Daidō Moriyama nacque il 10 ottobre 1938 a Ikeda, nella prefettura di Osaka, Giappone, in un periodo storico segnato dalla crisi prebellica e dall’imminente coinvolgimento del Giappone nella Seconda guerra mondiale. La sua infanzia fu segnata dalle difficoltà del dopoguerra: le città distrutte, la scarsità di risorse e il trauma collettivo del conflitto costituirono lo sfondo della sua formazione personale. Questo contesto influenzò profondamente il suo sguardo, orientandolo verso un’osservazione cruda e non idealizzata della realtà urbana.
Inizialmente, Moriyama non intraprese studi artistici formali, ma si avvicinò alla fotografia attraverso un percorso autonomo e con l’aiuto di maestri locali. Dopo essersi trasferito a Tokyo, entrò in contatto con la comunità di fotografi emergenti e si avvicinò al lavoro di Eikoh Hosoe, figura centrale della fotografia giapponese del dopoguerra. Hosoe lo accolse come assistente, e questa esperienza gli permise di acquisire competenze tecniche e di maturare una sensibilità visiva che sarebbe diventata tipica del suo stile.
Moriyama fu presto attratto dal linguaggio del Provoke, il movimento fotografico nato in Giappone nel 1968 che proponeva un’estetica radicale, riassunta nell’espressione giapponese are, bure, boke (granuloso, mosso, sfocato). Questa poetica si contrapponeva alla fotografia documentaria classica e alla ricerca estetizzante, affermando una visione frammentata e soggettiva della realtà.
Oggi Moriyama vive e lavora a Tokyo, continuando a produrre opere e a esporre a livello internazionale. La sua carriera, lunga più di sessant’anni, rappresenta una delle voci più potenti e riconoscibili della fotografia contemporanea mondiale.
Formazione artistica e primi esperimenti fotografici
I primi anni di attività di Moriyama furono strettamente legati al clima di rinnovamento artistico e politico del Giappone degli anni Sessanta. La fotografia divenne per lui uno strumento per interrogare la società in rapida trasformazione, segnata dall’occidentalizzazione, dal consumismo e dalle contraddizioni della modernizzazione postbellica.
Dal punto di vista tecnico, i suoi primi esperimenti si orientarono verso l’uso di macchine fotografiche compatte a pellicola 35 mm, in particolare la Nikon S3 e successivamente la Nikon F, strumenti leggeri e versatili che gli permettevano di muoversi rapidamente nelle strade e di cogliere scene improvvise. Il formato 35 mm, con la sua grana evidente nelle stampe ingrandite, divenne un elemento estetico distintivo del suo linguaggio.
Moriyama iniziò fotografando scene di strada, periferie, insegne, animali randagi, dettagli urbani apparentemente insignificanti ma capaci di rivelare l’essenza della vita quotidiana giapponese. Queste immagini rompevano con la fotografia tradizionale, rifiutando la nitidezza e la compostezza a favore di un linguaggio più sporco, diretto e dissonante.
Sul piano estetico, Moriyama fu influenzato dal lavoro di William Klein e di Andy Warhol, dai quali assimilò rispettivamente la fotografia di strada aggressiva e l’attenzione per la cultura popolare. Allo stesso tempo, mantenne una forte connessione con le tradizioni giapponesi, reinterpretando la città come luogo di alienazione e desiderio.
Durante gli anni Sessanta, le sue immagini iniziarono a circolare sulle principali riviste di fotografia giapponesi, come Asahi Camera e Camera Mainichi. Fu però con l’incontro con il gruppo Provoke (1968–1970) che il suo lavoro raggiunse una dimensione più teorica e rivoluzionaria. Le sue fotografie incarnavano perfettamente l’estetica del movimento: grana grossa, contrasti estremi, sfocature, tagli improvvisi, tutte soluzioni tecniche adottate per destabilizzare la percezione tradizionale dell’immagine.
Carriera fotografica e stile tecnico
La carriera di Moriyama si sviluppò lungo un percorso coerente, caratterizzato dalla costante esplorazione delle possibilità espressive della fotografia analogica in bianco e nero. Negli anni Settanta, dopo lo scioglimento di Provoke, proseguì in maniera indipendente, consolidando un linguaggio personale basato sulla frammentazione visiva.
Tecnicamente, Moriyama utilizzava pellicole ad alta sensibilità ISO, che producevano una grana marcata, enfatizzata poi in fase di stampa. Prediligeva tempi rapidi e inquadrature improvvise, realizzate senza una pianificazione precisa. Questa metodologia rifletteva un approccio esistenziale: la fotografia come esperienza immediata, come gesto che cattura l’attimo senza mediazioni.
La stampa era un momento cruciale del suo processo creativo. Moriyama lavorava spesso con contrasti esasperati, ottenendo neri profondissimi e bianchi bruciati, che conferivano alle sue fotografie un carattere quasi astratto. L’immagine diventava così non una rappresentazione neutra della realtà, ma un frammento di percezione individuale.
