Fin dai primi esperimenti con il dagherrotipo e il calotipo nei primi decenni del XIX secolo, la fotografia si è confrontata con un’esigenza fondamentale: regolare il tempo di esposizione in modo affidabile. Inizialmente, tutto ciò dipendeva da un tappo manuale o da una lastra rimovibile davanti all’obiettivo: si rimuoveva il tappo, si attendeva un tempo stimato e si richiudeva. Con emulsioni a bassa sensibilità e tempi molto lunghi, quell’approccio funzionava, ma mancava di precisione, ripetibilità ed erogazione del tempo con continuità.
Con l’affermarsi del collodio umido e poi della gelatina su lastre e pellicola, si rese evidente la necessità di un meccanismo più controllato. Verso la metà del XIX secolo si diffuse il primo tipo di otturatore a tendina metallica o a ghigliottina, montato davanti all’obiettivo. Questo dispositivo, costituito da una lastra metallica a scorrimento, permetteva di registrare frammenti di tempo molto più brevi e controllabili. Il movimento poteva essere azionato manualmente, attraverso una molla o una struttura a gravità, con tempi che andavano da qualche frazione di secondo a decimi. Il meccanismo richiedeva regolazioni precise, bilanciamento della forza della molla e scorrimento uniforme: la realizzazione tecnica era spesso affidata a specialisti meccanici.
Dal punto di vista tecnico, questi otturatori primitivi soffrivano di varie problematiche: mancava la sincronizzazione con il gesto del fotografo, la velocità massima era limitata a circa 1/50 s o 1/25 s, e la curva di esposizione non era stabile. La disuniformità poteva causare sovraesposizione su una parte dell’immagine e sottoesposizione sull’altra. Il controllo usciva solo attraverso taratura manuale e ri-registrazioni empiriche. Il segmento successivo di ricerca tecnica ruotò intorno alla molla a spirale e alla regolazione fine del tensionamento, in modo da ottenere tempi coerenti, affidabili e misurabili.
Questa fase fu cruciale per stabilizzare la fotografia come pratica reproducibile. Tra il 1870 e il 1900, molte società ottiche, tra cui Voigtländer, Dallmeyer e Ross, perfezionarono otturatori a “tenda metallica verticale” e cominciarono a introdurre scale di tempo visibili sul corpo macchina. Gli obiettivi equipaggiati con questi otturatori permettevano esposizioni da 1 secondo a circa 1/100 di secondo, sufficienti per la fotografia da studio e i primi ambienti industriali.
La rivoluzione degli otturatori a settore: precisione e tempi rapidi
All’inizio del XX secolo si affermarono gli otturatori a settore rotante, spesso detti “a disco centrale”, installati all’interno dell’ottica o appena davanti al diaframma. Questo meccanismo consisteva in un disco metallico con una apertura a circa metà diametro, che ruotava a velocità controllata su un asse. All’azione del comando di scatto, una molla faceva ruotare il disco velocemente, portando l’apertura a far passare la luce su tutto il formato in un tempo determinato. Era un sistema più compatto ed efficiente di quelli a tenda, e permetteva di raggiungere tempi come 1/250, 1/500 e perfino 1/1000 di secondo se calibrato con precisione.
Il vantaggio tecnico più evidente era la costanza della durata dell’apertura. Il disco ruotava sempre alla stessa velocità, garantendo una costante proporzione tra tempo e apertura. Inoltre, poiché il movimento era rotatorio, le vibrazioni tendenti a deformare la traiettoria dell’otturatore erano minime. Il controllo sul tempo era garantito da una molla calibrata e da un freno interno (spesso una lamina frenante) che garantiva la costanza. La taratura era generalmente manuale: ogni scatto richiedeva un riarmamento della molla tramite una manopola, e il fotografo doveva scegliere manualmente la velocità desiderata.
Il disco centrale era adatto a corpi macchina compatti e registrava tempi rapidi fino a 1/1000 s, una soglia impossibile da raggiungere con le tendine frontali dell’epoca. Ciò rese questo tipo di otturatore perfetto per fotocamere compatte con obiettivi fissi e per i primi modelli da reportage. La stabilità meccanica permetteva uno scatto nitido anche in condizioni di azione rapida, come sport o reportages.
Il meccanismo restava comunque ingombrante all’interno dell’obiettivo, costringeva a corpi con profondità consistente e richiedeva materiali di qualità (ottone, acciaio inox, resine isolate) per garantire durata e coerenza nel tempo. Nonostante ciò, tale meccanismo dominò la fotografia moderna fino alla diffusione delle fotocamere a telemetro e reflex compatte negli anni ’50 e ’60.
