la trama della neve con una chiarezza mai vista. Adams immortalò i paesaggi dell’Ovest americano—Yosemite, Glacier National Park, Tetons—trasformandoli in icone di una natura incontaminata.
In Europa, minor nostalgie romanticismo lasciò spazio a visioni più sintetiche e grafiche: Minor White e Paul Strand sperimentarono composizioni astratte, isolando elementi geometrici di rocce e alberi, mentre Edward Weston si spinse verso un’astrazione organica di dune e foreste, usando lastre 8×10 inch e obiettivi a focale lunga per accentuare la prospettiva compressa. La stampa palladio e la tecnica della gomma bicromata divennero strumenti per sperimentare trasparenze e texture dove il paesaggio si trasformava in superfici astratte.
L’introduzione delle pellicole colore a partire dagli anni Trenta – Kodachrome (1935), Ektachrome (1946) e Fujichrome (1954) – rivoluzionò la fotografia di paesaggio. I primi pionieri, come Galen Rowell, usarono diafilm a contrasto elevato per catturare albe e tramonti, disegnarono grafici delle curve di risposta spettrale delle emulsioni e applicarono tecniche di filtro arancione o giallo per aumentare la nitidezza del cielo. Rowell sviluppò il concetto di “previsualizzazione”: anteporre mentalmente la resa finale della diapositiva allo scatto, calcolando l’esposizione con esposimetri TTL, valutando la reciproca influenza di apertura e tempo di posa per ottenere saturazioni vivide e dettagli prolungati nelle ombre.
Negli anni Sessanta‑Settanta maturò una sensibilità ambientalista che influenzò la fotografia di paesaggio come forma di impegno civile. Ansel Adams stesso divenne attivo nel Sierra Club, organizzando mostre di paesaggi per sostenere leggi di protezione ambientale. Documentare la bellezza non fu più un esercizio estetico fine a sé stesso, ma un argomento per provocare dibattiti pubblici. Festival come The International Center of Photography’s Open e mostre al Museum of Modern Art di New York trasformarono i paesaggi in immagini dall’alto valore simbolico.
Dalla rivoluzione digitale all’era dei droni e della sostenibilità
A cavallo del XXI secolo la fotografia di paesaggio attraversa la sua rivoluzione più drastica: l’abbandono della pellicola in favore del sensore digitale. I primi modelli di reflex digitali full‑frame, come la Nikon D1 (1999) e la Canon EOS‑1Ds (2002), introdussero risoluzioni di 6–11 megapixel, dinamica di 8 stop e sensibilità fino a ISO 1600 in RAW. Questi parametri tecnici permisero di catturare dettagli precedentemente irraggiungibili nelle alte luci e nelle ombre profonde, anticipando i moderni sistemi HDR, che sfruttano scatti bracketting su tre o più esposizioni per ottenere un’unica immagine a gamma dinamica estesa.
Le ottiche evolsero parallelamente: comparvero i grandangolari tilt‑shift (ad esempio il Canon TS‑EF 17 mm f/4L) capaci di correggere la prospettiva senza ricorrere a processi di post‑produzione, grazie al controllo meccanico dello spostamento del piano focale. Gli obiettivi con rivestimento antiriflesso a nanostrati mul‑tistrato resero i flare un’eccezione anziché la norma, migliorando il microcontrasto. I filtri a densità neutra variabile e i sistemi di polarizzazione elettronica permisero di modulare l’intensità delle luci riflesse e di ridurre i riflessi indesiderati su acqua e foglie.
Con l’avvento dei drone dotati di fotocamere integrate (DJI Phantom 3 nel 2015, Inspire 2 nel 2017), la prospettiva aerea è diventata accessibile a fotografi amatoriali. Si è diffusa la fotogrammetria per la creazione di modelli 3D di paesaggi, sfruttando decine di scatti sovrapposti e software come Agisoft Metashape e RealityCapture. Questi modelli sono utilizzati non solo in ambito artistico, ma anche in architettura del paesaggio, geologia e monitoraggio ambientale: riprese periodiche permettono di valutare l’erosione costiera, il ritiro dei ghiacciai e la crescita urbana.
L’integrazione tra fotografia di paesaggio e realtà virtuale (VR) e aumentata (AR) apre nuove strade: campi di grano catturati con rig fino a 360° generano ambienti immersivi visitabili con Oculus Rift o HTC Vive, mentre app AR consentono di sovrapporre reti di contorno del terreno a una vista reale, visualizzando curve di livello e dati topografici. Queste applicazioni trovano spazio anche nella didattica e nella ricerca: studenti di geoscienze esplorano vulcani in simulazioni stereoscopiche, operatori di parchi naturali analizzano la biodiversità in habitat protetti grazie a overlay di specie vegetali e animali.
Negli ultimi anni, la sostenibilità è diventata un imperativo: i fotografi di paesaggio si impegnano in workshop di fototravel ecologico, preferendo mezzi di trasporto a basso impatto, soggiorni in eco‑lodge certificati e protezioni solari biodegradabili. I progetti di citizen science, come il monitoraggio delle correnti marine con boe fotocamera integrate, uniscono ricerca ambientale e fotografia. Le mostre collettive e le piattaforme online, come Globe‑Photo e OurPlanet, promuovono la condivisione di scatti che raccontano i cambiamenti climatici, trasformando la fotografia di paesaggio in strumento di advocacy.
Articolo aggiornato Luglio 2025

Sono Manuela, autrice e amministratrice del sito web www.storiadellafotografia.com. La mia passione per la fotografia è nata molti anni fa, e da allora ho dedicato la mia vita professionale a esplorare e condividere la sua storia affascinante.
Con una solida formazione accademica in storia dell’arte, ho sviluppato una profonda comprensione delle intersezioni tra fotografia, cultura e società. Credo fermamente che la fotografia non sia solo una forma d’arte, ma anche un potente strumento di comunicazione e un prezioso archivio della nostra memoria collettiva.
La mia esperienza si estende oltre la scrittura; curo mostre fotografiche e pubblico articoli su riviste specializzate. Ho un occhio attento ai dettagli e cerco sempre di contestualizzare le opere fotografiche all’interno delle correnti storiche e sociali.
Attraverso il mio sito, offro una panoramica completa delle tappe fondamentali della fotografia, dai primi esperimenti ottocenteschi alle tecnologie digitali contemporanee. La mia missione è educare e ispirare, sottolineando l’importanza della fotografia come linguaggio universale.
Sono anche una sostenitrice della conservazione della memoria visiva. Ritengo che le immagini abbiano il potere di raccontare storie e preservare momenti significativi. Con un approccio critico e riflessivo, invito i miei lettori a considerare il valore estetico e l’impatto culturale delle fotografie.
Oltre al mio lavoro online, sono autrice di libri dedicati alla fotografia. La mia dedizione a questo campo continua a ispirare coloro che si avvicinano a questa forma d’arte. Il mio obiettivo è presentare la fotografia in modo chiaro e professionale, dimostrando la mia passione e competenza. Cerco di mantenere un equilibrio tra un tono formale e un registro comunicativo accessibile, per coinvolgere un pubblico ampio.