Quando si affronta la storia della fotografia, le due parole che emergono con più forza nel lessico tecnico e culturale sono dagherrotipo e calotipia. Questi due procedimenti, entrambi sviluppati negli anni Trenta e Quaranta dell’Ottocento, non rappresentano soltanto due tappe consecutive, ma due approcci radicalmente diversi al problema di catturare la luce e renderla permanente su un supporto. L’idea di opporre i due sistemi non nasce soltanto da una semplificazione manualistica, ma corrisponde a un vero confronto calotipia con il dagherrotipo, fondato su questioni materiali, ottiche e chimiche che hanno segnato la storia tecnica della fotografia.
Il dagherrotipo, presentato ufficialmente nel 1839 da Louis Daguerre, faceva uso di una lastra di rame argentata sensibilizzata con vapori di iodio, che formavano ioduro d’argento sulla superficie metallica. Dopo l’esposizione nella camera oscura, l’immagine latente veniva sviluppata con vapori di mercurio e fissata con una soluzione di tiosolfato di sodio o, nei primi anni, con acqua salata. Il risultato era un’unica immagine diretta, positiva, caratterizzata da una straordinaria nitidezza ma priva di possibilità di riproduzione. Ogni dagherrotipo era un pezzo unico.
La calotipia, inventata da William Henry Fox Talbot nel 1841, rappresentò invece un cambio di paradigma. L’immagine non veniva più formata su un supporto metallico ma su carta salata sensibilizzata ai sali d’argento, che produceva un negativo dal quale si potevano stampare più positivi per contatto. Questo introdusse il concetto di negativo-positivo, destinato a dominare la fotografia per oltre un secolo. La qualità dell’immagine era inferiore in termini di definizione, poiché la fibra della carta creava una grana visibile, ma offriva la grande innovazione della riproducibilità.
Queste due strade parallele, una basata sull’unicità e l’altra sulla replicabilità, incarnano la tensione tra l’oggetto fotografico come manufatto irripetibile e la fotografia come processo industriale. Per capire le differenze tecniche che separano dagherrotipo e calotipia è necessario entrare nel cuore dei procedimenti, dei materiali impiegati e delle pratiche che ne derivarono.
Il dagherrotipo: nitidezza e unicità
Il dagherrotipo fu il primo procedimento fotografico a diffondersi su larga scala, e nonostante la sua apparente semplicità, nascondeva una serie di passaggi tecnici complessi. La lastra di rame veniva dapprima accuratamente lucidata con pomice e carbone, fino a diventare uno specchio perfetto, quindi ricoperta da uno strato sottilissimo di argento. Questo strato, a contatto con i vapori di iodio, formava ioduro d’argento, sensibile alla luce. La sensibilizzazione poteva essere variata anche con vapori di bromo o cloro per aumentare la sensibilità e ridurre i tempi di esposizione, che inizialmente arrivavano a diversi minuti.
L’esposizione avveniva in una camera oscura dotata di obiettivi acromatici progettati per concentrare la luce sul piano della lastra. La luce incideva direttamente sul rivestimento d’argento iodato, creando un’immagine latente che era invisibile a occhio nudo. Questa immagine veniva poi sviluppata con vapori di mercurio riscaldato: le particelle di mercurio si amalgamavano alle zone impressionate, creando un’immagine luminosa con straordinario livello di dettaglio. Infine, il fissaggio avveniva tramite immersione in una soluzione di iposolfito di sodio, capace di dissolvere i sali non impressionati.
Il risultato era una superficie metallica specchiante, in grado di restituire immagini di eccezionale nitidezza e microcontrasto. I dagherrotipi potevano rendere visibili dettagli come singoli capelli o venature di tessuti, cosa che la calotipia non riuscì mai a raggiungere. Tuttavia, la fragilità della superficie, facilmente ossidabile e soggetta a graffi, richiedeva la protezione con vetro e cornici sigillate. L’altro limite, ben noto già ai contemporanei, era l’impossibilità di ottenere copie: ogni dagherrotipo era irripetibile.
Per queste ragioni, il dagherrotipo si affermò come strumento privilegiato per il ritratto borghese degli anni Quaranta e Cinquanta dell’Ottocento, un oggetto di lusso e intimità domestica, ma non poté svilupparsi come sistema di riproduzione diffusa delle immagini. Il confronto con la calotipia mette in evidenza come l’elevata definizione del dagherrotipo fosse bilanciata dal suo limite riproduttivo.
La calotipia: il negativo su carta
La calotipia di Talbot nasceva da un’intuizione diversa. Egli non cercava l’unicità assoluta, ma un metodo per ottenere più copie da un singolo scatto. Preparava fogli di carta scrupolosamente selezionati e trattati con una soluzione di nitrato d’argento e ioduro di potassio, che formava ioduro d’argento nelle fibre. Prima dell’esposizione, i fogli venivano resi più sensibili con una miscela di nitrato d’argento e acido gallico, da cui il nome di “processo gallico”. Dopo l’esposizione, che richiedeva comunque alcuni minuti, l’immagine latente veniva sviluppata applicando ulteriori soluzioni di acido gallico e nitrato d’argento. Il fissaggio si otteneva anch’esso con iposolfito di sodio.
Il risultato era un negativo su carta. Questo, messo a contatto con un altro foglio di carta sensibilizzata, permetteva di ottenere copie positive per esposizione alla luce solare. Sebbene la qualità dell’immagine fosse inferiore rispetto al dagherrotipo, per via della trama della carta che riduceva la nitidezza e introduceva una sorta di grana naturale, la possibilità di ottenere multipli positivi costituì una rivoluzione. Per la prima volta, un’immagine fotografica poteva circolare in più esemplari, essere condivisa, studiata, venduta.