Tra i soggetti ricorrenti vi erano le strade di Tokyo, le insegne al neon, i quartieri a luci rosse, i corpi in movimento, i dettagli anonimi di una città sempre in trasformazione. Questa attenzione alla vita urbana fece di Moriyama il principale interprete del Giappone metropolitano postbellico.
Un momento decisivo della sua carriera fu la pubblicazione del libro “Japan: A Photo Theater” (1968), che raccolse una serie di immagini caratterizzate da forte intensità emotiva e da un’estetica radicale. Ancora più celebre fu “Farewell Photography” (1972), un’opera che portò all’estremo la destrutturazione dell’immagine, con fotografie sovraesposte, mosse, frammentate, che mettevano in discussione l’idea stessa di fotografia come mezzo di rappresentazione.
Moriyama si confrontò anche con la fotografia a colori, soprattutto negli anni Ottanta e Novanta, ma il cuore della sua produzione rimane il bianco e nero. La sua scelta non era nostalgica, bensì concettuale: il colore veniva percepito come decorativo, mentre il bianco e nero gli consentiva di mantenere una tensione drammatica ed essenziale.
Opere principali
Il corpus di opere di Daidō Moriyama è vastissimo, comprendendo centinaia di volumi fotografici e decine di migliaia di stampe. Tra le sue opere più significative si collocano i libri fotografici, considerati da lui stesso la forma ideale per presentare il suo lavoro.
“Japan: A Photo Theater” (1968) rappresenta l’esordio editoriale e uno dei manifesti del suo stile: immagini che raccontano un Giappone ambiguo, sospeso tra tradizione e modernità, con un linguaggio visivo aggressivo e non convenzionale.
“Farewell Photography” (1972) è forse il suo libro più radicale. Qui Moriyama porta la fotografia al limite della leggibilità: negativi graffiati, stampe sovraesposte, composizioni casuali. L’opera fu letta come una critica alla pretesa oggettività della fotografia, trasformata in linguaggio personale e frammentario.
Negli anni successivi, opere come “Light and Shadow” (1982) e “Hikari to Kage” confermarono la sua capacità di rinnovare il proprio linguaggio pur mantenendo intatta la radicalità espressiva. Negli anni Novanta la pubblicazione di “Shinjuku” divenne una delle sue opere più iconiche, dedicata al quartiere di Tokyo simbolo della vita notturna e del caos metropolitano.
Oltre ai libri, Moriyama ha esposto in importanti istituzioni internazionali come il San Francisco Museum of Modern Art, la Tate Modern di Londra e il Metropolitan Museum of Art di New York, contribuendo a consolidare il suo ruolo di figura centrale nella fotografia contemporanea.
Ultimi anni e attività contemporanea
Ancora oggi, Daidō Moriyama continua a lavorare con la stessa intensità che lo ha caratterizzato fin dagli esordi. Nonostante l’avvento del digitale, rimane fedele alla fotografia analogica: utilizza macchine compatte a pellicola 35 mm, portate sempre con sé, in una pratica fotografica che diventa quasi un’estensione della vita quotidiana.
Negli ultimi decenni, la sua opera ha ricevuto un riconoscimento sempre più ampio a livello globale. Nel 2012 gli è stato conferito il prestigioso Infinity Award for Lifetime Achievement dall’International Center of Photography di New York. Le sue retrospettive, come quella al Tate Modern di Londra nel 2012, hanno consacrato definitivamente il suo ruolo di maestro della fotografia mondiale.
Il suo lavoro continua a essere pubblicato sotto forma di libri, coerentemente con la sua convinzione che il libro fotografico rappresenti il medium ideale. La serialità delle immagini, la possibilità di accostare fotografie eterogenee in sequenze narrative libere, costituiscono per Moriyama l’essenza stessa della fotografia.
Nell’epoca digitale, la sua scelta di rimanere fedele alla pellicola appare come un atto di resistenza e insieme come una dichiarazione poetica. La sua opera continua a interrogare la realtà urbana, mostrando come la fotografia possa essere un linguaggio in perenne trasformazione e al tempo stesso un diario personale.

Mi chiamo Marco Americi, ho circa 45 anni e da sempre coltivo una profonda passione per la fotografia, intesa non solo come mezzo espressivo ma anche come testimonianza storica e culturale. Nel corso degli anni ho studiato e collezionato fotocamere, riviste, stampe e documenti, sviluppando un forte interesse per tutto ciò che riguarda l’evoluzione tecnica e stilistica della fotografia. Amo scavare nel passato per riportare alla luce autori, correnti e apparecchiature spesso dimenticate, convinto che ogni dettaglio, anche il più piccolo, contribuisca a comporre il grande mosaico della storia dell’immagine. Su storiadellafotografia.com condivido ricerche, approfondimenti e riflessioni, con l’obiettivo di trasmettere il valore documentale e umano della fotografia a un pubblico curioso e appassionato, come me.