L’avvento degli otturatori a tendina in corpo macchina: compattezza e versatilità
Con l’evoluzione delle fotocamere compatte e delle reflex degli anni Quaranta e Cinquanta, un nuovo tipo di otturatore nacque all’interno del corpo macchina: il curtain shutter, o otturatore a tendina in tessuto. Il sistema prevedeva due tendine (denominate first and second curtain) che scorrevano su guide frontali o frontale e posteriore, aprendo e chiudendo il riquadro di esposizione. Il tempo di esposizione era determinato dalla distanza temporale tra la partenza della prima e dell’ultima tendina.
Questo design permetteva alla luce di raggiungere il formato pellicola direttamente, interna alla camera, con tempi di scatto anche fino a 1/1000 o 1/2000 s, a seconda della perfezione del meccanismo. L’indubbio vantaggio fu la minore profondità della fotocamera, che diventò più compatta, compatibile con pellicole 35 mm. La scelta del tessuto (kevlar, seta cerata, pongé) era cruciale per evitare l’usura e l’allungamento: il tendine doveva essere robusto e flessibile, con un sistema di tensionamento costante e un freno meccanico per fermarlo con precisione.
La costruzione interna era gestita dalla tecnologia dell’orologeria: molle avvolgibili, ruote dentate, placche ritardanti. Il fotografo doveva armare manualmente le tendine, con una leva o una rotella, caricando le molle interne. Il rilascio era governato da un comando meccanico (scatto a pulsante), che liberava le molle in modo sincrono. Le versioni evolute incorporavano anche automatismi con esposimetro: il processo era misurato da un fotocellula o da un sistema al silicio che calcolava il tempo e inviava segnali per arrestare la tendina.
Questo otturatore ribaltò l’equilibrio tra compattezza e prestazione. Le reflex come la Exakta, la Nikon F, la Canon IV Sb o la Pentax Spotmatic resero popolare questo sistema, consentendo tempi rapidi e sincronia con il flash. Il sogno di una fotocamera maneggevole e precisa divenne realtà grazie al curtain shutter. Tecnicamente, il motore semplificato funzionava su microfrizioni interne, limitatori di scatto e guide metalliche rivestite per ridurre l’attrito e garantire coerenza tra scatti.
Otturatori elettronici e tempi ultraveloce: l’epoca della precisione digitale
Negli anni Settanta e Ottanta si diffusero otturatori elettromeccanici, dove i tempi non erano più determinati dalla pura meccanica, ma gestiti elettronicamente. La fotocamera moderna dotata di esposimetro TTL calcolava il tempo necessario e inviava un segnale a un circuito che controllava il movimento delle tendine, oppure di un otturatore centrale elettronico allo xenon o lampade a scarica. In alcuni modelli avanzati, come la Contax RTS o la Minolta XE, il tempo era governato da un chip preciso che permetteva tempi di 1/2000 s fino a 1/8000 s, garantendo una coerenza elevata tra i modelli di scatto. Il ritardo era di pochi millisecondi, la risposta era consistente.
Parallelamente nacquero gli otturatori focal-plane elettronici, che sfruttavano la pellicola stessa o il sensore per attivarsi a impulsi elettrici con tempi brevissimi, integrati a sistemi flash sincronizzati fino a 1/8000 s o oltre. L’idea era di controllare il flusso luminoso in modo digitale, abbinando apertura automatica e otturatore elettronico: la tensione era proporzionale al tempo di scatto. Tecnologicamente, ciò implicava fotocellule, condensatori elettronici, software di temporizzazione, display LCD per il tempo, e batterie dedicate.
Queste soluzioni resero obsolete gli otturatori meccanici tradizionali. Le sfide furono legate alla stabilità della batteria e alla resistenza alle temperature estreme. I costrutti meccanici vennero così alleggeriti, consentendo l’adozione del sistema in fotocamere compatte automatiche, con mirino TTL e modalità programmate. I controlli erano gestiti da microprocessori che ricevevano segnali dall’esposimetro e attivavano i motori interni. Anche l’usura meccanica venne ridotta, benché i costi di riparazione divennero più elevati per la presenza di componentistica elettronica avanzata.

Sono Manuela, autrice e amministratrice del sito web www.storiadellafotografia.com. La mia passione per la fotografia è nata molti anni fa, e da allora ho dedicato la mia vita professionale a esplorare e condividere la sua storia affascinante.
Con una solida formazione accademica in storia dell’arte, ho sviluppato una profonda comprensione delle intersezioni tra fotografia, cultura e società. Credo fermamente che la fotografia non sia solo una forma d’arte, ma anche un potente strumento di comunicazione e un prezioso archivio della nostra memoria collettiva.
La mia esperienza si estende oltre la scrittura; curo mostre fotografiche e pubblico articoli su riviste specializzate. Ho un occhio attento ai dettagli e cerco sempre di contestualizzare le opere fotografiche all’interno delle correnti storiche e sociali.
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Sono anche una sostenitrice della conservazione della memoria visiva. Ritengo che le immagini abbiano il potere di raccontare storie e preservare momenti significativi. Con un approccio critico e riflessivo, invito i miei lettori a considerare il valore estetico e l’impatto culturale delle fotografie.
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