Dal punto di vista tecnico, il confronto calotipia con il dagherrotipo mette in luce un compromesso tra qualità e riproducibilità. Il dagherrotipo offriva la massima precisione, ma in esemplare unico; la calotipia sacrificava la definizione a favore della diffusione. Questo schema avrebbe poi influenzato tutte le innovazioni successive, dai negativi su vetro alla pellicola flessibile, fino alla fotografia digitale.
Un altro aspetto importante della calotipia è il carattere artigianale del processo. Ogni fotografo doveva prepararsi da sé i fogli, trattandoli chimicamente e conservandoli fino al momento dell’uso. Questo rendeva il procedimento meno immediato, ma anche più accessibile economicamente rispetto alle lastre argentate dei dagherrotipi. L’aspetto testurale della carta, con le sue fibre visibili, venne anche valorizzato da alcuni fotografi come elemento estetico distintivo, aprendo la strada a una sensibilità artistica che il dagherrotipo, più freddo e tecnico, non contemplava.
Differenti dagherrotipo calotipia: un confronto tecnico
Se ci concentriamo sul confronto calotipia e dagherrotipo in termini strettamente tecnici, emergono alcune differenze fondamentali. La prima riguarda il supporto: metallo lucido nel primo caso, carta sensibilizzata nel secondo. Questo porta a differenze radicali nella resa dell’immagine. Il dagherrotipo, grazie alla superficie metallica perfettamente liscia, garantiva una resa estremamente precisa, tanto da essere utilizzato anche per applicazioni scientifiche e topografiche. La calotipia, con la sua base cartacea, produceva immagini più morbide, talvolta sfocate, con un effetto atmosferico che alcuni considerarono difetto e altri qualità poetica.
La seconda differenza cruciale riguarda la riproducibilità. Il dagherrotipo era irripetibile: un singolo esemplare non poteva essere duplicato senza ricorrere a stratagemmi ottici, come la copia fotografica del dagherrotipo stesso, con notevole perdita di qualità. La calotipia, al contrario, introduceva il principio negativo-positivo, aprendo la strada alla serialità dell’immagine fotografica. Questo aspetto tecnico fu determinante per l’uso documentario e scientifico della fotografia, che richiedeva la circolazione di copie.
Un ulteriore elemento da considerare è la durata dei tempi di esposizione. I primi dagherrotipi richiedevano esposizioni lunghissime, anche di dieci o venti minuti, che rendevano complicato il ritratto e generavano immagini statiche, con soggetti spesso sorretti da supporti metallici. L’introduzione di vapori di bromo e cloro ridusse questi tempi, ma il problema rimase. La calotipia, pur non essendo molto più sensibile, consentiva però di migliorare i tempi grazie allo sviluppo chimico dell’immagine latente, una novità che il dagherrotipo non contemplava. Questa possibilità di sviluppo differito rese la calotipia più versatile e aprì la strada alle tecniche successive.
Infine, va considerata la dimensione economica e sociale. Il dagherrotipo era costoso, richiedeva materiali preziosi e strumenti specializzati, e divenne presto un bene di lusso, appannaggio delle élite urbane. La calotipia, sebbene complessa, era più economica e accessibile, permettendo a un pubblico più vasto di avvicinarsi alla pratica fotografica. Da qui la sua diffusione tra viaggiatori, studiosi e artisti, che la impiegarono per documentare paesaggi, monumenti e scene di vita quotidiana.
Implicazioni estetiche e storiche delle due tecniche
Il confronto tra dagherrotipo e calotipia non può esaurirsi nella chimica o nell’ottica: esso ebbe ricadute estetiche profonde. I dagherrotipi furono ammirati per il loro realismo quasi spettrale, una resa che sembrava più precisa della pittura stessa. Tuttavia, proprio questa perfezione visiva suscitava talvolta inquietudine. La calotipia, con la sua morbidezza intrinseca e la grana della carta, dava invece luogo a immagini meno definite ma più evocative, che molti critici e artisti percepirono come più vicine alla sensibilità pittorica.
Dal punto di vista storico, il dagherrotipo dominò i decenni 1840-1850 come strumento di ritratto borghese, mentre la calotipia, pur non raggiungendo mai la stessa diffusione commerciale, gettò le basi per la fotografia moderna attraverso il concetto di negativo. La linea che porta al collodio umido, alle lastre al gelatino-bromuro e infine alla pellicola di cellulosa parte proprio dalla calotipia.
Guardando al confronto calotipia con il dagherrotipo, emerge come i due procedimenti abbiano incarnato le contraddizioni fondative della fotografia: unicità contro riproduzione, precisione contro interpretazione, lusso contro accessibilità. Ancora oggi, gli storici della fotografia sottolineano come la tensione tra questi poli attraversi l’intera vicenda del medium, fino alla contemporaneità digitale.
Mi chiamo Alessandro Druilio e da oltre trent’anni mi occupo di storia della fotografia, una passione nata durante l’adolescenza e coltivata nel tempo con studio, collezionismo e ricerca. Ho sempre creduto che la fotografia non sia soltanto un mezzo tecnico, ma uno specchio profondo della cultura, della società e dell’immaginario di ogni epoca. Su storiadellafotografia.com condivido articoli, approfondimenti e curiosità per valorizzare il patrimonio fotografico e raccontare le storie, spesso dimenticate, di autori, macchine e correnti che hanno segnato questo affascinante linguaggio visivo.


